di Claudia Crocco

 

[E’ scomparso questa notte Giampiero Neri, tra le voci più importanti e influenti della poesia italiana contemporanea. Lo ricordiamo con questa intervista di Claudia Crocco uscita su LPLC il 6 luglio 2016].

 

GN: Sa, vivo in questa casa da quasi cinquant’anni. Qui ho fatto L’aspetto occidentale del vestito.
CC: Come è nato quel libro?
GN: Il libro è nato su iniziativa di Giovanni Raboni, che aveva tenuto a battesimo una nuova collana per la casa editrice Guanda. Si chiamavano «Quaderni della Fenice».
Raboni si era occupato del mio lavoro e aveva prefato una mia partecipazione al primo numero dell’Almanacco dello Specchio. In quel numero c’era anche un poeta triestino, che poi è morto: si chiamava Paolo Universo. Ricordo una sua poesia che dice: «Un giorno risorgerò e allora che mi diranno chi sono, chi sono stato, in maniera scientifica, non sentimentale». Mica male, vero? Quel poeta aveva fatto anche dell’atletica. Correva mezzofondo, mi pare quattrocento metri. Parlavamo anche di sport. In fondo si parla quasi esclusivamente di sport. Come spettatore, a me piace soprattutto il calcio. La mia squadra è l’Inter, che ho visto fin da bambino. Mio padre mi portava allo stadio; sono un conservatore, sì, lui mi portava a vedere l’Inter e io sono interista. Si chiamava Ambrosiana Inter, allora. Erano i tempi di Meazza, grande giocatore. Purtroppo non ne abbiamo più di così grandi (però ieri mi sono divertito molto).
Tornando all’Almanacco dello Specchio, mi pare di ricordare che in quel numero ci fosse Octavio Paz. Allora studiavo lo spagnolo, avrei voluto laurearmi in lingue e letterature straniere, e avrei scelto lo spagnolo. Un po’ di conoscenza dello spagnolo mi è rimasta. Ho studiato per tanti anni il francese, al liceo; eppure non lo parlo, lo leggo soltanto. Invece lo spagnolo mi è più facile.
Raboni è venuto da me un giorno, e mi ha proposto la pubblicazione di un Quaderno. Ero uno dei primi, era il numero quattro. Io per la verità ero titubante, perché mi sembrava di non avere abbastanza materiale; lui mi ha detto che avremmo potuto dividere un certo numero di versi per ogni pagina, insomma che non sarebbe stato un problema editoriale raggiungere il formato di un Quaderno.
CC: Quindi alcuni testi inizialmente erano uniti?
GN: Sì. Lui ha suggerito questa operazione, che io ho subito accettato. Poi Raboni e io abbiamo mantenuto un’amicizia. Mi sono rivolto a lui per la pubblicazione del secondo volume, Liceo, che è uscito nella collana “L’Acquario”, sempre per Guanda.

 

 

CC: Lei scriveva già da molto?
GN: Beh, ho iniziato tardi. Avevo suppergiù trent’anni. Non sono tanti in assoluto; ma, per scrivere… Qualche anno prima, intorno ai miei venticinque anni, mi era venuta la passione per uno strumento musicale. Studiavo chitarra classica. Pensavo addirittura di fare il concertista; ma per quello bisogna iniziare quando si è giovanissimi. E poi si vede che non avevo abbastanza talento per fare il chitarrista, dunque ho smesso. C’è subito un appagamento nello studiare uno strumento, perché certi risultati di armonia li raggiungi in poco tempo; quindi per me è stato un impegno, mi è durato per un po’. Poi ho cercato qualcos’altro. Lavoravo già, intanto: ho cominciato a lavorare a vent’anni, e intanto mi sono iscritto alla facoltà di scienze. Poi lì serviva la frequenza, e ho dovuto interrompere. A letterature straniere si poteva fare, e l’ho fatto per un po’. Però io non ero capace di lavorare e studiare e vivere. Perché il mio studio renda un po’, ho bisogno di concentrazione, di più tempo. E poi mi perdo in un bicchier d’acqua, questa è una mia specialità.
Ma, come le dicevo, volevo studiare scienze naturali. La mia passione primaria è la zoologia: gli animali, gli insetti. Mi ero appassionato, da ragazzo, alla lettura di un entomologo francese, Jean-Henri Fabre. Darwin lo chiamava “l’Omero degli insetti”. Il Fabre è anche un artista: c’è poesia in ciò che scrive.
CC: Può spiegarmi come mai?
GN: Intanto, perché penso ci sia un’autentica ingenuità dello sguardo. Non è uno sguardo scientifico; è prima di tutto uno sguardo umano, carico di interesse. Questo può generare poesia. La trovava Darwin, e l’ho trovata anch’io. Ho letto tutti i dieci volumi dei suoi Ricordi entomologici, e poi una vita scritta da un medico, mi pare da Legros. Non ho letto Darwin: mi sarebbe piaciuto leggerlo, ma non l’avevo trovato; e poi, e poi son successe tante altre cose. C’è stata la guerra…

