di Riccardo Capoferro
Dall’entrata in vigore dell’abilitazione scientifica nazionale [ASN], ossia la patente di idoneità che permette di accedere ai ruoli di professore associato e professore ordinario, è passato ormai più di un decennio. Ma le perplessità che fin dall’inizio hanno circondato la procedura non si sono dissipate. L’ASN è spesso percepita come un meccanismo contorto, difettoso e dall’andamento mutevole o addirittura imprevedibile. Impressioni suffragate da un dato certo: ha generato una fiorente industria del ricorso.
Che bilancio si può trarre, dunque, da questo primo decennio di ASN, specialmente per quanto riguarda le discipline umanistiche? Vorrei rispondere a partire dal caso particolare dell’ambito – ossia il “macrosettore” – al quale afferisce la mia disciplina (Letteratura inglese), per poi allargare lo sguardo. I problemi e le dinamiche che evidenzierò riguardano infatti buona parte delle discipline di area umanistica (nella suddivisione ministeriale, la cosiddetta “Area 10”) e sollevano, come vedremo, domande cruciali su fini, metodi e conseguenze di questo sistema di valutazione.
Il macrosettore concorsuale 10/L1, “Lingue, letterature e culture inglese e angloamericana” è nato grazie alla Legge 240/2010, meglio nota come “Legge Gelmini”, e comprende – in ordine di numerosità – i seguenti settori scientifico-disciplinari: Lingua inglese (L-LIN/12: 377 strutturati), Letteratura inglese (L-LIN/10: 177 strutturati) e Lingue e letterature angloamericane (L-LIN/11: 56 strutturati).
I candidati si abilitano, dunque, non per il loro specifico settore, ma per il raggruppamento più grande in cui esso è confluito. La loro idoneità è valutata da una commissione di cinque membri sorteggiati a cadenza biennale da un elenco di candidati al ruolo di commissario, appartenenti, ovviamente, al macrosettore stesso. Rientrano nell’elenco professori ordinari la cui produzione soddisfi dei criteri quantitativi (non particolarmente stringenti) indicati dal ministero.
Data la sua triplice articolazione, 10/L1 comprende, come molti altri macrosettori, un’enorme varietà di metodologie e indirizzi di ricerca (da qui la sua utilità come caso esemplare). Accoglie, per esempio, linguisti che lavorano sull’accessibilità, analisti del testo letterario interessati alle metafore nell’odeporica di inizio Seicento, studiosi di narrativa femminile nippo-americana. In sede di abilitazione, quindi, ciascun commissario è chiamato a esercitare il suo giudizio anche in discipline diverse dalla sua, a volte a valutare candidati di settori i cui rappresentanti non siano in commissione. Ad essersi ritrovato senza un commissario è stato, più d’una volta, L-LIN/11, Lingue e letterature angloamericane, il meno numeroso tra i tre settori confluiti in 10/L1. La legge, consapevole del problema, prevede l’utilizzo di pareri pro-veritate richiesti a studiosi del settore mancante. Questi pareri, tuttavia, non sono vincolanti e non sempre sono considerati dirimenti.
Lo scarso valore accordato finora ai pareri pro-veritate dà da pensare. In comunità e dipartimenti in cui le comunità accademiche sono più grandi (come in Nordamerica), la valutazione di candidati che dovrebbero lavorare in un certo ambito – per esempio la letteratura inglese medievale – è condotta da docenti con interessi di ricerca affini. Nel dipartimento di inglese di un’importante università statunitense vigeva nei primi anni 2000 un sistema di valutazione dei professori in attesa di tenure (cioè di una posizione permanente) che comportava la richiesta di pareri vincolanti ad autorità riconosciute del loro campo. Era il secentista, non il novecentista, ad avere l’ultima parola sul secentista. Il principio di fondo era evidentemente il ben noto principio weberiano secondo cui la conoscenza scientifica è conoscenza specialistica.
