di Matteo Santarelli (La Ragione di Stato)
La lista dei partecipanti a Sanremo 2023 ha scatenato un ritornello già sentito in altre sponde e altre occasioni: “Ecco, sono tornati gli anni ’90”.
Paola e Chiara. Gianluca Grignani. La versione dei Cugini di Campagna con Nick Luciani sugli scudi. Interpreti che al di là dei meriti artistici sembravano essere caduti nel dimenticatoio, salvo riemergere dall’inconscio televisivo per brevi apparizioni, talvolta significative – si ricordi l’eliminazione dall’Isola dei famosi di Silvano dei Cugini di Campagna a causa di una dolorosa bestemmia lanciata appena salpato nelle coste honduregne. Artisti rilanciati paradossalmente da operazioni egemoniche aldilà del serio e del faceto, la cui avanguardia politica è la pagina “Sapore di male”, l’equivalente social di Metternich per quanto riguarda la restaurazione degli anni 90.
Quindi tornano davvero gli anni ’90? E se sì, in che forma? Come parodia di un passato già di per sé sbarazzino? Come espressione dell’odierna ossessione per il degrado, che dovrebbe in qualche modo riscattarci dalle miserie del presente? Come rivincita di artisti incompresi, in cerca di rivincita e riabilitazione?
Prima ancora di affrontare tali domande, ha senso chiedersi: “sì però come era davvero Sanremo negli anni 90?”.
Ovviamente non è questa la sede per una risposta dettagliata a tali quesiti. Per chi la volesse, ci sono gli insuperabili volumi del maestro Eddy Anselmi sulla storia di Sanremo – ai quali abbiamo ovviamente anche noi attinto. Per l’occasione, ci limiteremo a discutere alcuni aspetti e alcuni momenti di Sanremo anni 90 che non possiamo e non vogliamo dimenticare, con un particolare focus sui primi anni del decennio.
I duetti internazionali
Dopo alcune edizioni in tono minore di metà anni 80 – con annesso playback su basi preregistrate a togliere tutto il bello della diretta –, per le edizioni di fine decennio le vacche tornano a essere grassissime. Il lusso è tale, che in un’apposita maxi-tensostruttura si alternano ospiti stranieri inimmaginati. Per Sanremo 88 vengono scomodati Harrison al Palarock Barilla – tale il nome della struttura – e McCartney all’Ariston, così per dire.
1988: Paul McCartney e Red Ronnie parlano tra le altre cose di Mino Reitano
Il playback viene del tutto accantonato, e tornano a vincere i campioni del cuore: il bizzarro trio Tozzi-Morandi-Ruggeri nel 1987, il peso massimo Massimo Ranieri nel 1988, la fallica coppia Anna Oxa e Fausto Leali nel 1989. Per l’edizione di cerniera tra i due decenni si conferma il trend di grandeur, probabilmente amplificato dall’imminente mondiale da giocare in casa.
A Sanremo 1990 torna l’orchestra al posto delle gelide base preregistrate, e soprattutto torna un’usanza accantonata ormai da quasi vent’anni: l’ospite straniero che interpreta una canzone in gara. Un’usanza che a fine anni 60 ha regalato momenti di estrema dignità artistica – il brasiliano Roberto Carlos che interpreta “Canzone per te” di Sergio Endrigo, vincitrice dell’edizione 1968 – momenti un po’ pazzarelli ma di certo godibili – Wilson Pickett che canta “Un’avventura” di Battisti – e situazioni surreali – la combo Gabriella Ferri/Stevie Wonder.
Gabriella & Stevie
Venti anni dopo, la bilancia si sposta in direzione del paradosso e della sorpresa.
L’esempio più clamoroso è ovviamente Ray Charles che nell’edizione 1990 interpreta una versione riveduta e corretta di “Gli amori” di Toto Cutugno, per il chiaro visibilio del pubblico in sala o da casa. Uno spettacolo accompagnato dalle immancabili dicerie secondo le quali Toto avrebbe pagato Ray Charles di tasca sua. Anche se fosse, sarebbe un punto a favore di Totone nazionale: soldi ben investiti e consapevolezza di se stessi, il che non è scontato nell’Italia dell’epoca.