 

CC: Questo è successo prima della guerra, prima che lei iniziasse a scrivere?
GN: Sì, prima. Io avevo tredici anni. La guerra è scoppiata il dieci giugno del 1940 e io, essendo del ’27, avevo tredici anni. Quindi avevo letto queste cose tra i dodici e i tredici anni. Se ci penso adesso… anzi, mi ci fa pensare lei: è abbastanza strano per un ragazzo. Però era proprio così. L’interesse e l’amore per il Fabre è continuato, continua ancora adesso. Se penso a lui, penso a lui come a un autore, come se fosse, non so… Gadda, Tomasi di Lampedusa.
Dopo Fabre ho letto Salgari; e poi le letture importanti sono arrivate molto dopo, quando già lavoravo. Dopo la guerra, avevo in mente alcune cose. Le avevo in mente, sì: pensi che scrivevo “rivisto e corretto da”. Chissà perché, immaginavo di rivedere e correggere quello che leggevo. Ho cominciato a scrivere, direi, alla fine degli anni Cinquanta. Mi sono sposato nel ’52, ho studiato musica fino al ’59, infine ho iniziato a scrivere.

 

CC: Aveva letto la poesia in prosa francese? Quella di Francis Ponge, ad esempio.
GN: Sì, il francese lo leggo. Ma le devo dire che sono pigro, quindi leggo in traduzione.
Devo dire che la letteratura francese mi ha molto influenzato, ma non solo la letteratura: anche il cinema francese. Per esempio l’école du regard, Truffaut, e poi Le Quai des brumes, Quais des Orfèvres. Sono film degli anni Quaranta. Allora c’era un grande attore che recitava anche alla Comédie-Française, Louis Jouvet. Di questo cinema mi piaceva il clima. C’era un pathos particolare, in questi film, che non c’era nei nostri, per esempio, e neanche negli altri. Mi sembrava caratteristico del cinema francese. E quindi ecco, devo molto a loro.
CC: Ha cercato di ricreare quella stessa atmosfera?
GN: Sì, sono stato molto influenzato da questa espressione, da questa forma. Mi è rimasta impressa, nella mia mente ha contato. Nella mia vita ho, soprattutto, letto e riletto. Ho letto molto François Villon. Qualche suo lascito l’ho capito, mi è sembrato almeno di capirlo, in tutte le sue allusioni. È un poeta molto allusivo. E poi anche la letteratura spagnola ha contato, in particolare quella picaresca: ad esempio Lazarillo de Tormes, l’ho letto tutto. Cervantes non l’ho letto. Continuo a rileggere le prime pagine e non vado più in là. Forse il motivo è che lo leggo in originale e mi stanco. Molte parole non le conosco. Neanche «el mismo Aristóteles», come dice Cervantes, sarebbe in grado di capirlo, se tornasse al mondo.
Io non leggo in estensione, ma leggo in profondità. Se mi innamoro di un autore, come capita di innamorarmi… Anzi, penso che sia destino dell’uomo maschio, quello di innamorarsi, più che della donna. Sa, io ragiono da naturalista. Le femmine sono lì a brucare l’erba, mentre i maschi sbattono la testa l’uno contro l’altro. Dicono che sia un comportamento rituale. Io non vorrei essere nei loro panni quando si picchiano così violentemente la testa. Credo che qualche volta si rompano anche le corna in questo scontro. Però il maschio, continuamente innamorato, rimane continuamente marginale rispetto al dramma dell’amore.

