di Gioacchino Orsenigo

 

Ecologie della trasformazione, rubrica a cura di  
  
Emanuele Leonardi e Giulia Arrighetti

 

Sono passati circa due anni dalla prematura scomparsa di David Graeber. La sua è stata una vita dedita, con entusiasmo e tenerezza, al sovvertimento, teorico quanto pratico, dello stato di cose, continuando a ricordarci che quanto c’è di apparentemente ovvio e quotidiano non lo è poi tanto e può essere trasformato. Graeber è stato, inutile forse ricordarlo, una presenza fondamentale all’interno della variegata galassia dei movimenti degli ultimi vent’anni e, d’accordo o meno che ci si trovasse con le sue posizioni, è innegabile che il suo pensiero abbia generato un lascito importante e, soprattutto, ispirato tutta una nuova generazioni di critici/che e militante/i.

E questa è l’eredità forse più preziosa. È quindi una bellissima notizia che qualche mese fa la casa editrice e/o abbia pubblicato una raccolta di quattro saggi, tradotti da Carlotta Rovaris, dal titolo Le Origini della rovina attuale e a cura di Lorenzo Velotti che, come si evince dalla postfazione, è proprio uno di quei giovani la cui passione politica è stata segnata dall’incontro con Graeber.

Si tratta dei primi quattro saggi contenuti nella raccolta del 2007 Possibilities: Essays on Hierarchy, Rebellion and Desire, che ne conteneva dodici in totale. I saggi risalgono alle sue prime ricerche degli anni Ottanta e hanno al centro le origini del Capitalismo o, per meglio dire, della rovina attuale. Per nulla datati, i saggi contengono già molte delle intuizioni del Graeber successivo. I temi trattati sono diversi (gerarchia e buone maniere, il concetto di consumo, modi di produzione, lavoro salariato e schiavitù, creatività sociale e feticismo) ma tutti accumunati dal tentativo di pensare la sedimentazione di forme e pratiche anche eterogenee che hanno dato origine, appunto, all’attuale catastrofe.

 

In particolare, il primo saggio, Buone maniere, deferenza e proprietà privata: o elementi per una teoria generale della gerarchia, è una riflessione molto fine sulla relazione tra buone maniere, gerarchia e proprietà privata. Il secondo, Il concetto di consumo: desiderio, fantasmi ed estetica della distruzione dal Medioevo a oggi, è una critica alla pervasiva ubiquità del concetto di consumo all’interno degli studi culturali dell’epoca, con la quale sarebbe interessante che questi ultimi si confrontassero anche oggi. Il terzo, Ribaltare i modi di produzione: o, perché il Capitalismo è una trasformazione della schiavitù, ha al centro il legame strettissimo che Graeber ravvede tra schiavitù e lavoro salariato, a partire dagli studi sul campo che svolse in Madagascar durante il suo dottorato. Il quarto, infine, Il feticismo come creatività sociale: o, i feticci sono dèi in costruzione, è una critica molto densa al dibattito sul feticismo e pone in stretta relazione la creazione di feticci con la creatività sociale.

 

Il metodo ‘anarchico’ che caratterizza Graeber ha al centro il tentativo costante di de-naturalizzare ciò che appare a prima vista come dato di fatto, di ri-materializzare e riportare al mondo concreto ciò che è stato astratto, idealizzato e reso trascendente. Come ci ricorda Velotti nella postfazione, per quanto l’astrazione sia inevitabile in qualunque processo di creatività sociale, essa diventa altamente problematica laddove crea feticci inconsapevoli che si fossilizzano e nascondono il carattere sociale e sempre in costruzione delle cose e delle realtà che facciamo e abitiamo. È pericoloso, cioè, quando si trasformano il feticismo in teologia e i feticci in dèi. È il classico problema marxiano della reificazione e della creazione di feticci, che è del resto al centro dell’ultimo saggio della raccolta Il feticismo come creatività sociale: o, i feticci sono dèi in costruzione. Già Marx insisteva sul fatto che il feticismo trasforma le relazioni sociali in un rapporto tra oggetti, i caratteri sociali del lavoro in qualità naturali dei prodotti del lavoro. Cose sensibilmente sovrasensibili. Quello che Graeber ci ricorda è tuttavia di fondamentale importanza: la creazione di feticci avviene da sempre e in ogni società, non è un unicum ed è proprio per questo che possiamo contrastarla. A dir meglio, riportando la creazione di feticci e l’astrazione a una dimensione umana, ne riconosciamo l’intima relazione con la creatività sociale: siamo noi a creare i feticci e noi a poterli trasformare. Graeber ci rende riconoscibili cose apparentemente altre e lontane da noi, semplifica ciò che ci sembra unico della nostra società nel senso che ne mostra la natura sociale e quindi trasformabile. E qui emerge il punto fondamentale dell’intera produzione graeberiana e che è anche quello che più entusiasma i suoi lettori: il mondo può essere trasformato, nulla di quanto è, è dato per forza. In un mondo dominato dalla cupa ideologia del there is no altenative, Graeber ci mostra che le alternative non solo sono possibili ma si danno in continuazione, in ogni luogo e in ogni tempo, anche nelle sfere più quotidiane e apparentemente frivole delle nostre vite.

