di Cristina Alziati

 

[Esce oggi per Marcos y Marcos, nella collana degli Alianti, Quarantanove poesie e altri disturbi, di Cristina Alziati. Ne anticipiamo in anteprima sette testi scelti dall’autrice].

 

Risposta

ad Alberto Bertoni

«Come farai – domandavi una volta –
a scrivere ancora
dopo l’ultimo tuo libro di versi
come farai adesso?». Infatti non scrivo.
Ripeto soltanto che il dolore
è reale, e passato.
La storia è ciò che ho raccontato
di poco peggiore il presente
e non ne voglio dire.
Non troppo lontano infuria
un branco di cani.
Oltre il misero bosco, uguale latra
dentro la notte o l’alba, uguale.
Come faremo, adesso.

 

 

D’Europa

 

O forse nemmeno il lichene
verrà risparmiato, o la luce di oggi
è già oltretomba. Le settimane andate
possono alternativamente dirsi
pace o deserto, ormai fa uguale.

 

Io a malapena qui odo
tubare il colombo che all’alba
viene a posare sopra la ringhiera
su una coltre di neve. Nel panificio
più costoso d’Europa
in largo La Foppa a Milano
cercava briciole di pane.
Ammazzalo, gridavano – elegantissimi
a quello di loro con il bastone in mano.

 

Qui ora io altro non odo
che un tubare innevato, che viene
da ringhiere di cenere.

 

 

Il lago dell’Accesa

 

Precipitano ripide le sponde
sotto la superficie tersa
del lago dell’Accesa.

 

Prima del lago la leggenda
narra di un’aia, qui, di contadini
forzati a mietere a sant’Anna
alla festa del grano, e allora
si apriva un baratro infuocato
che tra le fiamme sprofondava
i buoi, i carri, i mietitori, l’aia.

 

Diluvia, poi, nella leggenda
e l’alluvione colma il baratro
e resta questo lago.

 

Perché affili lo sguardo
attraverso il nitore dell’acqua?
Cosa cerchi sul fondo?
Lo sai, la leggenda è menzogna.
Nulla più di uno specchio è quest’acqua.
Immota, fra le sponde
contiene soltanto, rispecchiato, il cielo.

 

 

Disturbi dell’udito

 

Ascolto un violoncello
è aspro, e insieme maestoso
suona il Libro dei falchi – ascolto
da un cd che un amico ha portato.
Seguo l’inabissarsi al grave
inesorabile, il vorticoso ascendere
a un’apparente tregua, che scricchia
negli acuti. Pare un ordine alterno
– l’affondo del rapace sulla preda
la riconquista gelida degli alti cieli.
Poi tutto si confonde, perdo la sponda.
Ritorna il falco dei miei versi
immobile nel vento il volo.
Acuto, grave? Alla deriva
stanotte, della preda
udrò levarsi, al grave, acute strida.

 

 

L’eco

 

Dentro la notte spessa
– fatte salve le stelle –
per il pascolo alpino me ne vado
al cospetto assoluto del Gran carro
che tocca da sempre il crinale dei monti.

 

Nell’aria ferma, di cristallo
muove ora una voce – sono
in un luogo strano
e dentro un tempo strano, dice.
O forse è un’eco, e io non so
se sia dal fondo della valle
o dai larici radi, a provenire
e non lo so dove rifranga
se mentre dice proprio qui esisto
e ora io
dai secoli e altrove esisto
la odo dire.

 

 

Culla

a mia figlia

La biologia che in un istante
me porterà a non più esistere
mentre tu duri, l’immagine
che sarai tu a soffrirne, questo
vorrei dirti, è il doloroso lascito
che porta il nostro amore.

 

Ma tu, cosa ne sai del mio soffrire?
risponderesti, e invero
è solo tuo il sapere.
Ma nostra è la chiara mattina
e il vento, in cui guardiamo
le foglie tremanti e le gracili tele
da qualche ragno tessute nella notte
cullare imperturbata la rugiada.

 

 

L’amàca

 

Con certezza posso dire soltanto
contro che cosa, a volte, ho scritto. Il resto?

 

Oltre la notte dondola
fra luce e buio la mia amàca
tesa ai margini acuti di grazia
che un fiore
la ruggine dei rovi trafiggendo
ostende.

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