di Maria Borio
[È da poco uscita per Le Lettere l’antologia Per tutte noi. La parola poetica delle donne, con prefazione di Maria Borio, che raccoglie poesie di Eavan Boland, Karin Boye, Diane Di Prima, Paola Silvia Dolci, Roberta Durante, Carol Ann Duffy, Margherita Guidacci, Ewa Lipska, Audrea Lorde, Anne Sexton. Pubblichiamo parti della prefazione e una scelta di testi.]
La lingua italiana ha un suffisso particolare per i ruoli femminili di prestigio? Quando diciamo “poetessa” portiamo con noi non solo l’idea tradizionale dell’essere autrice, ma anche quella di una figura elettiva? Lunare, appartata, mistica, ella dispensa qualcosa di rilevante, che tuttavia non ha a che fare con la gestione effettiva del potere né con un’ideologia. A questa immagine corrispondono i ritratti di Margherita Guidacci e Antonia Pozzi in La giovane poesia di Enrico Falqui, prima antologia della poesia italiana del secolo scorso, pubblicata nel 1956, che a fianco di diversi autori include anche le due autrici[1]. Poesia italiana del Novecento di Edoardo Sanguineti non considera nemmeno un nome femminile ed esce paradossalmente nel 1969[2] in concomitanza con la rivoluzione del Sessantotto che in Italia garantisce l’apertura alla legalizzazione del divorzio oltre a innumerevoli conquiste culturali per le donne. Nel 1978 Poeti italiani del Novecento di Pier Vincenzo Mengaldo propone soltanto un’autrice: Amelia Rosselli[3].
Diceva Cristina Annino: «la poesia ha la necessità di affermare non “valori-codice” ma “valori-bisogno”»[4]. La parola poetica delle donne non è mai appartenuta a sistemi di pensiero codificati, ma li ha ripensati attraverso altri valori espressivi. Essa ha attraversato una ridefinizione intellettuale e antropologica trasferendo il prestigio da una sfera intima a una pubblica. Infatti, la scrittura femminile del Novecento ha prima insistito sulle specificità di un soggetto che per la sua voce biologica doveva rivendicare la diversità rispetto al polo maschile, come afferma Julia Kristeva in La rivoluzione del linguaggio poetico[5].. Ogni discorso letterario sul corpo, sulla sessualità, sul parto o su un io per secoli considerato in minore, generava una certa connotazione sociale e politica. Tutto questo era inevitabile, secondo Dacia Maraini; inevitabile, con il Sessantotto, che la poesia femminile non diventasse anche femminista[6].
Dopo quello che può essere considerato il capostipite delle antologie che in Italia hanno rivoluzionato la percezione critica della scrittura femminile, Donne in poesia di Biancamaria Frabotta (1976), dove il soggetto-donna viene svincolato da una claustrofobica connotazione sessuale per affermare il suo reale ruolo storico[7] , oggi una nuova proposta antologica ha a che fare con due problemi. Può esistere un “neutro” in letteratura che corrisponde all’identità universale di “poeta”, con una dimensione e un ruolo diversi per la specificità biologica? In secondo luogo: dopo gli anni in cui la scrittura delle donne si dichiarava soprattutto femminista, il rapporto con il potere e l’immaginario letterario hanno raggiunto un sano equilibrio tra le opere di autrici e di autori? Alla prima domanda mi sentirei di rispondere che – nonostante dal punto di vista dell’autorialità sia legittimo trascendere la differenza tra donna e uomo in una più ampia idea di “persona” – la forza di un’opera è anche legata all’essere fedeli alla propria natura. Da quest’ultima si può imparare molto e la natura femminile è un osservatorio ricco, tanto più perché si è svincolata – almeno in un contesto occidentale medio – dalle ataviche gabbie patriarcali che ancora facevano dire ad Adorno e Horkheimer nella Dialettica dell’illuminismo: «la donna come preteso essere naturale è il prodotto della storia che la snatura»[8], dunque la natura condiziona l’essere femminile e lo penalizza. Nel genere umano la sostanza femminile si compenetra con quella maschile. E chi scrive è sempre alimentato anche da una propria sostanza genetica. Tuttavia, se proviamo a riflettere sui rapporti tra la scrittura delle donne e il potere, possiamo dire che i piatti della bilancia siano equi? Ogni autore ha il mantello di una tradizione millenaria sotto cui può ripararsi, un bagaglio di letteratura sul quale anche ogni autrice si è formata. Un’autrice può dire di avere delle maestre solo pensando a tempi relativamente recenti, ma se scava indietro nei secoli le è dato di amare personaggi femminili, non scrittrici. Ogni donna coltiva silenziosamente un lunghissimo passato, attraversa il presente come una cometa che brucia nell’atmosfera e si proietta al futuro. Il tempo della parola poetica delle donne è un laccio di fionda.
