di Franco Buffoni
“Un numero non trascurabile di uomini e di donne presenta tendenze omosessuali profondamente radicate. Questa inclinazione, oggettivamente disordinata, si manifesta in forme molto varie lungo i secoli e nelle differenti culture. La sua genesi psichica rimane in gran parte inspiegabile. Appoggiandosi sulla Sacra Scrittura, che presenta le relazioni omosessuali come gravi depravazioni, la Tradizione ha sempre dichiarato che gli atti di omosessualità sono contrari alla legge naturale, precludono all’atto sessuale il dono della vita, non sono il frutto di una vera complementarità affettiva e sessuale. In nessun caso possono essere approvati”. Così continua il Catechismo della Chiesa cattolica: “Attraverso le virtù della padronanza di sé, educatrici della libertà interiore, le persone omosessuali sono chiamate alla castità.”
E così ripeteva spesso come un mantra il credente, cattolico praticante, Alfredo Ormando, nato a San Cataldo, in provincia di Caltanissetta, il 15 dicembre 1958, che il 13 gennaio 1998 si immolò a Roma in Piazza San Pietro cospargendosi di benzina e dandosi fuoco con un accendino per protestare contro le disposizioni dottrinarie della Chiesa Cattolica nei confronti dell’omosessualità.
“Penseranno che io sia pazzo perché ho scelto piazza San Pietro per darmi fuoco, mentre potevo farlo anche a Palermo. Spero che capiscano il messaggio che voglio dare: è di protesta contro la Chiesa che demonizza l’omosessualità, demonizzando nel contempo la natura. Perché l’omosessualità è sua figlia”, lasciò scritto Alfredo Ormando affinché fosse inequivocabile la motivazione del suo gesto, riecheggiando per altro quanto scritto da Karl Heinrich Ulrichs nella sua invettiva.
Malgrado due poliziotti avessero tentato – togliendosi i giubbotti – di spegnere le fiamme che subito avvolsero l’uomo non ancora quarantenne, le ustioni furono talmente estese e profonde sul 95% del corpo che Ormando morì dieci giorni dopo, il 22 gennaio, tra atroci sofferenze nell’ospedale romano di Sant’Eugenio. “Non sono neanche riuscito ad ammazzarmi” aveva mormorato quando gli agenti di polizia e le guardie svizzere riuscirono finalmente a spegnere le fiamme che gli divoravano la pelle assieme ai vestiti.
Lo stato della città del Vaticano, sotto la cui giurisdizione territoriale ricadeva l’evento, attraverso il portavoce Mons. Ciro Benedettini, sostenne che la decisione di Alfredo Ormando era scaturita dalla sua difficile situazione familiare. Il comunicato stampa fu subito accolto e ribadito dai principali media italiani: Alfredo Ormando si era tolto la vita per gravi problemi di famiglia. In seguito, quando non fu più possibile tacere di ciò che Ormando aveva lasciato scritto, il medesimo portavoce sostenne che “il folle gesto era stato commesso da una persona affetta da gravi problemi psichici”.
Cresciuto in una povera famiglia contadina con altri sette fratelli, Alfredo non aveva potuto seguire studi regolari, ma l’amore per la scrittura e la conoscenza gli permise ugualmente di conseguire la maturità da privatista e di iscriversi all’università. La sua omosessualità in famiglia non era compresa e tanto meno accettata. Questo il motivo per cui Alfredo chiese di essere accolto in un seminario francescano, dove risiedette per due anni. Anche qui però si scontrò con l’incomprensione verso la sua necessità a esplicitare senza reticenze il suo orientamento sessuale.
Va ricordato che il 17 maggio del 1990 l’Organizzazione mondiale della Sanità aveva definitivamente cancellato l’omosessualità dall’elenco delle patologie, definendola “una variante naturale dell’umana sessualità”. E che negli otto anni intercorsi tra tale dichiarazione e il martirio di Ormando, molti Paesi nel mondo occidentale avevano cominciato ad adeguare le loro legislazioni al nuovo corso, concedendo ai propri cittadini diritti che andavano dalle unioni civili al matrimonio per tutti, dalle leggi contro l’omotransfobia alla step-child adoption, alle adozioni.
