di Paolo Costa

 

1. Molto è già stato scritto sul sorprendente successo di Le otto montagne, il film diretto da Felix Van Groeningen e Charlotte Vandermeersch e tratto dall’omonimo romanzo di Paolo Cognetti. A stupire è stato soprattutto il fatto che durante le festività di fine anno molte persone abbiano preferito un film lento, relativamente lungo e anticlimatico alle classiche commedie natalizie.

Una spiegazione banale di quanto è accaduto è che il film sia piaciuto a tanti semplicemente perché ha diverse chiavi di lettura. Da un lato, Le otto montagne è una pellicola che parla di amicizia, in particolare di amicizia maschile: un sodalizio tra persone che si complementano, ma non sanno bene che farsene di questa complementarità. È però anche un film che racconta la paternità, in particolare le difficoltà a costruire un modello praticamente e simbolicamente sostenibile di genitorialità non maternocentrica. E, soprattutto, è un tentativo riuscito di narrare un lato delle vite contemporanee che molti avvertono come capitale: il bisogno cioè di trovare qualcosa di essenziale, solido, durevole, in esistenze che naufragano nell’irrilevanza, nella superficialità frenetica e sovraeccitata del mondo precario e iperconnesso che sta diventando intollerabile per una porzione crescente della popolazione mondiale.

 

E che dire della Montagna? Il fatto che sia ambientato in una valle alpina ha pesato o no sul successo del film?

Sì e no, mi verrebbe da dire. L’ambiente montano è sicuramente un luogo congeniale per inscenare le contraddizioni della forma di vita moderna. Non è però l’unico. È facile infatti immaginare un altro teatro naturale in cui il paesaggio entri in risonanza con la vita interiore dei personaggi innescando un processo trasformativo dagli esiti imprevedibili. Pur non essendoci mai stato, il primo che mi viene in mente, per antifrasi, è la Pampa argentina. Ma siamo in Italia e la Montagna da noi incarna effettivamente la frontiera simbolica, i margini slabbrati della modernità. Che ci sta a fare nel nostro mondo una realtà così intricata e ingombrante? Può avere solo un valore contrastivo. È il luogo, cioè, in cui ci si rifugia temporaneamente quando in pianura fa troppo caldo o dove ci si raduna con i propri simili quando il Mare non può servire allo scopo. Altrimenti, tanto varrebbe spianarle giù tutte, come voleva fare col passo del Turchino Piero Diacono, il tranviere milanese, che fece sorridere mezza Italia nel 1978 esponendo a Portobello la sua soluzione finale al problema della nebbia in Val Padana.

2. Nelle Otto montagne le Terre alte sono una via di fuga impossibile dalla scommessa moderna. La scommessa è ormai persa, anche se non c’è modo di saldare il debito accumulato. Così la Montagna finisce per simboleggiare il perno solo apparentemente stabile di vite il cui girare a vuoto, per citare fuori contesto Wittgenstein, è proprio ciò che determina a conti fatti l’immobilità seducente dell’asse.[1] In questo senso, il dualismo tra le otto montagne e il monte Sumeru dell’apologo nepalese che ha fornito lo spunto per il titolo di libro e film non produce più alcuna tensione reale. Non solo l’universo non ha alcun centro, ma se lo avesse sarebbe anch’esso caleidoscopico.

È questa, d’altra parte, l’immagine di ciò che rimane oggi della dorsale della macroregione alpina che ci viene trasmessa da un bel documentario, Alpenland (Robert Schabus / Austria / 2022 / 90’) che, meglio di qualsiasi studio scientifico sull’argomento, ci aiuta a capire quale complessità storica, culturale e ambientale si nasconda dietro la figura mercuriale di Bruno, il personaggio chiave delle Otto montagne, interpretato con risultati altalenanti da Alessandro Borghi.