Ray & Toto
Gli esempi notevoli non mancano: Bonnie Tyler alle prese nel 1991 con un brano del maestro Minghi; gli America (quelli di “A horse with no name”) che reinterpretano Sandro Giacobbe. Su tutti e tutte, troneggia il misterioso trio Gianni & Marcella Bella + La Toya Jackson, una delle sorelle Jackson. La parentela con Michael è suggerita dal look poliziesco-fetish, dalle vicissitudini plastiche e cromatiche. Un po’ meno dalle doti vocali:
La Toya Jackson in persona, e i suoi balli
Ma “Verso l’ignoto” – così si chiama il brano composto da Gianni Bella, che qualche anno avrà ben altre soddisfazioni scrivendo “L’emozione non ha voce”, il brano che ha rafforzato le basi ideologiche del matrimonio dei nostri genitori – conosce anche un’altra interpretazione significativa.
In contemporanea con il festival, impazza infatti lo spettacolo di Elio e le Storie Tese, che rivedono a modo loro alcuni brani della kermesse. Nel caso specifico, Elio e Feiez nei panni di Marcella Bella cambiano la lettera e lo spirito del testo di “Verso l’ignoto”, che diventa un manuale sul rapporto tra alimentazione e corretta espletazione delle funzioni intestinali.
Feiez interprete di Marcella Bella
Sanremo e la morte di Dio
Si sa che in Italia le grandi notizie e trends internazionali arrivano con qualche annetto in ritardo. La notizia della morte di Dio non fa eccezione: annunciata da Nietzsche negli anni 80 dell’Ottocento, la cattiva novella sbarca sulle coste liguri con un centinaio di anni di ritardo.
I primi dubbi in tal senso vengono espressi dalla canzone vincitrice di Sanremo 90. Nonostante qualche strano dittongo tra “u” e “a”, la questione posta nel ritornello da Roby Facchinetti è chiara: caro Dio delle città e delle immensità, aiutaci un po’ a fare varie cose – tipo imparare questa vita e “queste donne” – nella speranza che tali skills ci rendano uomini un po’ meno soli. La richiesta è tuttavia accompagnata da una clausola un po’ passiva aggressiva, un po’ dubitativa: “se è vero che ci sei, e hai viaggiato come noi”.
Chiome, giacche con le spalle larghe, note alte, archi, tastiere. Come abbiamo fatto a perdere il Mondiale 90?
Non si tratta di un episodio isolato. Un autore di solito lontano dalle speculazioni metafisiche come Biagio Antonacci nel 1992 “non sa più a chi credere”. E Raf nel 1991 si spinge oltre, sfiorando l’ipotesi dell’assenza di Dio, con un vocabolario a tratti nietzschiano – “gli abissi miei”, “sentivo moltitudini, l’arrivo di altri popoli”. In un paese ancora saldamente in mano agli ultimi fuochi della DC, ovviamente non mancano limitazioni e condizioni: il titolo della canzone “Oggi un Dio non ho” include clausole temporali – oggi magari è morto, ma domani magari torna – e soggettive – oggi non ce l’ho io, magari però altri concorrenti continuano ad averlo. Magari si potrebbe chiedere ad Albano. Ma il testo meditabondo cantato da Raf è colmo di riferimenti interni alla tradizione cristiana – giardini del Getsemani, invocazioni alla “Madonna madre mia” –, che forse suggeriscono una crisi passeggera e salutare in un rapporto comunque stabile con la divinità.
L’insolita barbetta, il cappello fluente, il giubbetto di pelle suggeriscono i tormenti interiori di Raf
Ma come indica l’implacabile bibbia sanremese di Eddy Anselmi, l’edizione in cui esplode la questione della morte di Dio è il 1993. Pensiamo a Mietta. Vincitrice tra i giovani nel 1989, medaglia d’argento con il maestro Minghi grazie alla sulfurea “Vattene amore”, nel 1993 Mietta è accompagnata dalle chiome ben impomatate de “I ragazzi di via Meda”, e propone un brano che sin dal titolo denuncia la caduta del complesso religioso e paterno: “Figli di chi”. Frase cult: “crediamo in Dio ma dov’è”, soluzione di compromesso rispetto all’originale e ben più radicale: “cerchiamo un Dio che non c’è”.
Un elenco di varie attività nichilistiche anni 90: fare a botte nei fast-food, fare l’amore nelle macchine.