 

Il saggio sul feticismo è molto importante e, credo, ci dice moltissimo del metodo analitico di Graeber. In effetti, è proprio a partire da questo saggio che ebbe inizio il famosissimo dibattito sull’ontological turn con Viveiros de Castro, il quale lo criticò duramente nel 2015 nel corso di una conferenza dal titolo Who is afraid of the ontological wolf?” (tradotta in italiano all’interno del libro a cura di Roberto Brigati e Valentina Gamberi Metamorfosi. La svolta ontologica in antropologia). Critico del rappresentazionismo, come espressione epistemologica del dualismo Natura/Cultura, de Castro si è fatto fautore di una trasformazione radicale della disciplina antropologica che non tentasse più di trovare il significato nascosto di particolari pratiche o credenze per renderle comprensibile ai nostri occhi occidentali ma invece spezzare la dicotomia che separa osservato e osservatore e rendere il primo portavoce del suo proprio mondo di senso e significato. Per questa ragione de Castro imputava a Graeber di rafforzare il primato di un presunto soggetto universale occidentale e l’ontologia che gli è propria (il dualismo Natura/Cultura) nel momento in cui riduceva i feticci a illusioni e credenze. Graeber risponderà a sua volta, con un saggio densissimo dal titolo Radical alterity is just another way of saying “reality”. Qui, rivendicherà la concezione della pratica antropologica come tentativo di mostrare che quelle che in apparenza sono alterità radicali non sono poi tanto radicali come sembrano e che concetti apparentemente adatti solo a descrivere un mondo lontano in realtà ci dicono molto anche della nostra cultura e delle nostre forme di vita. Come di nuovo scrive Velotti nella Postfazione, la riconoscibilità, o somiglianza, è un elemento cardine della metodologia di Graeber e, come ho cercato di spiegare poco sopra, ne è la anche la forza, non solo concettuale ma anche politica.

 

All’inizio del primo saggio, Graeber critica la tendenza dell’antropologia contemporanea a rifarsi al vocabolario della theory continentale rivendicando l’importanza dell’antropologia comparata (in completa antitesi, dunque, rispetto a de Castro) e la necessità di concetti, forse strani e complicati, ma capaci però di rendere conto dell’estraneità di certe pratiche e soprattutto di ritrovarle anche nella nostra società, riconoscendo, in ultima analisi, che non sono poi tanto altre. Nonostante i miei studi mi abbiano legato a lungo a de Castro, mi è stato difficile non far mie parte delle critiche di Graeber e di altre/i autrici e autori. Tuttavia, mi è anche difficile schierarmi definitivamente poiché ritengo che entrambe le impostazioni rispondano a necessità epistemologiche e politiche (epistemologiche perché politiche e politiche perché epistemologiche) dell’epoca che viviamo: entrambi infatti cercano di farci vedere che questo è solo un mondo possibile e non necessariamente il migliore e se de Castro ha a cuore la decostruzione (insieme a tanti altri, come Latour, Haraway ecc.) delle fondamenta ontologiche che producono un certo tipo di Soggetto come unico detentore di razionalità, l’eccezionalismo umano (o meglio eurocentrico), ponendo al centro la critica al dualismo Natura/Cultura e la ricerca di cosmopolitiche alternative (tentativo a oggi forse più riuscito da parte di autrici come Haraway, Stengers, Barad…), l’altro pone invece al centro le forme del potere nella storia delle società umane e in quella attuale in particolare, mostrando continuità e discontinuità, le interconnessioni tra culture apparentemente altre e le possibilità sempre vive di cambiamento. ‘Metafisica’ politica e Politica storica. Sono modalità forse non del tutto conciliabili, ma parimenti fondamentali, nella loro tensione, per affrontare l’epoca che ci troviamo a vivere.

 

Per altro, il primo saggio del volume Buone maniere, deferenza e proprietà privata: o elementi per una teoria generale della gerarchia, che traccia, come si diceva, i legami tra buone maniere, individualismo, proprietà e gerarchia, è non solo un magnifico tentativo di riflettere sull’emergere della proprietà privata in Europa in concomitanza con le regole delle buone maniere e con la soppressione del carnevalesco, ma può essere letta come genealogia critica della separazione e degradazione della corporalità e della materialità, della creazione del soggetto razionale che governa il suo corpo e i corpi. Del resto, a detta dello stesso Graeber, il saggio tratta in buona sostanza dell’origine del Capitalismo ed è dunque difficile non pensarlo in parallelo a tutti quegli studi sulla Modernità (da Latour a Tsing, da Haraway a Moore, ecc.) intesa come epoca della separazione epistemologica e, di nuovo, necessariamente politica, tra umano e non-umano, società e natura. Rimaneggiando categorie desuete, quelle di relazioni di evitamento e di scherzo, il saggio mostra come le prime caratterizzino una concezione della persona umana come insieme di sostanze intimamente legate e in continuità con il mondo, mentre le seconde rimandano a una concezione della persona come complesso di proprietà astratte e separate. Le relazioni di evitamento, che si basano sull’esclusione di tutto ciò che è considerato grezzo e volgare, di solito rappresentato come animale e bestiale, e dunque tutto ciò che è in relazione al corpo (funzioni corporali, impulsi naturali, emozioni violente…), caratterizzano i sistemi gerarchici laddove essi definiscono la differenza di grado proprio dal distacco dagli elementi inferiori e dal grado di astrattezza rispetto alla bruta corporalità (l’infante e l’adolescente nell’ambito familiare, le classi più basse nell’ambito sociale).