Il ricorso poco frequente ai pareri pro-veritate appare tanto più problematico alla luce di un altro dato: è possibile riscontrare una grande varietà di approcci e metodi anche all’interno dei singoli settori. L-LIN/12, Lingua inglese, comprende per esempio sia gli studi traduttivi di ispirazione post-strutturalista sia la grammatica descrittiva. All’interno di L-LIN/10, Letteratura inglese, l’approccio metodologico di chi studia i rapporti tra letteratura ed epistemologia nella cultura dell’Interregno può essere radicalmente diverso da quello di chi si occupa di teatro contemporaneo. A variare sono perfino i presupposti ideologici del lavoro di ricerca. La critica post-coloniale si basa, per esempio, su un’analisi dei meccanismi dell’ideologia che ha tra i suoi fini un’opera di demistificazione, e che entra in risonanza con un’agenda politica.
Nel corso degli anni, ci si è assuefatti alle logiche e ai riti dell’ASN, perdendo di vista la sua natura contraddittoria e i suoi difetti strutturali. Val la pena, quindi, di metterli in luce, andando alla ratio della legge e alle pratiche in cui si è tradotta. Alla base dell’ASN c’è un meccanismo di centralizzazione estrema, che entra però in contrasto con il principio dell’autonomia universitaria seguito dalla stessa riforma Gelmini. Ogni università partorisce i regolamenti dei suoi concorsi e sovrintende al loro corretto svolgimento; tuttavia, si può accedere a quei concorsi solo grazie a una piccola commissione dalla quale per due anni dipende il futuro di tutti i ricercatori in cerca di inserimento o di avanzamento.
L’ASN presuppone, in altri termini, una forte sfiducia nei confronti dei concorsi locali. Ma il rimedio non sembra migliore del male. La centralizzazione crea, infatti, una grande concentrazione di potere accademico, e il sistema dei macrosettori peggiora le cose. Da una parte dà facoltà di giudizio a commissari che, appartenendo a un settore diverso da quello del candidato, non avrebbero le competenze necessarie per esercitarlo (se fossi un commissario ASN, non voterei a cuor leggero contro l’abilitazione di un collega che si occupa di linguistica dei corpora); dall’altra, non può che incoraggiare i commissari alla divisione del lavoro, indebolendo la dialettica interna alla commissione – perché in sede collegiale la parola di chi ha più competenze non può che pesare di più – e determinando, nella sostanza, un’ancora maggiore concentrazione di potere decisionale. Il margine d’errore del processo di valutazione non viene, in altre parole, contenuto, ma ampliato.
Insomma: nonostante nasca dalla sfiducia verso la classe docente, il meccanismo dell’ASN presuppone una fiducia quasi mistica nei suoi commissari. Attraverso la casualità del sorteggio, li consacra al ruolo di super-esperti, li eleva per due anni al rango di Pico de Paperis macrosettoriali, in grado di pronunciarsi su un’impressionante quantità di ambiti di ricerca. Ma cosa succede all’atto pratico? In che modo può il commissario ASN far fronte alla varietà delle discipline, dei metodi e dei campi? Quali competenze è di fatto chiamato a esercitare?
È ragionevole pensare che le sue valutazioni derivino non tanto da ciò che sa e che non ha il tempo di imparare, ma da ciò che può inferire. In un quadrimestre, infatti, il commissario ASN di un macrosettore popoloso ha già il suo bel daffare: deve leggere migliaia di pagine in pdf, oltre a ottemperare ai suoi obblighi didattici e amministrativi. Per cavarsela, quindi, va probabilmente in cerca di segni: guarda alla consapevolezza metodologica, alla struttura argomentativa, all’uso delle note, alla cura editoriale. Con un’ottica che è per forza di cose orientata dalla sua storia personale, mette a fuoco la presentazione di un prodotto scientifico.
Ma riesce sempre a vedere al di là della retorica? Riesce a distinguere nei dettagli la fisionomia di un ambito di ricerca, sa come collocare uno studio in dibattiti lunghi e complessi, è in condizione di distinguere un contributo originale da una banalità ben confezionata? È in condizione di fare quel che la legge gli prescrive, cioè valutare “la qualità della produzione scientifica […] all’interno del panorama nazionale e internazionale della ricerca, sulla base dell’originalità, del rigore metodologico e del carattere innovativo”?