 

Immergendosi nelle varie storie di montagna raccontate in Alpenland è possibile toccare con mano l’effetto caleidoscopico che può avere oggi un viaggio nelle Terre alte che tocchi paesi diversi, sebbene limitrofi, come Austria, Germania, Francia, Italia e Svizzera. Il profilo poligonale che la Montagna rivela a un simile sguardo panoramico lo tradurrò qui, per brevità, in una lista di otto macroimpressioni.

La prima riguarda la sopravvivenza stessa dell’antichissima civiltà alpina. Ha senso immaginarla oggi come qualcosa in più di un pittoresco fossile culturale? Il primo episodio del film, che racconta ciò che è rimasto oggi di un maso in Mölltal (Carinzia), non nasconde l’ambivalenza profonda di una forma di vita che per secoli ha rappresentato un punto di equilibrio precario tra un ambiente naturale allo stesso tempo avaro e prodigo e comunità di uomini e donne impegnate in una durissima lotta per l’esistenza. La scena della manza che rotola per centinaia di metri dopo essere stata spinta scioccamente da un’altra bestia mentre procedeva su un sentiero impervio durante la transumanza basta e avanza per disegnare il profilo ambiguo di un modo di stare al mondo da cui pure emana, comunque, anche un fascino speciale. («Così ha capito che non è tutto semplice e sicuro», commenta il padre con scarsa convinzione, riferendosi alla figlia Julia che, contro voglia, ha partecipato per la prima volta al tradizionale appuntamento di inizio estate.)

 

Basta però voltare pagina e spostarsi di qualche centinaia di chilometri per capire che la Montagna può essere oggi un investimento redditizio: un bene di lusso che non corre alcun rischio di svalutarsi. Nell’episodio ambientato a Garmisch Partenkirchen, la trattativa per l’acquisto di una casa per le vacanze dispiega davanti agli occhi dello spettatore il processo di brandizzazione delle Terre alte che la pubblicità delle località dolomitiche più glamour dovrebbe avere già reso familiare a chiunque. L’elenco delle virtù dell’abitazione sciorinato dall’elegantissima agente immobiliare ci fa capire che cosa hanno in testa i benestanti quando vogliono procurarsi un rifugio tra le Alpi: «Nei nostri immobili di lusso, facciamo in modo che nei bagni entri luce naturale. Le porte e i pavimenti sono in legno di rovere, quindi sono di alta qualità, come le finiture. Qui e nelle camere da letto ha l’aria condizionata centralizzata. In tutte le stanze ha il riscaldamento a pavimento. Un’altra caratteristica dell’attico è l’altezza dei soffitti. Crea un’atmosfera più leggera e arieggiata. Ha anche le travi di abete a vista. Angolo soggiorno, cucina. Può mettere una cucina componibile, ma è previsto anche lo spazio per l’isola. Da qui si vede la funicolare del Kreuzeck. Poi tutto il massiccio: Alpspitze, Wetterstein e Zugspitze. Non tutti in questa zona hanno una vista così bella sulle montagne. Ciò naturalmente si riflette anche sul prezzo. Bisogna esserne consapevoli. La vista ha il suo prezzo… Circa 10.000 euro al metro quadro».

 

D’altronde, la Montagna è notoriamente anche un gigantesco luna park, soprattutto invernale, che non solo i cambiamenti climatici, ma, più in generale, la coazione alla crescita tipica delle economie capitalistiche sta rendendo rapidamente insostenibile da un punto di vista ambientale (e non solo). Come capita in molti altri ambiti della nostra società, tale rapporto predatorio con un contesto di vita fragile, da cui vengono continuamente estratte risorse naturali in cambio di beni monetizzabili, è tanto scandaloso quanto apparentemente insanabile – effetto deterministico di una logica sistemica che nessuno sa bene come rallentare o sovvertire oggi. Così non sorprendono più di tanto i toni cupi con cui la situazione viene dipinta dall’ex guardia forestale che ha trascorso la sua vita adulta ai piedi dello Zugspitze accumulando una documentazione fotografica dei cambiamenti accettati dalla popolazione locale senza battere ciglio. Il suo racconto sempre più desolato sfuma mentre sullo sfondo scorrono le immagini surreali di una gara di sci disputata lungo una striscia di neve che pare una lingua bianca che penzola da un volto cianotico.

