di Natascia Tosel

 

Vi è una frase, all’interno della vasta produzione filosofica di Deleuze e Guattari, divenuta particolarmente iconica – buona, per intenderci, per trasformarsi addirittura in inchiostro per tatuaggi. “Abbiamo scritto L’Anti-Edipo in due. Poiché ciascuno di noi era parecchi, si trattava già di molta gente”. Il pensiero, così come la scrittura, rifugge ogni solipsismo; entrambi sono verbi che si declinano solamente al plurale chiedendo all’io che vi si avventura di spogliarsi del proprio presunto sé per incontrare l’altro (poco importa se quest’ultimo è persona, parola, testo scritto, evento, concetto). Deleuze e Guattari, con buona pace di chi si aspettava qualcosa di meno vetusto da due sessantottini, hanno scritto quattro libri insieme scambiandosi delle lettere: l’epistola, dunque, come forma privilegiata dell’incontro, l’unica adatta ai tempi di una conversazione, di uno scambio che non è mai scontro corpo a corpo né relazione fulminea che si consuma nell’immediato, bensì cammino teso alla costruzione paziente di un “noi”.

 

Un eccellente esempio di un pensiero affollato di incontri e di pronomi declinati alla prima persona plurale ci viene offerto oggi da Aperte lettere. Saggi critici e scritti giornalistici di Rossana Rossanda, pubblicato da Nottetempo con la curatela di Francesco De Cristofaro. Il volume raccoglie un’ampia quantità di testi che spaziano dalla critica letteraria alla produzione pubblicistica, scritti da Rossanda nell’arco di quasi mezzo secolo, dal 1972 al 2018 – queste le date tra cui ci si muove nel libro seguendo un ordine che non è e non potrebbe essere cronologico, e nemmeno propriamente contenutistico, quanto piuttosto legato ad una questione di ritmi e di velocità di scrittura: a volte serrati, altre distesi, dall’adagio al vivace. Per onor di cronaca, va detto che in questa raccolta l’unica lettera aperta – nel senso letterale dell’espressione – è quella rivolta all’editore Bompiani; si tratta, per altro, del solo caso in cui l’autrice utilizza la propria penna e la propria voce deliberatamente come arma, strumento per difendersi dalle insinuazioni di presunti finanziamenti esterni ricevuti dal manifesto. Di fronte alle false accuse lanciate contro la creatura giornalistica che essa stessa aveva contribuito a fondare e che per decenni fu lo spazio di condivisione privilegiato delle sue idee, Rossanda si indigna, contrattacca, mette da parte il dialogo e parte armata per quella che doveva avere il sapore di una “guerriglia culturale”.

 

Gli altri scritti, invece, sono lettere aperte in tutt’altro altro senso: pur non rispettando i cliché dell’epistola, sono tentativi di confronto, un interloquire messo per iscritto, dove Rossanda mostra tutta l’apertura focale del suo sguardo critico, il quale si traduce in una riflessione costantemente “aperta all’altro da sé, alla condivisione, all’agone civile, al futuro, alle emozioni”, come scrive De Cristofaro nella postfazione (p. 268). Gli interlocutori di questo pensiero in movimento costituiscono una vera e propria folla: da Euripide all’amato “nemico” Franco Fortini, da Tolstoj a Mann, da Emily Dickinson a Simone de Beauvoir, da Antigone alla Monaca di Monza, dalla Medea di Christa Wolf a Fedra di Nadia Fusini. Ciò non significa che il dialogo sia sempre pacifico e senza polemiche, a volte lo stile si fa risentito (p. 275), lo sguardo vigile, il linguaggio intransigente, poiché la bontà fine a sé stessa – come scrive Rossanda a proposito del principe Myškin – non solo è inutile, ma pure cristiana ortodossa.

 

La conversazione non serve a compiacere l’altro, né a convincerlo a firmare un’intesa totale; è piuttosto un cammino che si continua a percorrere finché non si giunge almeno provvisoriamente ad un luogo d’incontro. Ciò che Rossanda sembra chiedere alla sua schiera di interlocutori è, infatti, se vi è almeno un punto in cui, sia pure per qualche istante, si possa dire “noi” dismettendo i panni scomodi dell’io. I “noi” di questo testo potrebbero assumere contorni molteplici; proveremo a delinearne tre, quelli che sembrano a chi scrive i più tangibili. Noi intellettuali. Noi comunisti. Noi donne: categorie in cui Rossanda si seppe riconoscere senza per questo rimanere mai cieca di fronte ai loro limiti.