Per delineare il quadro entro cui maturarono la determinazione e l’invettiva di Ormando, va ricordato che, parallelamente ai diritti concessi da molti paesi occidentali, da parte delle gerarchie vaticane si fece sempre più duro ed esplicito l’irrigidimento su posizioni intransigenti. Il 6 agosto 1993 papa Giovanni Paolo II promulga la Veritatis Splendor, la prima enciclica della storia che menzioni apertamente l’omosessualità (al § 47), elencandola fra i comportamenti “intrinsecamente cattivi”. Una posizione di chiusura sul tema delle relazioni omosessuali che venne solennemente ripresa da papa Giovanni Paolo II dalla storica finestra del Palazzo apostolico, quando si tenne a Roma il Gay Pride del 2000. E ribadita in sede ONU in varie votazioni sul tema che videro il Vaticano schierato con gli stati islamici. “Un giorno o l’altro vado a San Pietro e mi brucio vivo”, ripeteva Ormando all’anziano signore palermitano a cui faceva da badante: ogni volta che il TG1 riportava, enfatizzandole, le prese di posizione papali contro l’omosessualità.
Anche come scrittore Ormando condusse vita grama. Nel 1986 pubblicò una prima raccolta di poesie, Vagiti primaverili, e nel 1995 volle cimentarsi anche con la narrativa, raccontando i due anni trascorsi in seminario in un romanzo dall’emblematico titolo Il fratacchione, uscito a Palermo per Publisicula. Ancora la sua bibliografia presenta una raccolta di fiabe e racconti intitolata Il monte incantato e altre fiabe apparsa nel 1998.
Alfredo maturò così la decisione di compiere il gesto eclatante, facendo del proprio corpo e della propria esistenza uno strumento di presa di coscienza per milioni di persone costrette a vivere in clandestinità la propria sessualità: oggi diremmo nel closet, mutuando l’espressione anglosassone, che indica lo sgabuzzino metaforico dove ci si rinchiude, ma anche quello concreto, materiale, dove ci si suicida. Così Alfredo pianificò i suoi ultimi giorni non lasciando nulla al caso e tanto meno al gesto inconsulto. Avvertì la madre che avrebbe lasciato Palermo per motivi di studio, chiese centomila lire in prestito a un amico affittacamere e partì alla volta di Roma determinato a non fare ritorno.
Alle 7,30 Ormando si avvicina alla transenna di legno che circonda la scalinata. “Ho visto quell’ uomo in piedi davanti alle transenne ma lì per lì non ci ho fatto molto caso” ha raccontato una signora addetta alle pulizie. “Era ben vestito, non sembrava uno di quelli che passano la notte qui. All’ improvviso ha fatto un gesto velocissimo, come per accendere un fiammifero e, di colpo, ha preso fuoco. Una cosa da non crederci, le fiamme sono partite dal basso, dalle gambe e in un attimo lo hanno avvolto completamente. Lui ha girato su sé stesso e si è messo a correre verso l’obelisco dove adesso c’è il presepe. Non urlava neanche. Ma è caduto subito a terra”.
Il punto concettuale da ribadire è che Alfredo Ormando fino all’ultimo dichiarò di sentirsi parte della Chiesa cattolica. Da questo fatto discende la forza della sua invettiva. Ormando voleva che fosse la Chiesa cattolica ad accoglierlo nel pieno rispetto ed esercizio del suo orientamento sessuale. Mentre essa al più raccomandava l’astinenza. Da qui il gesto lucido, consapevole, calcolato, preparato nei minimi dettagli, e mai tentato prima, di protesta estrema.
La lettura degli ultimi scritti lasciatici da Alfredo Ormando non ci parla di odio o di rancore, ma di amore, al più – potremmo dire oggi: di amore rivendicativo – di amore che vuole gridare il proprio nome e pretende di essere rispettato. Ma leggiamo qualche stralcio.