 

Tutto ciò contribuisce a rendere l’Alpenland contemporaneo quel luogo malinconico, senza apparente futuro (i «tristi tropici» alpini), su cui esistono già studi scientifici ineccepibili,[2] e che viene raccontato senza enfasi nell’episodio del film ambientato in Francia, a Meribel. La vicenda narrata è l’emblema della precarietà di cui è vittima oggi chi ha scelto di restare o tornare nelle Terre alte. L’unico medico del paese è sul punto di andare in pensione e la perdita si annuncia catastrofica per l’intera comunità, che non ha apparentemente problemi ad attirare finanziamenti per i grandi eventi – in questo caso una tappa del Tour de France – ma non sa come creare le condizioni per curare la ferita che da secoli dissangua la quasi totalità dell’arco alpino: lo spopolamento.

E, nondimeno, la Montagna riesce a essere anche oggi un luogo vitale di resilienza socio-economica. Il quadro più sorprendente e corroborante del polittico dipinto da Robert Schabus è ambientato nelle Alpi orobie e racconta la storia di un paese, Premana, in cui emigrazione e industrializzazione non hanno causato gli effetti devastanti che hanno prodotto quasi ovunque sul versante italiano dell’arco alpino. In questa cittadina di duemila abitanti incassata tra i monti Legnone e Pizzo Alto, una fitta rete di aziende a conduzione familiare è riuscita nell’impresa di tenere in vita un tessuto produttivo in grado di reggersi sulle proprie gambe, malgrado tutto. Che cosa ha reso possibile questo piccolo miracolo socio-economico? «Una cosa importante di questa realtà», spiega uno degli intervistati, «è che tra le aziende, comunque, malgrado delle piccole competizioni, si crea un tessuto dove ci si aiuta, o comunque si collabora. Questo fa sì che per quasi tutte le difficoltà tecniche che si presentano in un’azienda abbiamo una soluzione che è nel paese: perché c’è il fabbro, c’è il meccanico, c’è l’esperto di aria compressa, c’è l’elettricista, c’è l’informatico. In questo modo l’azienda, pur in un posto isolato, ha tutte le possibilità che forse a Milano faticherebbe di più a trovare. Lo svantaggio è la posizione – perché questa è una posizione infelice. Logisticamente parlando, è un controsenso che le aziende siano qui, perché a noi i trasporti costano di più, gli spazi sono limitati, e quindi chi vuole crescere deve fare i conti con questa cosa. È chiaro che i grandi sogni si possono fare solo se ci si pensa fuori. Però diciamo che anche l’equilibrio raggiunto ci piace». «È solo un paese», osserva tirando le somme Fausto Rizzi, «ma è il paese in cui sono nato, ci sono cresciuto, ho gli amici, dove ho le montagne, i fiumi, ho i parenti, il lavoro, la famiglia, la scuola e quindi è niente, ma è tutto per me. Lotterò fino alla fine per rimanere a Premana».

 

Ma l’episodio più emozionante di Alpenland, e sicuramente uno dei più poetici del film, è il racconto delle storie parallele di Adriano e Marta Fossati, padre e figlia, che in valle Stura inseguono in modi diversi, con la loro esistenza tribolata di pastori in una società che non sa che farsene di modelli di produzione non industriali, il sogno romantico di un’altra vita possibile. Chiamandolo «romantico» non intendo affatto dire «sentimentale», ma semplicemente trovare un’etichetta adatta per questa riflessione impeccabile che Adriano formula senza enfasi davanti alla telecamera alla fine del suo segmento di pellicola: «C’era la cooperativa del latte – io mi ricordo i primi tempi che sono andato via dalla fabbrica… era proprio una miseria. Il latte del mese valeva 60.000 lire, sarebbe come dire trenta euro adesso. Cosa fai con trenta euro? Mangi una pizza. Però quei trenta euro me li sentivo che mi appartenevano proprio. Era una soddisfazione mia. La vita non è fatta solo di denaro. La vita dev’essere fatta di soddisfazioni. La vita è breve – perché è solo un passaggio – ma almeno quei quattro giorni che c’abbiamo da vivere devi star bene con te stesso, se no a cosa serve?».