Può, per dirla in altro modo, entrare virtualmente in conversazioni di cui non conosce sviluppi pregressi, dati acquisiti e riferimenti interni? Non serve invocare Bruno Latour per convenire sul fatto che il sapere scientifico è un costrutto sociale, negoziato tra tanti attori, i cui margini sono circoscritti ma porosi (e che spesso degenera in mercato delle idee). Il lavoro del commissario ASN dovrebbe consistere, in linea di principio, anche nel determinare la bontà conclamata o potenziale di un lavoro scientifico per conto di una comunità: anzi, di un diversificato arcipelago di comunità, le cui priorità e i cui valori andrebbero tenuti in debito conto. Perché il valore da accordare a un prodotto scientifico non è come il risultato di un’analisi clinica, ma va negoziato con il campo in cui quel prodotto si inserisce, con la sua storia, le sue attese e (se si vuole valutare con accuratezza) le sue lacune.
Il “valore” di ciò che il commissario si trova a valutare è, del resto, già accertato da recensioni e lavori di studiosi altamente specializzati, da revisioni tra pari, sedi editoriali e dalla sua influenza su uno o più campi (che a volte, per giunta, coincidono solo in parte con il settore a cui quel lavoro è ascrivibile). Insomma: dall’opinione degli esperti, e di tutti coloro che abbiano trovato un dato lavoro significativo. O risiede, di contro, in una potenzialità di valore: nel tentativo di sfuggire a logiche ormai inflazionate, discernibile solo se si è pienamente consapevoli degli orizzonti d’attesa.
Si tratta di ricadute sociali per cui, in ambito umanistico, non esistono indicatori affidabili. E poiché ci sono molte cose in cielo e in terra, può anche darsi il caso in cui il commissario ASN attribuisca valore a studi appartenenti al suo ambito perché percepisce la rete di rapporti in cui sono inseriti, ma non a studi rilevanti – e forse anche di più – in altri ambiti, dei quali ignora storia, metodi e priorità o non condivide i presupposti ideologici, e con cui, dunque, non si sente in dovere di stabilire un dialogo. Può darsi il caso, insomma, che il commissario faccia l’errore di scambiare i suoi paradigmi per modelli universali. (Potrebbe, per esempio, ritenere poco originali i contributi che si occupano di questioni canoniche, non riconoscendo la novità delle loro prospettive).
Come uscire da questi paradossi? Forse attraverso un sistema che preveda commissioni più ampie e dotate di competenze omogenee. Un sistema in cui una commissione dovrebbe non monopolizzare il processo di valutazione, ma istruirlo e amministrarlo, istituendo una conversazione con la realtà dei campi di studio e i suoi attori attraverso un ricorso costante ai pareri pro-veritate. Ma l’abolizione dei macrosettori non sembra vicina – a dire il vero lo sembra di più l’abolizione dei settori. La ricerca di buone pratiche, però, può aver luogo comunque. L’uso dei pareri pro-veritate sembra, anche in questo caso, prezioso: ogni candidato dovrebbe essere degno della sua revisione tra pari, ossia tra studiosi dotati di competenze affini.
A questi problemi, poi, se ne intrecciano altri, riguardanti la comunità che orbita intorno all’ASN, i modi in cui questa comunità percepisce il fenomeno, e, inevitabilmente, la politica interna ai macrosettori, che dall’ASN è inevitabilmente condizionata. Vorrei inquadrarli con un lieve cambio di visuale, non tanto guardando all’operato dei commissari, ma ai sentimenti che l’ASN suscita tra chi aspira a conseguirla.
Tra le attitudini suscitate dalle varie fasi dell’ASN ce n’è una che definirei “tombolata con il destino”. Si aspetta ansiosamente il sorteggio di ogni nuova commissione per prendere le proprie decisioni. E non per capire se il commissario possa essere ben disposto perché appartiene alle stesse reti di un candidato – l’accademia italiana è senz’altro superiore a questo – ma per capire se il commissario possa sintonizzarsi con i campi disciplinari in cui i suoi lavori si collocano. (All’effetto tombolata si affianca poi, al momento in cui alla fine di ogni quadrimestre sono pubblicati i risultati sul web, un raptus collettivo di voyeurismo digital-burocratico: la trasparenza degli atti pubblici suscita negli studiosi italiani una curiosità divorante, che sfocia a volte in un brivido sublime, simile a quello dell’uomo medievale di fronte a un’ordalia).