L’11 novembre 1997, quindi due mesi prima della partenza per Roma, Ormando scrive: “Sto meditando di andare a Roma in gennaio e di darmi fuoco a Piazza San Pietro. Quei pochi minuti di sofferenza saranno ripagati con la cessazione di tutti i dispiaceri”.
Il 27 novembre ribadisce “Mi rendo conto che il suicidio è una forma di ribellione a Dio, ma non riesco più a vivere”.
Il 25 dicembre: “Quest’anno non sento più il Natale, i miei preparativi per il suicidio procedono inesorabilmente, sento che questo è il mio destino. Vivo con la consapevolezza di chi sta per lasciare la vita terrena e ciò non mi fa per niente orrore”.
Il 2 gennaio 1998: “Sarò punito nell’aldilà per il mio gesto, ma spero nella comprensione e nella giustizia di Dio”.
Il 4 gennaio: “Il dolore di sentirmi bruciare vivo non mi spaventa più.
Soffrirò pochi minuti, poi le endorfine mi aiuteranno a sopportare lo strazio”.
E l’8 gennaio: “Perché proprio a piazza San. Pietro? Semplice. Voglio dare una lezione ai cattolici e alla loro intransigenza in materia sessuale”.
Ormando viaggiò la notte del 12 gennaio, arrivando a Roma all’alba con una bottiglia piena di benzina nascosta nella borsa. E in tasca una sorta di testamento ideologico, spedito anche all’Ansa di Palermo: “Chiedo scusa al mondo per i miei nefandi crimini contro quella natura tanto cara e dissacrata dalla cristianità. Chiedo scusa per essere venuto al mondo, e per aver considerato l’omosessualità una sessualità naturale, per essermi sentito uguale agli eterosessuali e secondo a nessuno. Il mostro se ne va per non mettervi più in imbarazzo”. E ancora: “Le gerarchie cattoliche arriveranno a dire che mi tolgo la vita per malattia, o debolezza, e non per urlare loro l’ingiustizia che infliggono agli omosessuali in questo Paese. Ed è per questo che nel mio giubbotto, che ho poggiato per terra, sui lastroni calpestati da migliaia di fedeli, ho lasciato una lettera di denuncia. Almeno le parole di un morto, di un martire, le leggeranno. Bisogna ammazzarsi per farsi sentire”.
Almeno altre due circostanze legano su questo argomento la Sicilia all’universo cattolico. Il 17 ottobre 1980 Antonio Galatola di quindici anni e Giorgio Giammona di venticinque sparirono improvvisamente a Giarre e vennero ritrovati abbracciati il 31 ottobre in un luogo isolato, ciascuno con una pallottola nel cranio, lasciando ben pochi dubbi sulla matrice omofobico-familistica del duplice omicidio. Alfredo Ormando aveva allora 21 anni.
I tempi erano maturi per una reazione, e pochi giorni dopo a Palermo, per volontà di un coraggioso sacerdote – don Marco Bisceglia – nacque il primo gruppo di cultura omosessuale nella sede Arci, che diede poi origine alla sigla Arcigay, estesa nei mesi successivi a varie città italiane.
Solo nel 2021, col volume Il delitto di Giarre edito da Rizzoli, lo scrittore Francesco Lepore ha potuto chiarire le circostanze e le responsabilità dirette in cui maturò quel duplice delitto. Francesco Lepore, nato nel 1976, aveva 22 anni e studiava in seminario quando Alfredo Ormando si suicidò. Due anni dopo divenne sacerdote e dal 2000 al 2006 ha esercitato come latinista papale presso la Segreteria di Stato e la Biblioteca Apostolica Vaticana. Nel 2007, lasciata la tonaca, Francesco Lepore è diventato caporedattore di GayNews.
Non capisco, sinceramente, quale sia l’intenzione di questo articolo. Descrivere una pagina di cronaca? accusare la Chiesa di aver istigato al suicidio? l’autore si spieghi, se vorrà sporcarsi le mani.
Alvaro