 

E, nondimeno, è l’epilogo di Marta a imprimersi nella memoria di chi segue con partecipazione il loro dialogo a distanza: «Io volevo sempre andare con mio padre. Ma mio padre camminava velocissimo, doveva andare dalle pecore e quindi mi lasciava lì. Cioè a cinque o sei anni mi lasciava lì [indica in alto], in mezzo alla montagna. La maggior parte dei bambini si saranno persi al supermercato, e io mi son sentita persa in mezzo alla montagna. E quindi pianti, lacrime, disperazione. Poi lui arrivava e mi diceva: “Che cosa piangi? Ero solo ”. Al che tu pensavi: “Ma lì dove? Sono piccola, non puoi lasciarmi qua così”. Ma nonostante tutto, nonostante lo shock dell’abbandono, alla fine faccio, se non il suo stesso mestiere, qualcosa di molto simile».

Nel complesso, il tono del ragionamento di Marta è malinconico, senza essere disperato: «Io negli anni ho sempre visto un calo… un calo di gente… sempre più concentrata in alcuni periodi e poi tantissimi mesi di… nessuno. Questa mancanza di tessuto sociale, questa solitudine… Può risultare difficile vivere sempre così. E a volte, quando ho visto dei miei coetanei provare a vivere qua, a lavorare qua, anche con un sacco di entusiasmo e di buone idee, e dopo un po’ di anni andarsene, è stato un dolore. Io l’ho vissuto proprio come un fallimento della Montagna. Però, spero davvero che possa cambiare qualcosa. Bisognerebbe forse sperare in un ritorno alle montagne da fuori».

 

Malinconia a parte, la Montagna, però, ha anche il suo versante ipermoderno. Nel settimo episodio di Alpenland non a caso il lato al sole della storia ha per teatro la Svizzera, in particolare Zermatt, ai piedi del Cervino. Qui lo spettatore scopre con stupore che in questo microcosmo elvetico esiste dagli anni Novanta una folta comunità di immigrati portoghesi (circa 2.000) che si è inserita alla perfezione nel territorio svolgendo ogni tipo di lavoro, dai più classici (turismo, edilizia, commercio) ai più moderni (la cura del ghiacciaio del Plateau Rosa, minacciato dal riscaldamento globale del pianeta). Questa frontiera estrema del presente che attraversa un luogo che dovrebbe incarnare la sua periferia simbolica aiuta lo spettatore a rappresentarsi il lato prosaico del vivere in montagna – «Lavoriamo molto, mio marito in un cantiere e io in una panetteria. Non sono i lavori dei nostri sogni. Voglio che un giorno i miei figli possano dire: “Ho il lavoro dei miei sogni”. Per me è molto importante. È anche per questo che lavoro così tanto. Ed è necessario, perché in Svizzera è tutto molto costoso. Non solo qui, ma dappertutto. Anche studiare e ricevere una buona istruzione è molto costoso. E per noi è importante che i nostri figli ricevano una buona istruzione. E che siano soddisfatti della loro vita» – meglio di qualsiasi tirata contro le romanticherie alpestri e la velleitaria ricerca dell’autenticità tra le vette a cui si abbandona anche Bruno in uno dei momenti clou delle Otto montagne: «Siete voi di città che la chiamate natura. È così astratta nella vostra testa che è astratto pure il nome. Noi qui diciamo bosco, pascolo, torrente, roccia, cose che uno può indicare con il dito. Cose che si possono usare. Se non si possono usare, un nome non glielo diamo perché non serve a niente».