In altri sistemi, che hanno un minore livello di centralizzazione, il processo non suscita altrettanto pathos. La Habilitation tedesca è gestita localmente. Ogni università può rilasciarla, e le sue regole sono chiare. Si consegue attraverso la scrittura di una tesi molto corposa che dimostra la costanza e il rigore di un candidato. È di fatto un gesto di accoglienza, che segna il pieno ingresso nella comunità accademica nazionale. L’abilitazione francese si articola in due sistemi diversi per gli aspiranti associati e ordinari. Quello che regola l’ingresso al ruolo di associato (la qualification a maître de conférences) consiste perlopiù in una presa d’atto, intesa a verificare la presenza di requisiti minimi: è necessario un minimo di tre pubblicazioni (in genere la tesi di dottorato e due articoli). L’abilitazione a ordinario (la habilitation à diriger des recherches) è gestita dai singoli atenei e richiede una relazione in cui il candidato illustra coerenza e continuità della propria carriera di ricercatore, soffermandosi anche sull’attività organizzativa. Nel primo caso, si tratta di un processo quasi notarile, nel secondo di un passaggio che è spesso il candidato stesso a sollecitare dopo un’accurata preparazione, e le cui regole sono chiarissime.
Quel che invece emerge dalla percezione comune dell’ASN è che, a differenza di altri sistemi simili, ha una marcata componente aleatoria, può generare disparità tra gruppi accademici, e non stabilisce “criteri minimi”, dando spesso ai candidati la sensazione di tentare la sorte. Non sono in grado di documentare questi aspetti, anche se scommetterei sugli esiti di un’indagine qualitativa, che si potrebbe basare su analisi e confronti dei risultati delle varie tornate e su pareri di esperti dei vari gruppi disciplinari coinvolti.
Come uscirne? Sicuramente con una revisione radicale della procedura, che nella scorsa legislatura sembrava essere nell’aria: era stato presentato un progetto di riforma che avrebbe dovuto fare dell’ASN un accertamento perlopiù quantitativo (un “controllo automatizzato” basato su “parole chiave e IA”: la cosa avrebbe aperto scenari di indubbio interesse). Ma in attesa di una riforma radicale del meccanismo, che non preveda più un’oligarchia randomizzata e allontani per sempre il ricordo dei rotten boroughs dell’Inghilterra d’inizio Ottocento (il cui sistema elettorale causava squilibri nella rappresentanza) c’è forse una sola via d’uscita: il senso comune.
E il senso comune si coltiva tutti insieme. Non è senz’altro il caso di citare una celebre ma sempre attuale frase di Giovenale – Quis custodiet ipsos custodes? Ci tengo anzi a ricordare che il lavoro spesso improbo dei commissari – da cui così tanto dipende – merita gratitudine. Ma credo sia necessario che i settori interessati, e in particolare tutti i settori umanistici, cerchino quanto più possibile di coltivare una coscienza di macrosettore, storicizzando il fenomeno dell’ASN, dandone un’interpretazione statistica, definendone i risvolti etici, e riflettendo, al tempo stesso, sulla propria identità e la propria storia. Se l’ASN non può essere riformata, che sia almeno studiata, e le sue contraddizioni (e iniquità) siano oggetto di una riflessione condivisa.
Analisi e raffronti statistici intrapresi dalle associazioni di settore o da consulte trasversali potrebbero portare alla luce fenomeni istruttivi per tutti. Potrebbero evidenziare fluttuazioni, tendenze che si avvicendano, punti di forte discontinuità, oltre ovviamente ai tassi di crescita o decrescita di discipline e indirizzi di ricerca. E a questo tipo di analisi si potrebbero affiancare considerazioni che muovono dalle declaratorie dei settori e dalla loro storia. Dossier sul processo di valutazione e i suoi requisiti epistemologici redatti dalle varie comunità coinvolte potrebbero contribuire a contenere la volatilità dei giudizi: ad ancorarli più saldamente alla realtà della ricerca e delle singole carriere.
