di Emanuela Piga Bruni

 

[È uscito in questi giorni il libro di Emanuela Piga Bruni, La macchina fragile. L’inconscio artificiale fra letteratura, cinema e televisione, (Carocci, 2023). Ne pubblichiamo due estratti, dalla Premessa e dal primo capitolo].

 

La macchina fragile riguarda gli effetti di una rivoluzione tecnologica molto discussa e che la comunità umana sente imminente. Se nel corso del xx secolo sono state considerate rilevanti le conseguenze culturali e antropologiche della possibilità di riprodurre il manufatto artistico attraverso la tecnica, gli scrittori di finzione si sono spesso confrontati con quelle legate alla riproduzione tecnologica dell’umano stesso.

 

Il tema centrale del libro riguarda i concetti di fragilità e vulnerabilità nella dimensione sociale e tecnologica della contemporaneità, nell’ibridazione dell’umano con la macchina, e nella crescente automazione degli oggetti che ci circondano e delle attività a cui prendiamo parte. L’argomento è declinato su diversi livelli di discorso: la fragilità umana, quella corporea e nella dimensione interiore ed esistenziale, la fragilità dell’ambiente che ci circonda, quella del nostro pianeta vulnerabile all’impatto di otto miliardi di esseri umani che lo sottomettono nell’esercizio della vita. A complemento di queste condizioni incarnate nel reale, esploreremo ipotesi affini, ma applicate a figure dell’immaginario fantascientifico. Attraverso l’analisi di una selezione di testi che provengono dalla letteratura, dal cinema, dall’animazione e dalla serialità televisiva, e lungo il crinale che le ibridazioni tra natura e artificio rendono via via meno netto, andremo alla ricerca di cosa significhi essere umani scrutando nell’immagine rovesciata della natura umana, nel negativo che è dato dall’artificio dell’automa e del cyborg. Avremo modo di confrontarci con il tema della distinzione tra reale e non reale, tra finzione e realtà, tra macchina morbida e robot.

 

Questa indagine ci porterà a interpretare i brani da cui emerge il tema della coscienza, in quella cornice di discorso che ho definito come sospesa tra paradigma indiziario e seduta psicoanalitica, e che mostra la creatura artificiale nei panni del paziente/indiziato. L’impostazione di critica tematica di questo libro include il dialogo con la psicoanalisi, la filosofia e le scienze cognitive. La domanda ontologica che affiora dalle opere esaminate si fa carico del “problema della coscienza”, da cui questo studio principia per spostarsi sugli argomenti adiacenti che riguardano i confini dell’inconscio. Lo faremo grazie alla trattazione di alcuni racconti di fantascienza in cui sono descritti robot antropomorfi capaci di agire e pensare secondo modi che richiedono l’emersione della coscienza e dell’inconscio, quanto ci appare di più umano e misterioso allo stesso tempo.

 

[…] La densità semantica delle icone dell’automa poggia sul tema del doppio latente, una «costante transculturale ricca di implicazioni antropologiche e psicoanalitiche, e quindi particolarmente adatta a misurare la dialettica con le numerosissime varianti storiche»[1]. L’indistinzione tra il non sé e il sé, tra l’altro e lo stesso, è uno dei tratti che accomuna le rappresentazioni di questa figura negli ultimi cinquant’anni. Se «il doppio è uno dei modi con cui il linguaggio e la letteratura possono veicolare l’alterazione dei tratti fondamentali dell’identità» (ibid.), questo processo avviene parimenti con il linguaggio e la letteratura che ruota intorno alla macchina antropomorfa. I corpi perturbanti e frammentati dell’automa e del cyborg amplificano la decostruzione dell’identità come sistema chiuso.

 

Al termine di questo tragitto, il passaggio dall’estetica cyberpunk al postumano ci offrirà l’occasione di esplorare la critica all’umanesimo classico e al pensiero antropocentrico. La dimensione estetizzante del cowboy telematico che connota il personaggio di Case in Neuromancer, o la fusione del sé nella Rete nel finale di Ghost in the Shell – entrambi motivi del cyberpunk – si fanno carico di nuove istanze politiche con il passaggio alla prospettiva del postumano. Come il doppio, il cyborg teorizzato da Donna Haraway e raffigurato da William Gibson o Mamoru Oshii si presta a scardinare ogni fissità dei ruoli sociali, sessuali, culturali, a incrinare la logica dominante e a violare il principio di identità.

 

Queste riflessioni saranno condotte in special modo su un corpus di opere che ha declinato il tema in maniera peculiare. Troveremo gli interrogatori volti a determinare il malfunzionamento o l’inganno della macchina nei racconti di Isaac Asimov, e le sedute (“psicoanalitiche”) atte a stabilire la natura umana o meccanica del soggetto inquisito in Do Androids Dream of Electric Sheep? (1968) di Philip K. Dick e in Blade Runner (1982), il film culto di Ridley Scott. Rinveniremo i tratti filosofici dei dialoghi tra cyborg e intelligenze artificiali in Ghost in the Shell (1995), l’anime di Mamoru Oshii, e in quelli diagnostici tra programmatori e androidi nella serie tv Westworld (2016-) di Jonathan Nolan e Lisa Joy. Infine approderemo al confronto tragico tra umano e automa nel romanzo Machines Like Me di Ian McEwan. Particolarmente rilevante ai fini di questo studio è Westworld, che mi consente di azzardare l’ipotesi di “inconscio artificiale”, ovvero del manifestarsi dell’inconscio in seguito all’emersione della coscienza nell’intelligenza artificiale. È la rappresentazione di una insopportabile utopia, la rivelazione di un ossimoro che unisce inconscio e artificio nella riproduzione per via tecnologica dell’umano. […]