Noi intellettuali, innanzitutto, di cui Rossanda dà un ritratto vivacissimo nel saggio intitolato Letture di mezza estate. Gli intellettuali sono quelli che leggono per lavoro, a volte con sussulto (come quando tocca apprendere le proposte di svolta per l’autunno dall’editoriale di Scalfari su Repubblica), altre con pazienza (se si tratta, ad esempio, di raccapezzarsi dentro il rapporto sull’occupazione nei paesi dell’OCSE). Sono, ancora, quelli che leggono a tempo imposto, ossia per il dovere di commentare, scrivere, recensire (a tal proposito afferma Rossanda, dando non poco sollievo a chi qui scrive: “Tutti, editori e autori, sono persuasi che è la recensione che spinge il libro. Ma quando mai?”, p. 82). Infine, però, gli intellettuali sono soprattutto quelli che sanno leggere fuori tempo: per piacere, con libertà, in modo sfrenato e anche scorretto, da ignoranti e ladri. Al diavolo, dunque, l’idea romantica dell’intellettuale che sa riflettere la Storia, quella con la esse maiuscola: molto più comune è, invece, sentirsi fuori tempo, capaci al massimo di sviluppare una maniera propria di “subire il mondo o esiliarsene”, di “reagire alla storia” (p. 33).

 

Emily Dickinson è stata un modello (né femminile né femminista – ribadirà più volte Rossanda) di intellettuale che ha saputo subire il mondo, convincendosi, però, di riuscire a capire il meccanismo di quel rifiuto. “Non inganniamoci: quando scrive ‘Questa è la mia lettera al mondo che non ha mai scritto a me’, non è una fanciulla afflitta perché non riceve posta, è un fiero cervello che dà al mondo il voto, insufficiente” (p. 33). Diverso è il caso degli intellettuali che scelgono l’altra via, quella dell’esilio, che non è altro che un preteso distacco dal mondo, dalla storia, dagli eventi: “un’estraneità critica” (p. 172), un tentativo di non farsi intaccare per rimanere “testimoni incorrotti”. Ne sono un buon esempio Simone de Beauvoir e Jean-Paul Sartre – a cui sono dedicati, all’interno di questa raccolta, una manciata di articoli: le due figure non vengono sovrapposte, ma fatte risuonare l’una nell’altro. Da un lato, la consapevolezza e la compostezza di Simone che “sa di non aver capito né tutto né a tempo, ma nessuna autocritica vera emerge dalle sue parole” (p. 145). È cosciente del limite del suo sguardo ma fiera di aver fatto della scrittura una vita o, il che è lo stesso, della vita una scrittura. Tutto il resto (Sessantotto e femminismo inclusi) è guardato a volte con qualche simpatia, ma sempre con distacco. Dall’altro lato, invece, Sartre sembra essere stato maggiormente toccato dagli eventi, dalla guerra prima e dal maggio francese poi, dal rapporto complicato con il PCF (Parti Communiste Français) e da una certa urgenza di posizionarsi a livello politico. Ciò che accomuna entrambi, Sartre e De Beauvoir, è la coscienza di essere intellettuali e per questo privilegiati, ma di non vergognarsene. Sartre, però, vi aggiunge una persuasione (qualcosa con cui la stessa Rossanda sembra aver dovuto fare i conti in più d’un’occasione): “Il debito d’un intellettuale verso i diseredati è irriscattabile” (p. 171), perciò quello degli intellettuali è un impegno senza fine e senza sosta, un lavoro che si conduce senza lamento, poiché – come ebbe modo di rispondere Sartre a Camus – gettare in faccia la nostra stanchezza ad una massa di lavoratori sfruttati sarebbe quantomeno grottesco. Il privilegio intellettuale ha un costo, e lo si paga sempre.

 

Noi comunisti: categoria oggi quanto mai bistrattata, ma sentita ed esperita dall’autrice con una profondità e un acume non comuni. Vi è in Rossanda un attaccamento al comunismo come politica che non puzza di stantio, nemmeno a rileggerli ora quegli articoli (Di morte naturale, La scrittura e la vita) in cui scrive ai compagni di fare attenzione, ché il comunismo non è e non può essere solo antifascismo: questo andava bene al massimo nel ’43, quando si dovette scegliere, impreparati, se andare a Salò o salire sulle montagne. Ma oggi l’eroismo antifascista ha perso la propria ragion d’essere e, se è solo questo che il comunismo sa dare, morirà di morte naturale, come accaduto al giornale Les lettres français, per anni strumento del PCF e poi caduto vittima non – come si vorrebbe far credere – della concentrazione monopolistica della stampa, bensì di un’utilità ormai sciupata. Rossanda non si arrenderà mai a questo appiattimento del comunismo alla Resistenza antifascista; scriverà, infatti, che i primi intellettuali antifascisti del dopo guerra non hanno saputo e potuto dirci molto. Meglio rivolgere lo sguardo altrove, al centro Europa o agli Stati Uniti, come hanno fatto quelli che l’autrice definisce affettuosamente i “miei” tre: Calvino, Fortini, Pasolini. Attraverso di loro, il comunismo diviene chiave interpretativa, griglia attraverso cui “l’avvenuto diventava comprensibile, l’orrore trovava una ragione, la necessità di non considerarne divelte le radici, anche” (p. 163). Il comunismo equivale a far respirare la categoria del politico.

