di Luigi Weber
[È da poco uscito il romanzo di Luigi Weber, Navi nel deserto, Il ramo e la foglia edizioni. Ne pubblichiamo un estratto per gentile concessione dell’editore].
Spunta dal deserto come un miraggio, una fantasmagorica eruzione di vetri ormai opachi e metallo corroso, tutta circoscritta nel raggio di meno di un miglio; le torri dovevano essere molto alte, un tempo, ma ormai non si alzano più di qualche decina di metri dalla sabbia. In molti punti le vetrate sono andate in frantumi, anche a livello del terreno, e più volte mi è capitato di affacciarmi dentro quegli squarci: la ferita nel muro dava su abissi vertiginosi, e il poco di luce che riuscivo a non schermare con il corpo affacciandomi si precipitava giù dentro le viscere del palazzo in un tuffo da brividi, giocando con i mulinelli dorati che la rena smossa dalle mie mani faceva nel vuoto: antiche trombe di scale dai gradini sommersi, ma tanto profonde che secoli di vento e sabbia non erano bastate a colmarle, e ancora si spalancavano dinanzi ai miei occhi atterriti come vorticosi maelstrom, miniere d’oro dismesse, immani coclee d’acciaio impiantate nella terra da atavici mostri d’ere passate… se mai lavavetri assisi sul nulla, secoli prima, avessero gettato lo sguardo dentro quelle vetrate, loro pure pagati per lavorare così follemente in alto, avrebbero certo temuto, ma non avrebbero visto nulla di simile all’innaturale grotta che mi alitava in faccia il suo fiato caldo di antiche plastiche róse dal sale; sapeva come di cose morte, di tane d’animali estinti, scoperchiati avelli di barbarici antenati ignoti, e tutto il palazzo incombeva su me, inclinato dal dì del disastro eppure mai crollato, sorretto dalle sabbie, simile a una corazzata in un immobile affondamento.
Gli spazi tra la cima di una torre e l’altra si aprivano irregolari e dilatati, ben più ampi di quanto potessero richiedere semplici strade, seppur maestose. Molto probabilmente sotto i miei piedi erano nascosti i tetti di altri edifici, minori d’altezza e perciò affogati dalla inondazione di arene. Curiosamente, la vita aveva attecchito bene, su quel relitto incrostato che emergeva dal mare invece di giacervi al fondo, e in molti incroci, presso l’ombra fresca delle torri, sorgevano basse siepi spontanee forse di mirto, piccoli oleandri, rovi spinosi, euforbie, ciuffi di giusquiamo nero, alberi di fichi e drappelli di palme, nel consueto eppure urtante proliferare proprio delle carogne.
I luoghi deserti sono incantevoli, ma terrificanti. E io non sarei rimasto là, su quell’isola fortunosamente scampata alla distruzione, per ben cinque giorni, quanti poi in effetti ve ne trascorsi, se non avessi ricevuto un sorprendente asilo. Sì, perché mentre camminavo incredulo nelle sale a cielo aperto di quel museo in rovina, mi vidi venire incontro una donna, e la sorpresa di imbattermi in un altro essere umano, scoprii poi, era davvero ben poca cosa, rispetto a quel che mi attendeva. Non muoveva verso di me, muoveva solo nella mia direzione, lo notai subito osservando la traiettoria del suo sguardo: era come se fissasse qualcosa attraverso me. Poi si fece più vicina, mentre io immobile la osservavo, e allora compresi la natura di quell’inquietante disinteresse per la mia persona.
Era cieca.
Ma camminava con grande sicurezza, sì che da lontano non lo si sarebbe assolutamente detto. Una donna molto alta, sottile ma non smunta, anzi dalla sagoma elegante, la pelle scurita come bronzo dal sole, e i capelli, invece, schiariti fino a confondersi con la sabbia, seppure più scintillanti, una veste di tela senza colore lunga fino quasi alle caviglie, larga e fluttuante, ad avvolgerla; poteva avere trent’anni come quaranta, da dove mi trovavo era impossibile dirlo. Del suo corpo vedevo soltanto il viso e il collo, lasciato in parte scoperto dal bordo arrotondato della stoffa, le mani e i piedi, e indovinavo una linea morbida sotto alle vesti.