CC: In che senso?
GN: Nel senso che è una funzione variabile: è lui, ma potrebbe essere un altro. La natura ama i grandi numeri, non si ferma sull’Amleto. La femmina, invece, è centrale, e dunque porta avanti la vita, l’umanità. Non c’è confronto. All’uomo spetta un ruolo secondario, rispetto all’amore. Ne ha un altro importante per la difesa del nucleo, formato dalla femmina e dalla prole. Naturalmente, sa, in poesia conosciamo l’amore di Dante per Beatrice, di Petrarca per Laura; non sappiamo come sia stato il contrario. Questo è l’aspetto poetico, la realtà è diversa. Non nego che per l’uomo l’amore possa essere importante così come i poeti lo descrivono. Ma è il ruolo che io considero, ecco, e il ruolo è quello che ho appena descritto. Poi posso sbagliarmi.
Comunque, le dicevo che è il destino dell’uomo è innamorarsi. L’uomo si innamora non solo delle donne, ma anche degli uomini, delle idee, dei progetti. Ha questo dono, di essere colpito nell’immaginazione, e quindi nella sensibilità. «Al cor gentil rempaira sempre amore». Per la donna è diverso. Sarebbe un guaio, se avesse la stessa disponibilità di perdere la testa. C’è una saggezza dell’istinto che dà alla donna equilibrio e sapienza di giudizio. Naturalmente ogni legge ha le sue trasgressioni; però nella grande massa dei numeri è così. Dove entra la capacità di analisi, la donna eccelle. L’uomo è portato alla sintesi. La donna si poggia di più sulla ragione che sull’intuizione. Una cosa non esclude l’altra, ma è una questione di accento.

 

CC: Di solito, però, vengono sottolineate la razionalità maschile e l’istintività femminile.
GN: C’è un’istintualità naturale nella donna, sì, ed è quella grazie alla quale il mondo va avanti. Dubito che il mondo andrebbe avanti allo stesso modo, se dipendesse solo dagli uomini. Ma questo nulla toglie alla tesi che ci sia, parallelamente, una capacità di ragionamento così spiccata. L’uomo è più ingenuo e impulsivo.
Fra gli autori dei quali mi sono innamorato in profondità, c’è anche Melville. Pensi che sono stato operato di cancro a un polmone, vent’anni fa, e mi ricordo di aver detto a mio fratello, siccome l’operazione era andata bene: allora potrò leggere ancora Melville. Sono state le prime parole che ho detto, finita l’operazione. Mi riferivo a Moby Dick, naturalmente.

CC: Leggeva ancora i naturalisti, oltre a Melville?
GN: Sì, ho letto un po’ Buffon; poi ho letto Marais, che ha scritto L’anima della termite (L’anima della formica bianca, Adelphi). Immaginava il termitaio come un organismo unico, con tante cellule quante sono le termiti – però unitario. La stranezza di un insieme di termiti, che costruisce quelle che in Africa sono quasi collinette, insomma costruzioni abbastanza grandi, è che tutto dipende solo dalla termite regina. L’unico modo per distruggere un termitaio è colpire la termite regina. Se lei colpisce le termiti combattenti o operaie, quelle vengono rimpiazzate con altre. Colpire la regina vuol dire distruggere tutto.
CC: Riusciva a trovare immagini del genere, leggendo la prosa italiana? Quali autori italiani leggeva?
GN: Ho letto Pirandello, Verga. Pirandello con più entusiasmo, devo dire: Il fu Mattia Pascal mi aveva colpito. L’idea che uno sia uno, nessuno e centomila mi affascinava.
CC: Anche lei sceglie più personaggi, all’interno delle sue opere.
GN: Esatto. Questa idea l’ho ereditata da Pirandello. Anche perché, appunto, io penso che il male sia dentro di noi. Guardi, io ho scritto Dallo stesso luogo, e il titolo viene da questa idea qui. L’ho pubblicato con Cagnone. Ero a Trieste, a una conferenza in cui ha parlato uno scrittore di cui non ricordo il nome. A un certo punto, finita la conferenza, una donna si è alzata per chiedere se lo scrittore avesse mai conosciuto i lupi. Lui ha risposto: se intende i lupi animali, quelli li ho visti al giardino zoologico. Se invece intende i lupi naturali, ho visto anche quelli, mascherati da uomini. E in quel momento io ho pensato che avevo trovato il titolo: Dallo stesso luogo. Non è come dice lui, lo scrittore che il male lo vedeva solo negli altri: il male è dentro di noi. Avessi dovuto rispondere io, avrei detto: i lupi? Tutte le mattine, quando mi faccio la barba, vedo il lupo.