Tuttavia, più che farsi influenzare dal peso della natura e dell’identità biografica, si dovrebbe parlare del carattere di una poetica. Il carattere può prescindere in larga parte dal genere ed è un modo di guardare il mondo: affettivo/cerebrale, empatico/ideologico, compassionevole/assertivo. La parola delle donne – come testimonia quest’antologia allestita da Le Lettere – ha aiutato ad aprire lo sguardo a trecentosessanta gradi sull’espressività umana. Questa parola ha affrancato la poesia dai limiti di genere, ma anche dalle formule strette di categoria, e ha fatto emergere il fatto che ciò che conta di un’opera si trova soprattutto nelle poetiche. Entriamo così nel cuore della letteratura e la vera letteratura trascende la biografia. Per questo, ad esempio, può capitare che sulla pagina possa esserci la penna di una donna dietro una sensibilità cerebrale e assertiva, convenzionalmente associata al maschile, così come dietro un carattere tenero e intimo, che in passato di solito era identificato con il femminile, potrebbe esserci la penna di un uomo. Nella letteratura di oggi i caratteri convenzionali sono sfumati, ma il problema dell’identità e del rapporto tra identità e storia sono esposti come qualcosa di autentico.
La parola poetica delle donne ci ha abituato a metterci di fronte all’autenticità, sempre radicata nella storia. In questa antologia la costellazione di autrici segue soprattutto una traiettoria storiografica, in cui le voci femminili compiono un’incisione e segnano il tempo irreversibilmente. Ciascuna traccia una differenza, una linea di demarcazione tra quello che nella letteratura precedente non era concesso né intuibile e quello che viene normalizzato aprendo la via a nuove intuizioni. Ciascuna assomiglia a una chiave di volta o, come dice l’irlandese Eavan Boland (1944-2020), a una leva del «cambiamento, della metamorfosi» (Le donne, v. 10). In The Historians Boland paragona la donna che scrive a un’archivista che esamina i fatti impedendo «alla parola di curare ciò che non va curato» (Le storiche, v. 19) e assegna una posizione incontrovertibile al proprio gesto.
[…]
La parola poetica delle donne ha, dunque, ribaltato lo stereotipo di femminilità lunare, distante dal saper discutere di questioni sociali e civili e di fronteggiare consapevolmente argomenti che sui tavoli del potere sono stati a lungo appannaggio esclusivo di uomini? Oppure si può ipotizzare che quello stereotipo vada riletto? Esso esprime una coscienza accorta, che ha affrontato le faccende di potere da un’angolatura diversa, con un linguaggio che, estraneo ai codici della comunicazione pubblica, non poteva essere condiviso? Nel 1976 esce Taccuino slavo di Margherita Guidacci (1921-1992), in cui una prima persona lirica, attraverso varie allegorie, afferma: «reclamo l’uguaglianza» (Protesta alla frontiera, v. 8). La prima persona coincide con l’identità biografica dell’autrice, ma sfuma la sua condizione storica di intellettuale e donna in un repertorio figurale che richiama la rappresentazione femminile della tradizione letteraria, ma anche una saggezza ricettiva rispetto a tale tradizione. […] La sua poetica esprime l’elaborazione letteraria di una specie di corrente interna a una tradizione secolare. Come una resistenza riflessiva e interiorizzata, questa corrente si è allineata a quella maggiore, e adesso può far vedere due sguardi che si intrecciano […] secondo la prospettiva di una “persona” letteraria matura che restituisce uno sguardo completo sul mondo?