Non dovetti comunque attendere per manifestarmi, anzi, fui sorpreso di quanto vastamente i suoi sensi si estendessero come una rete nell’aria. Senza fermarsi né rallentare, né dar segni di turbamento per quello che comunque non doveva certo essere un avvenimento frequente, respirando vigorosa dal naso come un cane, parlò alla tenebra dinanzi a sé, inequivocabilmente olezzante di uomo.
: – Chi siete? –
: – Perdonate se vi ho spaventata – dissi, ben sapendo di non averlo fatto – Sono un fuggitivo, privo d’armi e di cattive intenzioni, giunto qui per puro caso, alla ricerca di nient’altro che qualche altro giorno di vita. –
: – Perché inseguire la vita così ostinatamente, se ella non vi vuole più? –
: – Perché sono convinto di poterla riconquistare, signora, se soltanto riuscissi a uscire da questa landa senza speranza. –
: – Avete ragione, non è luogo adatto ai vivi, questo. Ma se è solo di cibo e di riposo, che avete bisogno, e di qualche tempo per recuperare le forze, posso concederveli. –
: – Se non è un luogo per i vivi, voi chi siete, signora, forse uno spettro? –
: – Un ospite non dovrebbe fare troppe domande. –
: – Avete ragione e ve ne chiedo scusa, tanto più dopo la vostra generosa offerta di ospitalità. –
: – Seguitemi, devo compiere un negozio, poi vi condurrò alla mia casa. Dopo tanto peregrinare, non vi dispiacerà, credo, fare qualche metro in più. –
: – Niente affatto, signora. –
Solo allora m’accorsi che parlando era venuta avanti, e distava da me ormai non più di pochi passi, distanza che però non coprì, compiendo una piccola deviazione per evitarmi, o meglio per evitare la zona dalla quale proveniva la mia voce, e proseguendo poi nella direzione originaria, con me silenziosamente al seguito. Percorsi dunque a ritroso quell’immenso canyon di metallo dopo nemmeno tre minuti con pensieri del tutto cangiati, concentrato adesso sulla diafana figura dinanzi a me e dimentico dei popoli e delle civiltà sepolte le cui vestigia m’avevano tanto turbato. La donna non parlava, procedeva sicura come seguendo una pista nascosta, e pareva già essersi dimenticata di me, quasi avesse potuto per un istante vedermi benissimo, e valutare che non meritavo ulteriori attenzioni. Io però la pensavo esattamente al contrario su di lei, e non riuscii a tenere le briglie alla mia curiosità per molto.
: – Voi abitate qui, signora? –
: – Posso fermarmi solo dove non v’è traccia d’uomo. Se dimoro tra queste rovine, è perché gli antichi abitatori di esse non hanno più forza per insorgere dalla terra, mossi a sdegno contro di me. In nessun altrove ciò mi sarebbe dato. –
: – Che mai potete aver fatto per essere tanto esecrabile?! –
: – Niente ch’io ritenga una colpa. –
: – E da quanto tempo siete sola, qui? –
: – Sola?! Chi vi ha detto che sono sola? Mio marito è con me. Mio marito, causa del mio esilio e fonte d’ogni mia gioia. Non sono affatto sola. Il mondo, sapete, non poteva immaginare che, mettendo sé stesso su un piatto della bilancia e il mio uomo sull’altra, io avrei scelto senza esitazione quest’ultimo. Il mondo non conosce il vero amore, conosce solo rinunce e facili scelte. Non ho alcun rimpianto. –
: – Signora, perdonate ma non vi seguo: perché mai vostro marito sarebbe causa di tutto? –
La donna non rispose. In quell’istante, col solo atto di arrestarsi, mi comunicò di essere giunta alla sua meta, meta che si riduceva, almeno secondo quanto mi era dato di vedere, a un piccolo pozzetto dai bordi fangosi circondato di pochi stentati ulivi, niente più di una buca grigiastra nella sabbia, a lato della quale si alzava una rudimentale struttura in legno da cui penzolava immobile un secchio metallico, deformato dagli anni come un vecchio artritico. Non mi offrii di aiutarla, ed ella mi dimostrò lestamente di non averne bisogno. Calò il secchio nella buca a una profondità che mai mi sarei aspettato dal ristretto diametro del pozzo, e lo risollevò pieno di un’acqua miracolosamente limpida, come non ne avevo mai vista nelle Oasi. Poi, sempre in silenzio – ogni volta che noi cessavamo di parlare, quella donna riusciva in un baleno a convincermi di essersi dimenticata della mia presenza – riprese la strada da cui eravamo giunti.
