di Adelelmo Ruggieri

 

Grandi viaggi, rubrica a cura di Adelelmo Ruggieri

 

«È una natura immensa quella che ho davanti agli occhi, una distesa sterminata di acqua, alberi e cielo. In queste terre vive la popolazione dei Barè, di cui incrociamo i villaggi, con i bambini sui greti che si tuffano con gestualità semplice e antica.»

 

Ho cominciato cinque volte a scrivere di questo libro (Angelo Ferracuti, Giovanni Marrozzini, Viaggio sul fiume mondo. Amazzonia, Mondadori, 2022), e ogni volta partivo da un luogo differente di esso, la prima volta da Barcelos, la seconda da Boa Vista [“Credo sia stato il viaggio aereo più lungo, spossante e assurdo della mia vita, Giovanni e io volammo da Roma a Parigi, poi ancora verso New York e da New York a San Paolo. Trascorso un giorno intero nei cieli, mancavano ancora i viaggi interni da San Paolo a Belem, e l’ultimo con atterraggio a Manaus. Il giorno dopo partimmo alla volta di Boa Vista. La strada, lunga quasi mille chilometri, era stata costruita nel 1974 dal governo militare. Il prezzo in vite umane era stato altissimo, e molti villaggi erano stati decimati dalle malattie portate dagli operai addetti alla costruzione”].

 

La terza volta ho iniziato dal piccolo villaggio, addossato a un greto, di Lago das Pedras, dove il pastore stava intonando un sermone sgolandosi isterico, la quarta da Sao Gabriel da Cachoeira, quarantamila abitanti, ventitre etnie differenti, la più numerosa e complessa società multiculturale della Amazzonia brasiliana. L’ultima da Xapuri, una cittadina nata intorno al fiume Acre, la cittadina di Chico Mendes.

Ma ogni volta mi fermavo lì. Partivo e mi fermavo appena dopo. Era troppo complesso cominciare a quel modo, una complessità già per intero manifesta nel titolo del libro, Viaggio sul fiume mondo, Amazzonia. Non si trattava di viaggiare, in brevissimo, dentro un viaggio, non era questo il punto da cui partire.

 

“Vivere e scrivere sono vasi comunicanti. Per me si tratta di dare un racconto vivente.”, ha detto di recente Ferracuti in un dialogo con Antonio Coda per “Pangea”, e appena dopo, “Vengo dal mondo contadino, dove le storie si raccontavano a voce. L’oralità provo a portarla nella scrittura, la sua naturalezza, la sua necessità.”, “Ho voluto raccontare le storie dei popoli indigeni perché mi hanno toccato profondamente. Sono popoli spesso totalmente inermi che non hanno la capacità né di difendersi né di raccontarsi.”, “Raccontare una storia non significa poterne cambiare le sorti. Le offre però un risarcimento morale. Dandole forma le dà diritto di esistenza.”

 

Era questo il punto, questa oralità che si fa scrittura, racconto vivente. Dice ancora Ferracuti, in quello stesso dialogo: “Io scrivo a mano, sui taccuini, fisso subito l’attimo perché voglio conservare la percezione primaria. Già un attimo dopo la memoria comincia a inventare, e il giorno dopo quella cosa che hai visto non è più la stessa. Siccome sono fedele alla scrittura dal vero voglio il più possibile avvicinarmi alla sensazione prodotta dall’esperienza. Ed è una lotta tante volte contro la stanchezza, però non bisogna cedere: quello che non si scrive va perduto.”

Se è così per chi scrive, figurarsi per chi legge, ma i due si ritrovano sulla pagina, il secondo si specchia nel primo e la pagina è lo specchio e il documento di questo incontro. Cinque anni di taccuini e numerosissime foto ci sono volute per questo libro e sicuramente numerosissimi progetti a tavolino, mappe, percorsi, e incontri divenuti, scrivendone, “racconto che vive”, con la storia che si vuole raccontare che muta il sentire stesso di chi la sta scrivendo, nell’inasprirsi del giudizio morale su quanto si sta raccontando: la violenza inaudita subita dai popoli indigeni, con l’oralità indigena che la mostra per intero, smascherandola.

 

A chiudere il libro c’è una anziana Nukak che prende a raccontare di quando i coloni “sono arrivati nel suo villaggio per la prima volta. Non aveva mai visto un uomo bianco, era nata e cresciuta in quella terra. Parla con un filo di voce, continuando a camminare intorno, come se quel movimento desse forza al suo racconto. Sono trascorsi quarant’anni, lei era solo una ragazzina – trascrive e scrive Ferracuti – quando sono arrivati all’improvviso come furie impossessandosi delle loro terre”, violenza inaudita, razzia.

“Cammina avanti e indietro, mimando il momento in cui fuggì dentro la foresta, e poi quando prese dei rami frondosi dagli alberi, li strappò a uno a uno con forza, si coricò in terra coprendosi con quel fogliame e abbracciando sua sorella. Poi si tocca il petto, perché in quegli istanti, quarant’anni fa, il cuore le scoppiava per il terrore.”

 

“Avevo paura che mi uccidessero, dice, avevo paura che mi mangiassero.”

Ferracuti è lì, con il suo taccuino, prende nota, è “sconvolto da quel lungo racconto”, scruta la donna, pensa a quella sua paura di allora, scrive: “quella sua paura è il nostro tormento.” Il libro è terminato.

Poi mette in esergo al libro queste parole di Davi Kopenawa, leader e portavoce del popolo Yanomami: “Se la mia gente sarà sterminata, dovrete distruggere tutte le nostre fotografie, perché le future generazioni, guardando quelle immagini, si vergognerebbero di un simile crimine contro l’umanità”.  Poi vengono quarantacinque foto di Giocanni Marrozzini, di bambine e bambini che giocano sulle sponde o in procinto di tuffarsi, di giovani pescatori, di anziane che mostrano il raccolto, di cerimonie, di villaggi e abitazioni, di foreste, del Rio delle Amazzoni quando si getta nell’oceano.

Fermo, gennaio 2022

 

[Immagine: Foto di Giovanni Marrozzini].

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