Amelia Rosselli, in Donne in poesia, afferma che il linguaggio femminile deve essere considerato in un orizzonte di lunga durata ed è riduttivo enfatizzarlo solo per la sua «tipicità biologica e psichica»[9]. La tipicità non farebbe altro che rimarcare un margine, mentre il senso di questo linguaggio è ripensare i confini. Paola Silvia Dolci e Roberta Durante, le autrici italiane più giovani qui antologizzate, testimoniano la normalizzazione di quello che la Guidacci aveva espresso. Con le prose poetiche della prima e la brevitas a ritmi drammaturgici della seconda, entriamo in un immaginario dove si riposiziona la figura che mezzo secolo prima poteva essere ancora definita riduttivamente “poetessa italiana” – come fanno Giovanni Scheiwiller in Poetesse del Novecento (1951) e Gaetano Salveti in Poesia femminile italiana (1964)[10]. Le autrici più giovani si collocano in repertori internazionali (d’altra parte, la stessa Guidacci era una traduttrice) e considerano la tipicità biologica e psichica non come qualcosa di distintivo e oppositivo, bensì parte della natura di specie umana. Questo approccio induce a rivedere il canone novecentesco e le sue lacune dovute all’incapacità di percepire quella corrente interna che per secoli ha percorso sottotraccia le abitudini della comunicazione e della ricezione. Il prestigio, d’altra parte, si lega anche all’abitudine: può essere a essa assuefatto oppure può affermarsi perché la aggredisce. Spesso la parola poetica delle donne è stata associata a una volontà drastica di infrangere i costumi, a una rivoluzione aperta. È innegabile che ciò sia avvenuto attraverso gesti che hanno portato affermazioni esplicite – letterarie, politiche e sociali – come abbiamo visto in Lorde o di Prima. Ma esiste anche una costanza affermativa implicita, che ha agito in modo sotterraneamente paritario rispetto ai colleghi sulla pubblica arena. Quando leggiamo la svedese Karin Boye (1900-1941) entriamo in una scrittura che va «in fondo alle cose» (In fondo alle cose, v. 5) e affronta interrogativi esistenziali connessi a una sfera metafisica. Di fronte a una poesia più speculativa di quelle prima discusse, si riconosce immediatamente un valore di lunga durata, che non contempla il limite della tipicità femminile e delle sue legittime rivendicazioni. La poesia di Boye, come quella di Emily Dickinson o Anna Achmatova, trasfigura l’idea di abitudine rispetto a un linguaggio letterario: l’“abitudine” espressiva (fissata nei codici della comunicazione) diventa un “ambiente” espressivo. L’ambiente rende possibile una testualità che lega lo stile al pensiero, il campo individuale, esistenziale e storico della persona – o dell’autore/autrice – a quello globale dell’esistenza. E Anne Sexton (1928-1974), idolo di una generazione modernista che portò la poesia americana a una ricca stagione di scrittura confessionale, entra nel corpo e nella psiche della donna come in un ambiente plastico: ogni identità – di luogo, materia, classe sociale e di sesso – è sottoposta a una verifica, quantomeno a un ascolto per osservarne l’autenticità. Nella cura per i quadri di vita vissuta, in cui si intrecciano relazioni a volte ambigue (Al mio amante che torna da sua moglie) e a volte felici, ogni stato è scoperto, quasi vivisezionato, in modo tragico oppure ironico, e in questo senso anche la biografia messa a nudo ha un valore politico. L’esistere di cui parla Sexton raggiunge una pienezza, persino negli accenti visionari, nelle contraddizioni fra le cose concrete e quelle sognate (Signor Tuttomio), in quanto potrebbe apparire follemente irreale. La parola poetica delle donne, con il suo percorso accidentato di incomprensioni e lotte, ha portato alla presa di coscienza di una sfida: guardare l’ambiente umano nella sua esposta e incondizionata integralità, per un rinnovamento del letterario. Ogni volta che pronunciamo la parola “poetessa” dovremmo ricordarcene.