 

Alla fine, chiudendo il cerchio, Schabus torna proprio lì dove era cominciato il suo viaggio alla scoperta di ciò che resta della civiltà alpina, per porsi obliquamente la domanda che ne riassume il senso profondo: a chi spetta di diritto l’eredità di quel patrimonio ambientale e culturale che continua a sedurre gli amanti delle vette anche in una società che non sa più che farsene della faticosa complessità registrata senza commento nel film? Lasciando la parola a Julia, l’incantevole figlia unica di Josef ed erede designata del suo enigmatico patrimonio («Qui il lavoro è più pericoloso che a valle. Il tempo è più estremo e cambia all’improvviso. Qui è tutto più… Bisogna fare più attenzione. Maneggiare i macchinari è più pericoloso qui in montagna. Il terreno è quasi tutto scosceso. Eppure preferisco essere un allevatore di montagna che farlo a valle. È così e basta»), il film si conclude consegnando agli spettatori un’immagine delle Terre alte come lascito incerto, alla ricerca di nuovi imprevedibili e titubanti eredi. «Le cose devono cambiare», proclama infatti la ragazza alla fine del suo lucido bilancio della situazione. «Personalmente vorrei fare in modo che gli allevamenti alpini sopravvivano…Ma si lavora senza sosta alla fattoria tutto il giorno… non si può andare avanti così… In effetti, mi sento un po’ sotto pressione. Ma come dice sempre mio padre: “In qualche modo, ce la faremo”. E in qualche modo, ce la farò».

D’altra parte, ci vuole fegato (e testa, cuore, fiato, calli) per infilarsi con ragionevole fiducia nel labirinto moderno delle Otto montagne.

 

3. La gente, dunque, è convinta oggi di andare in Montagna, ma ciò che si trova di fronte è in realtà un ventaglio di volti delle Terre alte che è quasi impossibile mettere a fuoco simultaneamente. Come reagiscono le persone di fronte a tanta complessità?

Una risposta intelligente a questo interrogativo è offerta da Alpinestate (Italia / 2022 / 30’), un documentario girato durante la pandemia da Michele Trentini.[3] Il principale obiettivo di questo piccolo film è articolare in una forma estetica adeguata un’intuizione profonda, e cioè che la nostra (voglio dire, di noi gente comune) relazione con la montagna è a conti fatti spesso significativamente «goffa». Questo aspetto emerge dalle immagini come un’evidenza, perché la fissità della camera si limita a registrarlo senza giudicarlo. Non si tratta però di un fatto che si autointerpreta. Al contrario, l’atmosfera da cui è avvolta la pellicola è volutamente sospesa, enigmatica, difficile da decifrare. Qualcosa accade, ma il suo significato non è chiaro. Eppure non c’è nulla sullo schermo che non ci sia familiare. Da dove deriva quindi il nostro imbarazzo?

 

Prendendo in prestito un’osservazione di Paolo Malaguti, l’autore del fortunato romanzo Il moro della cima,[4] potremmo dire che persino chi ama la Montagna di un amore autentico ha oggi con essa un rapporto che ricorda quello di un orfano con la propria madre (reale e simbolica): dilettantesco, soggiogato dall’immaginazione, pieno di sensi di colpa – goffo, per l’appunto.

Come si può desumere anche dall’impianto cinematografico di Alpenland, questa considerazione racchiude una verità non facile da tradurre in parole. Anche negli amanti più sinceri delle Terre alte c’è infatti qualcosa che ricorda i turisti per caso finiti sotto lo sguardo curioso, forse qualche volta indiscreto, ma mai sprezzante, di Trentini. Il risultato è una geniale lezione di indulgenza, che colpisce forse persino oltre i suoi meriti intrinseci perché questo è un lato del problema difficile da mettere a fuoco senza cadere in una qualche forma di moralismo.