 

CC: Leggeva anche i suoi contemporanei, gli autori che scrivevano in quel periodo?
GN: Poco. Ma, le dirò, certe volte basta poco. Per esempio mi piace molto un verso di Porta, che dice «Della mia vita a un certo momento non seppi più nulla, salvo quello che mi diceva il barbiere» (è l’unico suo verso che conosco a memoria). E di Balestrini ricordo Dal sasso appeso: all’inizio dice «Ma dove stiamo andando, col mal di testa, la guerra e senza soldi?». Poi c’è un «oltre» ecc, e quello è meno bello. Ma l’inizio è molto bello.
CC: Dunque leggeva un po’ la Neoavanguardia.
GN: Sì, perché lì c’era anche mio fratello. Venivano a casa di mio fratello, che era la mia. Allora però io non mi interessavo specificamente di letteratura. Ero lontano dall’idea di scrivere.

CC: Torniamo alla sua scrittura: quando infine ha iniziato a scrivere, perché ha scelto la prosa?
GN: In fondo cosa vogliamo, quando scegliamo la poesia o la prosa? Vogliamo innanzitutto l’arte. E allora, per me è più facile in prosa. Sento di più quello che devo dire, e ci sono molte cose da dire… per esempio sul Fumagalli. Se dovessi dirle in poesia, cioè in una forma in cui guardare ogni parola come se fosse l’ultima, non avrei la possibilità di dire tutto quello che voglio dire. A me sembra che questo non tolga niente all’arte. Quando diciamo «poesia», in realtà il nostro è un fraintendimento. Noi intendiamo l’arte. Anche in prosa.
CC: Tuttavia la poesia c’è in alcune prose più che in altre.
GN: Certo, c’è in quelle che hanno in mente l’arte.
CC: Però ci sono anche grandi romanzi che hanno in mente l’arte.
GN: Ah, certo. Tolstoj, a proposito di Infanzia e adolescenza, ha detto che è qualcosa come l’Iliade. Eppure, l’Iliade è scritta in versi. Ma lui non ha pensato a quello, ha pensato all’arte. Anche in Guerra e pace e Anna Karenina c’è l’arte.
CC: Guerra e pace e Anna Karenina hanno bisogno di un intreccio, di una struttura, di una organizzazione della trama, di una costruzione dei personaggi, che non sono proprie della poesia (ma dell’arte sì, se continuiamo a considerarli opere d’arte, come anche lei ha appena fatto). Ci sono, invece, alcune scritture in prosa (come la sua, come quella di alcuni filosofi, come quella di alcuni autori di aforismi) che non hanno bisogno di questo tipo di architettura.

GN: Sì, questo è vero.
Anche la descrizione può essere arte; io adesso sono interessato alla descrizione. Ho ricevuto un libro di un ragazzo, si chiama Costa, Sergio Costa. La sua tesi di laurea mi permette di fare una considerazione sul paesaggio. Per me il paesaggio è soprattutto un paesaggio dell’anima, come le dicevo per quei film francesi. Quella tensione che c’è nei film di Truffaut, quell’atmosfera, quel pathos: quello è il paesaggio. Io posso dire «Una scalinata saliva fiancheggiata dagli alberi». E lo dico perché la scalinata del Terragni, a Erba, è fiancheggiata dagli alberi. Tuttavia non è che io pensi ai cipressi come ci pensava, per esempio, Carducci. Non penso agli alberi in quel modo. Ci penso come disegno: dico che sono lì perché sono lì, non perché mi piacciano o perché mi dicano qualche cosa. Piuttosto, mi interessa che la strada vada dal punto A al punto B. Dico, per esempio, che dalla casa del Nene la strada andava verso la montagna fino a scomparire dietro una curva: ecco, questo mi interessa. Il collaudo più importante è chiedermi se una cosa interessa. Se mi rispondo di sì, va bene che lo abbia scritto.

 