Questo tipo di consapevolezza avrebbe anche altre ricadute. C’è infatti più di un rischio da scongiurare. Chi prenderà un giorno le redini del processo di valutazione dopo lo smantellamento dell’ASN potrebbe sentirsi come il principe Fortebraccio, che alla fine dell’Amleto ha davanti a sé un mucchio di cadaveri, e non capisce bene cosa sia successo e come quel che è successo sia potuto succedere.
E anche se non si è inclini al pessimismo e lo scenario di ecatombi shakespeariane appare remoto, c’è comunque il rischio che ci si ritrovi nel mezzo di zuffe lillipuziane. I problemi del grande impero di Lilliput erano, infatti, più d’uno. Non solo Lilliput era da tempo in conflitto con la nazione di Blefuscu, era anche scossa da lotte intestine, in particolare quella tra le fazioni dei Tramecksan e degli Slamecksan, che rendevano la vita di corte piena di insidie. Se Swift fosse tra noi oggi si divertirebbe forse a scrivere i viaggi di Gulliver nel paese di Diecièlluno, dove gli Ellelindièuci lottano contro gli Ellelindodèuci e si azzuffano anche tra loro, ed entrambi, però, tormentano la minoranza degli Ellelinundèici, che nel frattempo, senza che nessuno se ne accorgesse, si andavano estinguendo.
Mi sembra un’analisi del tutto condivisibile e che ,dal mio punto di vista di professore andato in pensione proprio quando iniziava a funzionare il sistema dell’abilitazione, è facilmente estendibile anche al campo delle cosiddette scienze esatte.
Condivido le lucide riflessioni di questo articolo e aggiungerei anche altre considerazioni.
Le numerose e diverse epistemologie del macrossettore di inglese stanno creando assiologie che se hanno un senso in un sottosettore, non lo hanno per altri. Ad esempio, il principio degli “articoli a firma unica”, potrebbe aver senso per epistemologie che studiano la letteratura come nel paradigma dell’idealismo crociano. Ma se poco poco ci muovessimo verso approcci sociologici in cui l’istanza della ricezione diventa prevalente, la firma unica diventerebbe concretamente impossibile per almeno tre motivi: 1) servono competenze anche sociologiche (e con la firma unica rinunciamo alla interdisciplinarità); 2) servono indagini articolate e laboriose che una persona non potrebbe facilmente condurre da sola (con la firma unica rinunciamo a lavori di ampiezza significativa); 3) servono prospettive diverse anche all’interno del medesimo gruppo di ricerca (con la firma unica rinunciamo a un vero confronto dialettico, in parole semplici, ce la cantiamo e suoniamo da soli/e).
Altra assiologia distorta: “si deve intravedere un interesse di ricerca unico”. Ma quanto poco realistica e poco creativa è questa aspettativa? Se, di nuovo, per epistemologie specifiche bisogna arrivare anche a poter commentare gli spazi tra le parole di Twain, per altre epistemologie potrebbe essere non utile raggiungere questa iper-specializzazione. Non potrebbere essere interessante confrontare l’eye-dialect di Twain con quello di una giovane autrice kenyota contemporanea o con quello di testi pubblicitari? Ma veramente vogliamo neo-studiosi e neo-studiose intrappolati/e nel tema unico?
L’articolo dice una cosa proprio falsa quando afferma:
“Ogni università partorisce i regolamenti dei suoi concorsi e sovrintende al loro corretto svolgimento; tuttavia, si può accedere a quei concorsi solo grazie a una piccola commissione dalla quale per due anni dipende il futuro di tutti i ricercatori […].”
Questa cosa è una falsità, in quanto per partecipare ad un concorso RTD-B (locale) NON è necessario affatto avere la ASN (nazionale).
Si può partecipare (e vincere!) il concorso da RTD-B anche senza la ASN, avendo un certo numero di anni di attività da post-doc. Ne ho sottomano diversi esempi peraltro, quindi so di cosa parlo.