Insomma, perché la Montagna nella nostra civiltà finisce per produrre tanta malagrazia?

Il quesito è importante proprio perché dalla qualità della nostra risposta dipende il destino di un territorio che si concilia a fatica con le caratteristiche distintive della forma di vita moderna: velocità, linearità, saturazione, impazienza, insolenza.

 

Esistono evidentemente risposte socio-storiche a questo interrogativo che non sono sfuggite a chi ha studiato a fondo la metamorfosi della nostra relazione con l’ambiente naturale in corso ormai da un paio di secoli[5]. Il bivio è limpido: la natura o la si tratta come un bene di consumo voluttuario o come una risorsa da sfruttare senza scrupoli. Chi si ostina a restare in mezzo al guado è destinato a incespicare e a compiere, prima o poi, un doloroso ruzzolone.

La chiave di lettura che vorrei suggerire in conclusione punta, tuttavia, in un’altra direzione. Se è vero che l’essere umano è l’animale deludente per antonomasia perché non è mai all’altezza delle sue parti migliori, allora forse il nostro rapporto ingarbugliato con gli ambienti alpini dipende prima di tutto dal fatto che anche le Terre alte non riescono mai a essere all’altezza delle loro parti migliori e questo contribuisce a rendercele famigliari e particolarmente care. D’altronde, non esiste montagna incantata che rimanga magica per trecentosessantacinque giorni all’anno.

 

Le Terre alte, lo ribadisco, hanno molti volti e alcuni di questi sono francamente deprimenti. Per questo colpisce, e convince, il sottotitolo del documentario di Trentini: Human nature. Contemplati da questa angolazione, montagna e specie umana danno effettivamente vita a un disorientante gioco di specchi che confonde i pensieri seminando dubbi che finiscono per intralciare i nostri giudizi e i nostri riflessi condizionati.

Se mi è consentita un’ultima considerazione, formulata in un registro più upbeat, aggiungerei soltanto che la goffaggine registrata senza commenti in Alpinestate nasce proprio dalla tensione tra le parti più deludenti e le parti più stupefacenti – diciamo pure «risonanti» – di uomini e montagne, che pure esistono e che, se non sbaglio, campeggiano sullo sfondo anche del racconto volutamente impassibile, ma a conti fatti benevolo, di Michele Trentini. È all’opera qui un sentimento basilare di fratellanza, forse sarebbe meglio dire di «paesanità» tra le persone che, credo, non sarebbe spiaciuto a Mario Rigoni Stern. Il successo al botteghino del film di Felix Van Groeningen e Charlotte Vandermeersch è un primo segnale che anche dalla malagrazia può nascere qualcosa di prezioso per tutti, in particolare nuovi modelli di solidarietà umana all’altezza dei tempi duri che si profilano all’orizzonte. Il grande merito di Paolo Cognetti è essere stato il primo a immaginare che questa opportunità possa giungere da luoghi che, per lungo tempo, abbiamo fatto di tutto per tenere ai margini del nostro campo di attenzione.

 

Note

 

[1] Cfr. L. Wittgenstein, Della certezza. L’analisi filosofica del senso comune, trad. it. di M. Trinchero, Einaudi, Torino 1999, p. 28 (§ 152).

[2] Cfr. C. Arnoldi, Tristi montagne. Guida ai malesseri alpini, Priuli & Verlucca, Scarmagno (TO) 2011.

[3] Il dvd del film uscirà a breve in un cofanetto pubblicato da Cierre edizioni.

[4] P. Malaguti, Il moro della cima, Einaudi, Torino 2022.

[5] Due libri utili per capire di che cosa sto parlando qui sono M. Varotto, Montagne di mezzo. Una nuova geografia, Einaudi, Torino 2020 e V. Della Dora, La montagna. Natura e cultura, trad. it., Einaudi, Torino 2019.

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