CC: Facendo queste descrizioni, lei inserisce elementi che non c’entrano direttamente con il paesaggio reale, e che quindi creano uno straniamento. A volte si tratta di dialoghi. Non si tratta solo di una descrizione mimetica, insomma.
GN: No, ha ragione. Questa è un’osservazione giusta.
CC: E a volte ci sono immagini che alcuni suoi critici hanno considerato metafore, simboli. Ad esempio, mi viene in mente L’albergo degli angeli. Ho letto tre interpretazioni diverse di quel suo testo. Dunque possiamo dire che, a volte, lei usa alcuni strumenti della poesia: la metafora, l’immagine che forse allude a qualcos’altro.
GN: «Guardo una mistica frana di castelli in aria». Questa la ritengo poesia.
Ma anche: «[…]nemmeno un bambino giocando sulla spiaggia quando il fronte del temporale si staccò dalla linea più lontana e cominciò a venire avanti rapidamente».
Ecco, a me interessa l’idea di qualcosa che si annuncia all’inizio come se fosse niente, e poi invece diventa… Sa, come dice Pasternak, per esempio: i terrori sono terribili. Una volta si pronunciavano queste parole in maniera leggera, anzi in una forma magari di giustizia. Il terrore ci vuole per combattere un’altra forma di terrore. Ma poi succede che i terrori, quando li vediamo, sono terribili (lo dice nel Dottor Živago). Quello che all’inizio sembrava un punto diventa una montagna. Molte cose cominciano così, bene, e finiscono male – in genere le rivoluzioni: si hanno in mente le cose più alte, e poi finiscono nel terrore, nella sopraffazione; sempre salvando magari una parvenza di intenzioni, ma finiscono male. È difficile per l’uomo costruire. Anche la torre di Babele è stata distrutta da qualcosa che è sopra di noi; c’è sempre il desiderio dell’uomo di essere come Dio. Ma anche l’arte è così, io penso, e ho scritto.
Dal punto di vista editoriale, ora ho due cose in ballo. Una si chiama Via provinciale, ed è la cosa più importante. Sono circa ottanta testi, tutte prose. Uscirà l’anno venturo per Garzanti. L’Altro è Persone, per Edizioni Sottoscala, di Bellinzona. Si riferisce a incontri miei, prefazioni che ho fatto e che non volevo perdere, presentazioni adattate leggermente, più altre cose. Ad esempio: avevo finito Liceo, ed ero andato a Varese, dove abitavo. Nel ritornare ho visto una ragazza, mi aveva colpito qualcosa di lei. Mi sono fermato, e lei rispondeva con semplicità, naturalezza. Il giorno dopo ho ricevuto la risposta ad una domanda di lavoro che avevo fatto; e poi non l’ho più vista. Però mi è rimasta in mente. Nell’ultimo lavoro di Persone questa ragazza è nominata come figura. Il destino è strano, siamo in parte governati dalla casualità. Come diceva Tolstoj: se Metternich invece di una strada ne avesse presa un’altra, quella mattina, forse sarebbe cambiato il destino dell’Europa. Questo essere legati a un filo, per gli uomini, è inevitabile.

 

CC: Anche per gli animali lo è, però.
GN: Gli animali…. Un naturalista faceva l’esempio di una specie di antilope che è scomparsa dal Sudafrica, perché, con l’avvento del filo spinato per distinguere i confini delle proprietà, gli animali continuavano invece a cercare di entrare in questo luogo, che era ormai diventato proprietà privata. Su questo ostacolo si era consumata tutta una specie animale non rassegnata a cambiare direzione, come invece avrebbe fatto l’uomo. C’è questa capacità di adattamento dell’uomo, che è strana: si adatta a vivere, per esempio, al Polo Nord, all’Equatore, ecc.
CC: Da questa capacità dipendono anche i terrori. Non trova? L’adattamento procede parallelamente alla riflessione dell’uomo su ciò che accade, e la riflessione produce quasi sempre angoscia; è quell’angoscia che distingue l’uomo dall’animale.
GN: Certo. L’animale cozza contro l’imprevisto, contro il nuovo, ma è portato a ripetere. Questo è un esperimento che ha fatto il Fabre con delle api. C’è un periodo in cui l’opercolo, la cellula, viene riempita di miele dall’ape. Se lei fora questa celletta (sono tutte uguali, esagonali) con uno spillo, il miele fuoriesce, la larva che è dentro è destinata a morire di fame; e allora l’ape la riempie di nuovo di miele. Però, passato il periodo in cui lei sa di dovere riempire di miele la celletta, se lei fora, il miele esce, ma l’ape non si preoccupa più. È passato il periodo, non le interessa più che l’uovo sia destinato a morire. È coatta a fare una determinata cosa in un certo tempo. Del resto il sesso, negli animali, è così. Salvo per una specie di scimmie, che non hanno questo tempo di fertilità e di calore, per tutti gli altri è così: hanno un periodo in cui c’è il richiamo del sesso. Siccome è anche un periodo in cui l’animale è abbastanza esposto ai rischi del suo vivere, è giusto che questo istinto non sia libero e svincolato, cioè che sia relegato a un certo momento.
CC: Lei è attratto da questi sistemi meccanici della biologia animale. Sembrano interessarle più di quelli umani.
GN: Cerco di capire cosa c’è dietro la meccanica. Quella umana è più difficile, più imprevedibile, ed è anche più difficile dire perché noi facciamo una certa cosa. Intervengono troppe concause, dunque è difficile sceverare una causa dall’altra e dire quale sia quella che ha contato di più. Invece per l’animale è tutto più scoperto; il loro mimetismo è più meccanico. Io lo trovo meraviglioso, perché ci vedo l’impronta di una forza che ci sovrasta.