 

Tra paradigma indiziario e seduta psicoanalitica: il dialogo con la macchina antropomorfa

 

La creatura artificiale antropomorfa condensa insieme paure e istanze liberatorie, e assume la connotazione sovversiva di alterità incarnata nell’essere umano modificato. Il topos della rivolta delle macchine compare nelle narrazioni fantascientifiche a dominante distopica, in cui all’agiatezza delle classi umane dominanti si contrappone la condizione servile dei robot umanoidi. La paura archetipica che attraversa queste narrazioni riguarda il quando le macchine smetteranno di essere strumenti (o servi) e prenderanno il posto dei padroni. Alla paura della rivoluzione talvolta si sostituisce quella della macchina che smette di funzionare. Tra i classici che hanno affrontato questi temi figurano The Machine Stops di E. M. Forster (1909) e la pièce teatrale del boemo Carel Capek (1920), che introduce la parola “robot” fin dal titolo: rur (Rossum’s Universal Robot), dal ceco robota, che significa “corvée”, “sfacchinata”[2].

 

Questi temi sono tornati in innumerevoli declinazioni che hanno via via occupato l’imaginario in maniera crescente a cavallo del millennio. Raffigurata nelle opere di Philip K. Dick e poi negli esseri cibernetici di William Gibson, la creatura artificiale trova la sua apoteosi sul grande schermo in Blade Runner (1982), prolifera nell’immaginario hollywoodiano di Terminator (1984) e, tra fumetto e animazione, nei cyborg della Trilogia Nikopol (1980-92) di Enki Bilal o nel franchise Ghost in the Shell. Si connota di nuovi significati in innumerevoli narrazioni cinetelevisive contemporanee, in serie tv e film come Battlestar Galactica (2004-09), Humans (2015-18) e Automata (2017), riattualizzata negli host di Westworld (2016-) o inserita nel contesto di una umana guerra di religione millenaria nel futuro extraterrestre di Raised by Wolves (HBO, 2020-22, creata da Aaron Guzikowski e prodotta e co-diretta da Ridley Scott). Nella letteratura, valicano i confini del genere strettamente fantascientifico e si ripresentano nella figura di Adam in Machines Like Me (2019) di Ian McEwan, nel Frankissstein (2019) di Jeanette Winterson, in cui il dialogo intertestuale con l’opera di Mary Shelley interseca la “contemporaneità aumentata” delle sexbot e della frontiera ambiziosa del mind uploading, o, ancora, nella toccante figura di Klara, l’“amica artificiale” (aa) protagonista del romanzo Klara and the Sun di Kazuo Ishiguro (2021).

 

Nel ripercorrere alcune delle declinazioni più suggestive di questa figura, il volume mira a evidenziare le costanti e le varianti che legano le opere considerate, tenendo conto delle relazioni intertestuali e delle pratiche di riscrittura e adattamento. La lente di osservazione scelta è quella del dialogo tra umano e macchina antropomorfa, un motivo che ricorre in tutte le narrazioni e assume frequentemente una forma che ricorda sia l’interrogatorio poliziesco sia la seduta psicoanalitica. In Miti, emblemi, spie: morfologia e storia (1986) Carlo Ginzburg descriveva il paradigma indiziario alla base degli interrogatori processuali come fondato sulla registrazione dei piccoli gesti inconsapevoli e caratterizzato da dinamiche riconducibili alla psicoanalisi medica. Come spiegava Freud[3], il metodo interpretativo procede a partire dagli scarti, dai dati marginali, dagli elementi sottratti al controllo della coscienza. Nell’immaginario che ruota intorno a questa figura, una prima questione da appurare è se il robot abbia raggiunto autonomamente un’evoluzione tale da consentirgli di mentire o dissimulare, e dunque rendersi capace di inganno. Il cacciatore di androidi, o l’esperto di robotica, agisce come un detective e conduce un dialogo che si svolge sulla base di indizi impercettibili ai più. Il non detto che attraversa questo dialogo è uno dei principali temi della letteratura fantascientifica, l’asimoviano complesso di Frankenstein, ovvero la diffidenza ispirata dai robot. […]

 

Nella rappresentazione di questi dialoghi tra umano e macchina, nella necessaria ricerca di un linguaggio possibile, affiorano gli indizi dell’emersione dei tratti umani nelle menti artificiali, ovvero dei meccanismi di coscienza che attraversano queste menti, sospese tra i corpi e la scena, tra la biologia e il territorio.

 

 

L’illustrazione di copertina è stata realizzata da Midjourney, un programma di intelligenza artificiale in grado di generare immagini da descrizioni testuali. Per questa opera l’autrice ha chiesto alla IA di realizzare una riscrittura del Viandante sul mare di nebbia di Caspar David Friedrich, con un cyborg femminile al centro della scena, e il mare sullo sfondo, mescolando lo stile di W. J. Turner a quello delle graphic novel cyberpunk del tardo Novecento.

 

Note

 

[1] M. Fusillo, L’altro e lo stesso. Teoria e storia del doppio, Mucchi, Modena 2012 (2a ed.), p. 24.

[2] Cfr. F. Muzzioli, Scritture della catastrofe, Meltemi, Roma, 2007, p. 57.

[3]Ad esempio, in Psicopatologia della vita quotidiana (1941).

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