Tornammo indietro senza motti ulteriori, io pensoso a meditare i troppi enigmi uditi in troppo poche parole, depositati al fondo come zucchero in un bicchiere semivuoto, la donna con il suo passo elegante e uniforme davanti, quasi il secchio pieno non avesse peso. Al termine del lungo viale, se così era lecito ancora nominarlo, cedetti di nuovo alla mia curiosità, provando ad aggirare l’ostacolo.
: – Io di colpe invece sono carico – dissi – Fuggo in questo deserto proprio per espiarle. –
: – Non avrei comunque nulla da temere, da voi. Né da voi né da nessun altro. –
: – È una difesa così sicura, dunque, vostro marito? –
: – Nessuno sarebbe tanto folle da toccarmi. –
Una commistione inspiegabile, inestricabile, di fierezza sconfinante nell’arroganza, e infinita pietà per sé stessa, anche questa eccedente in altro, forse disgusto. E nelle sue parole, una coesistenza paradossale tra oscurità da oracolo e confessione. Proprio non riuscivo a capire. La seguii fino ai piedi di un palazzo, uno dei più bassi tra quelli visibili, emergente solo di un piano o due dalla sabbia, talmente concentrato a studiare la figura di lei, l’ondeggiare dei capelli sulla schiena, il moto morbido delle braccia fasciate fino al polso dalla veste, la comparsa fuggevole dei calzari; di nuovo, fu il suo sostare ad avvertirmi d’essere arrivato. Alzai gli occhi, e rimasi a bocca spalancata. Sulla sommità del palazzo, come una infiorescenza naturale generatasi nei secoli dalla pietra e dal metallo, sbocciava una grande capanna di tronchi, circondata da tutti i lati da un vasto pergolato di stuoie coperto da foglie di palma. Vicino a noi, così vicino che non potei pensare neppure per un momento si trattasse di un caso, ma anzi compresi subito come fosse stato il soprannaturale senso d’orientamento della misteriosa donna a portarci lì, un ondeggiante ponticello di corda, rinforzato ai lati da un esile parapetto di legno elastico, con montanti a non meno di due metri l’uno dall’altro, saliva fino al primo piano visibile dell’edificio, sul fianco del quale, distrutto un finestrone, campeggiava l’entrata della curiosa dimora.
: – Avanti. Io vivo qui. – disse.
: – L’avete costruito voi, questo posto? –
La donna rise, stupefacendomi: – No, diamine, certo che no! Come avrei potuto? Furono i miei servi a farlo, quando giungemmo qui, due anni fa. Nel loro ingenuo attaccamento a me, mi accompagnarono in esilio, e prima di abbandonarmi vollero erigere per me e per mio marito una vera casa, realizzarono perfino quel pozzetto che avete veduto! Seguitemi, saliamo. –
Agitato da una crescente inquietudine, per quel continuo frammischiare il detto al non detto, per quel suo modo misterioso di narrare i fatti come slogandoli, senza mai fare menzione delle cause, quasi io dovessi già conoscerle, la seguii sul ponte tremolante, fino al pianale ligneo costruito davanti alla rudimentale apertura nella facciata. Entrati, ci trovammo sul pianerottolo di una scalinata che, come le altre viste in precedenza, sprofondava verso gl’inferi in una miriade di rigide giravolte, svanendo nell’oscurità molto prima, ero convinto, di giungere realmente all’ultimo dei suoi gradini, ma per fortuna noi salimmo, e una rampa e mezzo bastarono a portarci in superficie, su quello che un tempo doveva essere stato un tetto dalla veduta sconfinata.