 

CC: Lei è religioso?
GN: Sì. Sono un protestante, nel senso che protesto: non tutto mi piace della religione cattolica. Ma sono cristiano. Scrivevo a un mio amico che il dolce stil novo ci ha fatto uscire dal medioevo. E cosa aveva messo, lo stilnovo, in primis e ante omnia? La gentilezza. Lei pensi rispetto ai tempi e alle difficoltà del vivere, di comportamento associativo… la gentilezza. E, pure lì, ci sono stati uomini che hanno sentito questa esigenza di porre la gentilezza prima dell’amore, prima di tutto. Il cristianesimo mette l’amore prima, invece. E l’amore può anche non essere gentile. La gentilezza è una cosa a sé, che in un certo senso ci eleva dalla nostra animalità, ci mette su un piedistallo, ci solleva. Ho letto che nei primi anni del Novecento in Russia c’è stato un movimento di interesse per il dolce stil novo. L’ho letto su Zolla, mi è interessato molto. L’ho messo in relazione ai movimenti rivoluzionari che ci sono stati nel Duecento e nei primi del Novecento. Pasternak scrive i primi capitoli nel 1905.

 

CC: Sospetta sempre delle rivoluzioni?
GN: Delle rivoluzioni?
CC: Sì, delle rivoluzioni: dei momenti in cui gli uomini decidono di provare a cambiare il destino dell’umanità. Ne parla in modo scettico.
GN: Sa, alla mia età si diventa pompieri. Non è facile essere rivoluzionari. Ma io non lo sono mai stato. Nell’ambito della mia famiglia, posso dire che sono scappato da casa: è una rivoluzione dell’ordine stabilito, dell’ordine gerarchico che vuole che il figlio obbedisca al padre e alla madre. Mio padre era ancora vivo, all’epoca.
Però sono sempre attirato dalle idee. E le idee non lasciano mai le cose come erano prima, portano sempre qualcosa di nuovo. La vita è interessante per quello. Proprio il professor Fumagalli mi diceva, in una delle sue ultime conversazioni: non è tanto brutto invecchiare, sai? Perché ti rimane la testa.
CC: Mi parli di quel libro.
GN: Il personaggio centrale è lui; le sue idee, devo dire, che erano quelle di una religiosità in grado di apparire nella nostra quotidianità. Penso che lui, soprattutto, non potesse soffrire il banale, quello che tende a rendere uguali i giorni. Il nostro Vangelo dice: ad ogni giorno basta il suo affanno. È una frase che contiene tante verità: possiamo leggerla come desiderio di concentrarci su un solo argomento, oppure possiamo vederla come necessità di vivere giorno per giorno la vita, e quindi di rendere ogni giorno importante. Ogni giorno ha il suo elemento per essere importante. Il suo «affanno», poi, chissà com’è tradotto.
CC: Molta poesia del Novecento, però (e molta arte, in generale), nasce dall’angoscia per il banale, per la ripetizione dell’esistere.
GN: È vero.
CC: E da dove vengono i suoi personaggi?
GN: Sa, la vita non sembra, ma è lunga. E io ho conosciuto tante persone. Mi sento un po’ uomo in senso maschile, per questo. Ho avuto molta curiosità per la vita, per gli uomini, per tutti quelli che avevano qualcosa da dire. Proprio in banca mi è capitato, per esempio, che un mio collega mi facesse conoscere i libri di Kafka. Eravamo nel 1948. Vede, Teatro naturale viene dall’ultimo capitolo di America, che si intitola Il teatro naturale di Oklahoma. Il mio titolo viene da quello di Kafka. Il mio libro lo devo a quella lettura. Cerco di fare, come diceva Campana, un poco d’arte.