 

Criticando chi sostiene che la gerarchia si basi su un principio di inclusione, in cui il grado più basso è compreso via via nei gradi più alti, come espressione sempre più elevata di umanità, Graeber mostra che invece l’esclusione è sempre a fondamento di questa presunta inclusione. Con l’emergere della società mercantile, dei valori commerciali e della proprietà privata, si assiste a una sorta di generalizzazione dell’evitamento, «nel senso che le norme di comportamento che un tempo si applicavano quasi solo ai rapporti di deferenza formale a poco a poco cominciarono a permeare tutti i rapporti sociali, fino a essere interiorizzate al punto da trasformare le relazioni più fondamentali delle persone con il mondo circostante» (p. 42). Secondo Graeber questo avviene appunto con l’emergere delle classi medie commerciali e dunque in rapporto al processo per il quale i membri della società sono sempre più definiti dalla logica delle «proprietà astratte ed esclusive» (p. 44). L’individualismo moderno sovverte l’idea classica di gerarchia per la quale l’identità di una persona è definita dalla sua posizione sociale, avanzando invece l’idea che l’identità dell’individuo si basi su ciò che possiede. Vi è una sorta di “democratizzazione” delle buone maniere e della deferenza formale come condizioni che definiscono la dignità dell’individuo astratto e razionale (il soggetto del mercato, potremmo dire). Questo comporta che l’inclusione all’interno della categoria di individuo è segnata dall’esclusione di tutto ciò che è invece caotico, corporeo e animalesco.

 

Questa riflessione risuona moltissimo, come dicevo, con quelle ascrivibili al campo eterogeneo delle Environmental Humanities che hanno indagato le origini della Costituzione moderna, per dirla con Latour, che ha distinto e separato, gerarchicamente, società e natura, mente e corpo, ragione e animalità. Se Latour, anche lui recentemente scomparso e il cui lascito ha ancora molto da insegnarci, non si è mai speso più di tanto sull’intimità costitutiva tra Modernità e Capitalismo, e questa è forse un po’ la sua pecca, tale intimità è invece ben più chiara in autrici/autori come Isabelle Stengers, Donna Haraway o Jason Moore. Questi ultimi, infatti, ci parlano di Capitalocene per designare l’epoca contraddistinta dalla separazione (e naturalizzazione, intesa come processo che fa dei corpi un dato naturale, oggettivo, quantificabile) della natura stessa. Il saggio, del resto, risuona molto anche con le tematiche di black e critical race studies, come quelle di Sylvia Wynter o  Denise Ferreira da Silva, che riflettono sulla creazione del Soggetto universale moderno, il Soggetto trasparente, per dirla con da Silva, che è in realtà il soggetto maschio, bianco, borghese e occidentale, come unico rappresentante di umanità, la cui diffusione ‘democratica’ sulla base del principio di inclusione si basa sulla costante e violenta esclusione di tutte quelle soggettività (nere, indigene, queer ecc.) che non rientrano (o non vogliono rientrare) in quella categoria.

 

Non mi dilungherò ancora nel descrivere il contenuto degli altri due saggi centrali, che sicuramente i lettori godranno meglio nella loro interezza, per quanto anch’essi siano pieni di intuizioni interessanti e gravide di sviluppi (in particolare, il terzo saggio propone una prospettiva molto interessante che pone domande dirimenti sul ruolo della schiavitù nella formazione del primo capitalismo). Spero tuttavia di aver instillato curiosità per questo libro prezioso, condividendo alcune delle considerazioni che esso mi ha stimolato. La raccolta è ricca di suggestioni profonde e merita una lettura attenta e personale di ognuno dei testi poiché tutti aprono a spunti di riflessione complessi, di cui ciascun lettore saprà meglio come disporre. Il valore di un autore come Graeber risiede, del resto, soprattutto nella capacità di far riflettere lettrici e lettori, senza creare una scuola di cui farsi Padre ma anzi instillando continuamente il desiderio di critica, di apertura e rottura verso nuove prospettive. Si tratta sempre di interconnessioni – tavolta forzate e traballanti, come del resto sempre accade quando si mettono in dialogo pensatrici e pensatori che segnano un’epoca – che possono generare sviluppi nuovi e inattesi. Ritengo, del resto, che questa sia sempre la forma migliore per rendere omaggio a un autore, portarlo verso prospettive alternative e inaspettate ed evitare la cristallizzazione scolastica, che Graeber, per sua postura politica e intellettuale, avrebbe sicuramente detestato.

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