Se dunque l’annuncio della morte di Dio riecheggia da più parti nei Sanremo di inizio 90, in pochi sembrano raccogliere l’invito positivo di Nietzsche, ossia accettare la terribile notizia, e passare al nichilismo attivo, al sì gioioso detto alla vita e all’assenza di fondamento, alla creazione di nuovi valori e nuove modalità di valutazione.
Uno dei pochi esempi di nichilismo attivo lo regala una coppia inedita sui palchi della città dei fiori. Da un lato, Jo Squillo: uno dei migliori nomi d’arte di sempre, un passato nel punk (controversa, eppure indimenticabile, la sua “Violentami sul metrò”) che sfocia in altre forme di nichilismo. Dall’altro, Sabrina Salerno, protettrice degli abitacoli dei camionisti anni 90, reduce dall’indimenticato ruolo cinematografico di Michela Sauli in “Fratelli d’Italia”, e per una volta prestata al mondo delle sette note.
Il testo parte con una constatazione tipicamente nietzschiana: i vecchi valori (in particolare, l’amore) si sono svalutati, e invece di piangere perché non hanno valore, bisogna valutare in modo nobile e non piagnucoloso e risentito. Bisogna che il valore parta da noi stesse, siamo donne, oltre alle gambe c’è di più, un universo immenso e più. Così parlò Jo Squillo.
Il nichilismo attivo
Giovanni e vecchi
Infine, un altro aspetto sicuramente rilevante delle edizioni dei primi anni 90 è la coesistenza di giovani speranze e vecchie guardie nello stesso ecosistema.
Un ruolo importante nel frastagliato gruppo sociale dei giovani è svolto dai toscani. Una delle sentenze di maggiore successo della serie TV Boris recita: “con quella C aspirata e quel senso dell’umorismo da quattro soldi i toscani hanno devastato questo paese”. In realtà i toscani che dominano in lungo e largo la sezione “nuove proposte” a inizio anni 90 sembrano preferire l’amarezza all’umorismo e i vocalizzi tormentati su registri medio-alti alla “c” aspirata.
Paolo Vallesi e la triste disamina della vita condotta da “Le persone inutili”. Aleandro Baldi che chiede alla partner Francesca Alotta di non amarlo perché vive a Londra – in realtà “all’ombra”, ma la prima suona meglio.
Ma su tutti, troneggia il roco lamento di Marco Masini, che tra 90 e 91 piazza un uno-due capace di stendere anche il più ottimistico dei Roberto Benigni: “Disperato”, con cui appunto vince la sezione giovani; “Perché lo fai”, devastante viaggio nella dipendenza e nella pulsione di morte.
https://www.youtube.com/watch?v=97Oifajisno
Masini è vestito come quando per la prima volta abbiamo provato una Marlboro seduti sul motorino.
Il “toscano amaro” è un capo di sicuro successo nell’emporio giovani sanremese di inizio anni 90. Ma ce n’è per tutti i gusti. Volete la prima della classe? Ecco le mostruose doti vocali di Giorgia Todrani, detta “Giorgia”, vincitrice di Sanremo 1995 con annesso premio di “ambasciatrice della romanità” conferito dall’allora sindaco della capitale Rutelli. Vi piace la ragazza della porta accanto, capace tuttavia di rapirvi con la sua combo micidiale di grinta vocale e impressionante accento romagnolo? Eccovi Laura Pausini. Volete il prototipo della futura no-global fuori sede? Voilà Gerardina Trovato. E infine, se volete del fottuto rock con dosi moderate di rock, ecco per voi Gianluca Grignani.
Gerardina Trovato, un pezzo a ogni modo notevole
Ovviamente, tutto ciò non ha niente a che fare con i meriti artistici, che nei menzionati casi sono capaci di eccedere largamente la maschera giovanile affibbiata. Rimane però l’impressione di un grande impegno da parte dei non giovani di offrire una carrellata di immagini giovanili pre-impostate entro cui forzare se necessario la materia umana – talvolta pregevole – di cui si dispone. L’esperimento di mercato più pazzo in tal senso è rappresentato da Dhamm, costretti a una mediazione impossibile: portare un po’ di hair metal nella città dei fiori, con un testo inneggiante ancora una volta al complesso paterno.