 

CC: In altre interviste lei nomina Dino Campana come punto di riferimento. Devo dirle che questo mi ha stupita: la prosa di Campana è allucinata, simbolica, molto diversa dalla sua.
GN: È vero. Però mi ha colpito molto Arabesco Olimpia: «Perché pensavo ad Olimpia che aveva i denti di perla la prima volta che la vidi nella prima gioventù».
Insomma, la bellezza è a portata di mano. Basta saperla guardare. La stupidità del vivere è passare ignorandola. Eppure lei c’è, esiste – voglio dire l’arte, che deve essere bella e buona. E, come diceva il Parini, della poesia, «che sol felice è quando / L’utile unir può al vanto / Di lusinghevol canto». Parini aveva in mente che la poesia dovesse significare. Per esempio la sua «Torna a fiorir la rosa», che ci facevano imparare a scuola, è una poesia d’occasione; la scuola sbaglia a insegnarla, sbaglia a insegnare la poesia come se fosse un balletto di maschere. Dovremmo tornare a Omero, in qualche modo, alle navi… insomma, alla sua verità.
CC: Chi è il dottor Livingston, invece?
GN: Era un grande esploratore… e credo di essere anch’io.
Era anche un pastore metodista, un protestante inglese, che è andato in Africa e ha scritto sulle sorgenti del Nilo. Nella seconda metà dell’Ottocento si dà grande risonanza alla scoperta dell’Africa. A un certo punto si erano perse le tracce di Livingston, in America c’è stata una corsa di alcuni giornali, che hanno finanziato spedizioni. Un certo Stanley era fra i giornalisti andati alla ricerca del dottor Livingston. Quando lo ha incontrato, ha detto una frase per la quale gli inglesi ridono ancora: «Doctor Livingston, I suppose».
CC: Che è la frase da lei usata nel libro: «Il dottor Livingston, suppongo». Mi piace molto quel frammento.
GN: Giusto. Ora sa che è un frammento vero.
CC: Lei non tiene molto al ruolo del poeta, mi pare.
GN: Forse è vero. Sa, sono abituato a considerare la mia figura sempre in polemica, in pòlemos.
CC: Rispetto al mondo letterario o rispetto alla vita?
GN: Rispetto alla vita non so: godo di una certa tranquillità per i miei bisogni. Non ho mai avuto neanche una macchina, per dire, e neanche una moto. Per la verità neanche una bicicletta: ce l’avevo, prima della guerra. Lì ho vissuto i miei anni più belli, fino all’inizio della seconda guerra mondiale, perché facevo le cose che mi piacevano: andavo in bicicletta, andavo in montagna. Avevo degli amici che avevano interesse per me e per quello che mi piaceva: parlare di insetti, parlare del Fabre… E poi andare a pescare, che ancora adesso mi piacerebbe. Ma i pesci, quelli che pesco, mi piace mangiarli. Non mi piace la pesca sportiva; e anche di lasciarli andare non mi va. Se faccio la pesca, è per prenderli e mangiarli, che è una cosa che serve. Come vede non sono buonista.

 

CC: C’è qualcosa che avrebbe voluto scrivere? Un romanzo, ad esempio (come suo fratello)?
GN: No, mai avuta quella tentazione. Scrivere una storia lunga mi sarebbe piaciuto. E qualche volta mi riesce di scrivere una storia più lunga di un’altra.
CC: Nonostante la sua vena polemica, come lei l’ha definita, ha poi frequentato poeti o scrittori, dopo avere iniziato a scrivere?
GN: Sì. Anzi, io devo molto all’amicizia, in generale. Nell’ambito dei poeti, ho avuto delle frequentazioni con Majorino, per esempio, o con Cucchi, con il quale ho litigato recentemente.
Gli avevo dato Via provinciale. Poi non ha più trovato il manoscritto, e me lo ha fatto rimandare. L’ho chiesto a mia figlia, che lo trascrive al computer. Dopo averlo rispedito a Cucchi, sono passati mesi: ottobre, novembre, dicembre. A fine gennaio, alla presentazione di una poetessa, ho incontrato la moglie di Cucchi e le ho detto, alla Valeria: «Senti, dì a Cucchi, per piacere, se devo chiedere udienza per sapere se il mio testo va bene o no». Il giorno dopo lui mi ha telefonato, mi ha detto che il libro gli era piaciuto. Eravamo a fine gennaio. Nel frattempo Riccardi, dopo un po’ che era andato via da Mondadori, è passato a Garzanti; gli hanno affidato la direzione della poesia. E lui mi ha chiamato, mi ha chiesto come ero messo con il libro che stavo scrivendo da tempo. Eh, l’ho dato a Cucchi, gli ho detto. E come si chiama? Via provinciale. Ah, mi interessa molto. E quindi, alla fine, l’ho dato a lui.
Quando lo ha saputo, Cucchi mi ha attaccato il telefono. No, non l’ha presa bene. Ma io lo capisco. Gli ho scritto, gli ho detto che continuo a considerarmi suo amico, ma ho deciso così. Anche la moglie mi ha detto pensaci, è una collana storica. Ma sono i libri a fare le collane, no?
E intanto era passato del tempo: era passato ottobre, era passato novembre, era passato dicembre, era passato Natale, era passato Capodanno e io non sapevo niente del libro, e i miei amici mi chiedevano allora, cosa dice Mondadori? E di là, invece, Riccardi era entusiasta…
CC: Ha frequentato solo poeti delle generazioni successive alla sua, o anche autori nati nei suoi anni? Negli anni Venti, Trenta.
GN: No, dei miei anni non molto. Casomai il cinema, come le dicevo. Ah, poi però ho letto e apprezzato Tomasi di Lampedusa. Mi piace il suo vocabolario, mi piace il suo punto di vista. Altre sue cose mi urtano. Che questo personaggio fosse così grasso, per esempio.