 

Ciò non ha mai significato per Rossanda avere una fede cieca né verso il partito né verso l’ideologia: con una lucidità che impressiona, scriverà senza mezzi termini: “Grazie, no, io non sono di quelli (e qualche compagno me lo rimprovera) che sente l’incoercibile bisogno di una visione marxista della formazione delle galassie, del funzionamento del pancreas, di tutta la mia vita e di tutta la mia morte. Non penso neppure che il marxismo sia una concezione del mondo” (p. 194). Infatti, con la stessa tagliente ironia, proporrà di mandare al macero tutto ciò che Marx ha scritto sull’arte: non abbiamo bisogno di categorie datate per interpretare il presente. Non è di questo che si tratta: essere comunisti per Rossanda significa credere nella possibilità del cambiamento e non è nemmeno detto che quest’ultimo sia la rivoluzione. Per questo scrive all’amico Gabriel Garcìa Marquez, a proposito della sua Cronaca di una morte annunciata: lo ringrazia per aver scritto un testo che non è affatto consolatorio per chi, come lei, ha speso la vita per la rivoluzione, ma – egli ha ragione – ora tocca trovare il coraggio di non tacere di fronte ai suoi esiti. Al contrario, si arrabbia Rossanda contro l’impoliticità di Elsa Morante e della sua Storia che ha la pretesa di essere universale. Il tono qui non è certo conciliante, ma è chiaro che non è con Morante che l’autrice intende dialogare, quanto piuttosto con i compagni che hanno preso l’abbaglio di considerare La storia il più grande romanzo del secolo. Che ce ne facciamo, noi comunisti, di un mondo di umiliati ed offesi per cui non c’è riscatto possibile, di una storia già divisa tra chi la fa e chi la subisce, che non ammette redenzione? No, non è questo il comunismo per Rossanda: non è “vendere disperazione” – giacché, al limite, sarebbe meglio o quanto meno più utile “vendere patate” (p. 196); il comunismo è gridare al mondo che almeno “battersi è possibile” (p. 195).

 

Noi donne. Su questo terreno si consuma l’interloquire appassionato dell’autrice con il femminismo. A detta di chi scrive è questo, forse, il “noi” più avvincente, poiché è quello in cui Rossanda fatica di più, lei per prima, ad addentrarsi. Dal rifiuto di considerare la Dickinson emblema del femminismo (era un intellettuale che parlava agli uomini), ai testi sull’amore inquietante e sull’Antigone, fino agli scritti raccolti nella terza parte del libro, intitolata Femminismo critico: il tema della donna e della sua emancipazione ricorre in tutta la raccolta, a volte come analisi di personaggi letterari, altre come critica a letture femministe che Rossanda giudica piatte e – ritorna qui il punto focale del suo pensiero – impolitiche. Se la prende con quella critica, certo radicale, alla non neutralità e arbitrarietà del “virilismo come sistema generale di ruoli, poteri, cultura e comunicazione” (p. 126): la critica è lecita e quanto mai necessaria, ma è l’alternativa che manca. Non vale, secondo l’autrice, rifugiarsi fuori dal mondo, in una sorta di “società delle estranee” come quella proposta da Virginia Woolf ne Le tre ghinee. Che tipo di emancipazione è quella che abbiamo in mente se ci porta a stare fuori dalla storia? E poi, anche volendo, non sarebbe una soluzione possibile poiché siamo già avvolte fino al collo “nell’organicità del sistema dei rapporti sociali” (p. 135). Continuare a posporre il nostro ingresso nella storia non è un’opzione o, se lo è, ci condanna all’essenza di soggetti impolitici e ad una falsa alternativa tra un’emancipazione à la Virginia Woolf (ossia, a vivere furibonde lanciando proiettili dalla finestra contro ogni maschio che si avvicina) e un ritorno a casa (in una “visione merlettistica dell’ambiente”, p. 127), nel privato, nel dolore e nel silenzio.

 

Per Rossanda, dunque, il femminismo deve evitare il rischio di scivolamento in una disintegrazione dei rapporti e in una frantumazione di quel gesto che essa considerava al cuore di ogni politica: associarsi, diventare collettività, farsi – ancora una volta – noi. Perché, ci chiede, anziché considerare Antigone estranea, una non-sorella a causa della sua adesione ad un imperativo categorico neutro e non sessuato, non la ribaltiamo nell’immagine di una ribellione forte, etica, contro le leggi della polis? Antigone è quell’occhio – che Sofocle ha voluto fortemente femminile – capace di leggere oltre la mera fattualità del reale e di agire senza dubbio con responsabilità, ma quella verso un mondo altro, possibile, da costruire. C’è in questo richiamo tutta la potenza di un pensiero – quello di Rossanda – che ha saputo incontrare e far incontrare la “sua” folla di vite, diverse ma non per questo altre: intellettuale, comunista, donna, sempre “fuori tempo” perché – come Antigone – ha saputo guardare la storicità del reale avendo già negli occhi il possibile. Le sue Aperte lettere sono una boccata d’aria per chiunque abbia voglia di tirar fuori dagli armadi la categoria del politico e provare a darle una lucidata: possibile che, una volta messa ad arieggiare, possa ancora tornarci utile?

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