Bisognerebbe scrivere una storia degli assoli metal nelle canzoni non metal di Sanremo.
Ma non solo di giovani vive Sanremo a inizio anni 90. Le vecchie guardie non stanno di certo a guardare. Il caso più significativo, quantomeno a livello numerico, è quello della “Squadra Italia”. L’attenta rivista online “Orrore a 33 giri” li definisce: un Dream Team di boomers. Boomer o no, di sicuro è un Dream Team.
Nei panni del frantumatore dei record Michael Jordan, ecco Nilla Pizzi, dominatrice delle prime edizioni di Sanremo. Nel ruolo di Larry Bird – l’ormai anziano dominatore bianco del parquet – ecco invece Mario Merola. L’analogo di Chris Laettner, il giovanotto sconosciuto ai più circondato da leggende del parquet? Senza dubbio Fra’ Giuseppe Cionfoli, che da pochi anni ha rinunciato alla tonaca. Il Charles Barkley della comitiva è il ruvido romanesco Lando Fiorini, laddove l’implacabile Jimmy Fontana ricorda chiaramente il miglior John Stockton.
La canzone si chiama – con una certa dose di onestà – “Una vecchia canzone italiana”, e serve a ricordarci che ogni passato ha il suo passato.
Se fosse ancora vivo, Jimmy Fontana farebbe furore nei film dedicati alla Prima Repubblica
Morir di layer
Gli anni ’90 ce li ricordiamo così, come un’epoca a tratti angosciosa a tratti sfarzosa, come l’inizio della fine per qualcuno, come l’apice dei sogni di grandezza italiani per qualcun altro. Certo, a leggere i primi classificati di alcune edizioni particolarmente fortunate – ad esempio Sanremo 95 – si rischia il collasso, soprattutto se subito dopo si leggono i nomi dei vincitori di alcuni amarissimi Sanremo anni 2000.
C’è inoltre un senso di amarezza che rimane anche nei tentativi più goliardici di riabilitazione di quel periodo storico in quanto tale, anche nei suoi lati più impresentabili, anzi soprattutto in quei lati lì. Siamo i primi a ridere della riesumazione di qualche vecchia guardia del passato che si aggirerà nei bassifondi della classifica, o magari balzerà nei pressi del settimo posto in seguito a una gaffe, una castronata, o semplicemente perché fa ridere l’Internet. Noi siamo i primi a riderne, certo. Ma poi la notte, quando ci corichiamo, risale un pizzico di amarezza e un velato senso di colpa e corresponsabilità.
A volte sembriamo aver sviluppato una posizione difensiva nei confronti della qualità. Il terrore che qualcosa sia fatto bene, che sia fatto prendendosi sul serio, che non abbia qualche layer a quale aggrapparci per riderne e sdrammatizzare. Ma oggi è possibile che qualcosa avvenga senza layer, imponendosi come meritevole di rispetto, chiedendo una pausa di riflessione all’ironia con cui giustamente affrontiamo la vita, la tv, il festival dei fiori?
L’impressione è che nel Sanremo anni ’90 tutto ciò fosse stranamente, raramente e imprevedibile possibile una volta ogni tanto. Ognuno/a ha un suo momento verità legato al Sanremo di quegli anni. Condividiamo il nostro, non per proselitismo, non per nostalgia, non per polemica, ma per testimonianza.
https://www.youtube.com/watch?v=jYfpBhm9nXo
Cari LPLC, dateci più (molto più) Matteo Santarelli per cortesia.
Niente di tutto questo mi sembra molto originale: già negli anni ’90 ripiegavamo sul già noto, forse perché avevamo capito, dopo la caduta del Muro di Berlino, di non contare più niente.
Be’, al netto della sfiga esibita nelle storie d’amore e del molto miele, mi pare che anche Se stiamo insieme di Cocciante, vincitore se non sbaglio nel 1990, la si possa prendere sul serio e senza layer: è una gran bella canzone.
Pezzo godibilissimo, faccio però notare che Sabrina Salerno non è stata “per una volta prestata al mondo delle sette note”, ma era già stata protagonista dell’italo disco.
Una precisazione: Vattene amore fu medaglia di bronzo, non d’argento. Dopo Toto Cutugno. È tuttora impossibile farsene una ragione, ma tant’è.