 

CC: Ora va al cinema? In questi anni, voglio dire.
GN: Mi piace un regista americano, quello del Mucchio selvaggio: Sam Peckimpah.
Ah, e poi mi ha colpito un film con Robert Redford, Corvo rosso non avrai il mio scalpo di Sidney Pollack. In questo film c’è un giovane cacciatore, che viene istruito da uno più vecchio. La vita si svolge in montagna, lui va a caccia, incontra gli indiani, danno la caccia all’orso. È una vita aspra. Alla fine vivere comporta uccisioni, e non solo di animali: anche di uomini per difendersi. Ma mi pare che tutto il senso più misterioso della vita di questo cacciatore sia alla fine del film e del racconto. Lui trova il vecchio cacciatore, il quale gli dice: so che tu sei diventato un grande cacciatore, parlano di te, ma… valeva la pena? Tutto questo valeva la pena? E lui dà una risposta zen: e chi lo sa?, gli dice. Nessuno sa niente. Uno può lavorare tutta la vita a cercare qualcosa, e poi magari non la trova. Il più delle persone non la trova. E allora si potrebbe dire: ma valeva la pena che tu…? E l’uomo deve rispondere: e chi lo sa?
CC: Lei ha trovato quel che cercava?
GN: Può darsi che il mio lavoro avesse un significato che neanche io conosco. Sì, penso questo. Penso comunque che sia bello, che quella risposta lì mi entusiasma – nel senso etimologico del termine: dio dentro, Zeus, qualcosa del genere. È una risposta estrema a una domanda estrema. Ed è una risposta anche per chi ha l’impressione di non avere trovato.
CC: Le faccio un’ultima domanda, molto meno estrema. Cosa pensa delle prose che si scrivono adesso? Lei saprà che la poesia in prosa ora va molto di moda. Prima nessuno scriveva in prosa, ad esempio negli anni Sessanta e Settanta, a parte lei (e pochi altri, in verità); poi, pian piano, svariati autori hanno iniziato a farlo anche in Italia: da Magrelli a Anedda, Dal Bianco, e poi Broggi, Inglese, Giovenale ecc..
GN: Ne penso bene. Penso che, a loro volta, abbiano capito che non è la poesia che ci interessa, ma l’arte. E la poesia qualche volta costituisce un ostacolo. Sa, a ogni azione corrisponde una reazione uguale e contraria: e la legge più misteriosa che ci sia, ma è vera. E poi c’è la maledizione cinese che dice: «Possa tu vivere in tempi interessanti», che vuol dire «Vai a morire ammazzato». Loro lo dicono in modo più sottile, ma con lo stesso significato. E siccome il Novecento è stato molto interessante, quanto a quello, è stato però, insieme e per contro, anche importante, perché ha buttato via certe costruzioni. Dovevamo… non so, dovevamo fare la poesia ancora come la faceva il Parini?
Dovevamo fare una poesia nuova. E, soprattutto, dovevamo pensare che la poesia, anche la loro, quella del Pascoli ecc., non dipendeva dalla forma. Quella forma lì ci aveva stufato; andava bene ai tempi del minuetto.
CC: Il Novecento ne ha cercate tante, di forme.
GN: È stato un crogiuolo di tante cose. E alla fine è venuto fuori qualcos’altro: è venuto fuori che la prosa è poesia.

Milano, 14 giugno 2016

 

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