[Nota dell’editore: Questa raccolta di poesia non rientra nel canone dell’antologia, non è stato stabilito nessun criterio di valore che possa aver preferito alcune autrici ad altre né abbiamo voluto pubblicare questa selezione poggiandoci su canoni di merito storico critici o temporali. Per tutte noi è una selezione di catalogo, una scelta di campo nel riproporre alcune voci che abbiamo pubblicato negli ultimi anni. Estremamente differenti tra di loro e al contempo accomunate da un desiderio di lotta verso la piena aderenza di sé, ciascuna declinata in un moto unico e indipendente.]
***
Eavan Boland
Le storiche
Di’ la parola storia: vedo
tua madre, e la mia.
La luce sobria, l’estate finita da un pezzo,
un vento da est culla le foglie, la pioggia s’agita negli scoli.
Hanno le mani piene di parole.
Una di loro tiene il diario di tuo padre con l’appunto
scritto il giorno della tua nascita.
L’altra ha i miei scarabocchi in rima, le mie ferventi lettere.
Prima che la poesia finisca
avranno bruciato tutto.
Ora ripeti la parola. Evoca
la nostra isola: una storia che si doveva raccontare –
i patrioti che sanguinavano ancora nelle litografie
quando siamo nati. Chi ha scritto quel racconto
ha faticato per farlo suo.
Ma queste donne le abbiamo amate.
Archiviste con un compito diverso.
Impedire al ricordo di diventare storia.
Impedire alle parole di curare ciò che non va curato.
Fa freddo. La luce se ne va.
Ora s’inginocchiano dietro le loro serre,
sotto uno qualunque dei loro alberi.
Le foglie cadono lente.
Entrambe mettono un fiammifero sulla carta. Poi
avvicinano le mani alla fiamma.
Sentono il primo morso del vento.
Decorano le pagine col fuoco. Io smetto di scrivere.
[trad. it. di Giorgia Sensi e Andrea Sirotti]
*
Karin Boye
Certo che fa male
Certo che fa male
Certo che fa male, quando i boccioli si rompono.
Perché dovrebbe altrimenti esitare la primavera?
Perché tutta la nostra bruciante nostalgia
dovrebbe rimanere avvinta nel pallore gelato e amaro?
L’involucro fu il bocciolo, tutto l’inverno.
Cosa c’è di nuovo che consuma e dirompe?
Certo che fa male, quando i boccioli si rompono,
male a ciò che cresce
_____________________e a ciò che racchiude.
Certo che è difficile quando le gocce cadono.
Tremando d’inquietudine, pesanti, stanno sospese,
si aggrappano al ramoscello, si gonfiano, scivolano –
il peso le trascina giù, come provano ad arrampicarsi.
Difficile essere incerti, timorosi e divisi,
difficile sentire il profondo che attrae e chiama,
eppure rimanere ancora e tremare soltanto –
difficile voler stare
____________________e voler cadere.
Allora, quando infine più niente aiuta
si rompono come esultando i boccioli dell’albero,
allora, quando non le trattiene più alcun timore,
cadono scintillando le gocce del ramoscello,
dimenticano che furono impaurite dal nuovo,
dimenticano che furono in apprensione per il viaggio –
conoscono per un secondo la più grande serenità,
riposano in quella fiducia
_____________________che crea il mondo.
[trad. it. di Daniela Marcheschi]
*
Paola Silvia Dolci
Ho mille anni.
Un futuro possibile. In cui io il bambino e il suo papà facciamo il bagno in mare. La merenda con pane burro e marmellata. In cui ci si addormenta in un lettone tutti e tre abbracciati. Qualcosa di nuovo in cui cambia il mio ruolo. In cui non sono più un peso doloroso che deve affannarsi per non trovare amore.
Non sei figlia. Non sarai mai più figlia. Non sarai mai stata figlia.
*
Roberta Durante
Che cosa fai Susanna
con le manine di cotone arrotolate
con le ginocchia morbide la pelle delle bambole?
Che cosa vuoi da me adesso che ti svegli?
Il mare? Bestie da cavalcare? Canzoni stupide?
Gelato? Che cosa vuoi da me che indosso solo sandali
e intreccio i tuoi codini mentre dormi?
Resta con me nel letto di latte
facciamo più spazio a ciò che non c’è fuori
ai fiori fermi immobili senza rumori
dormi Susanna dormi ancora
li tengo io i tuoi piedi in mano
come un baccello pieno di strade
*
Audre Lorde
Litania per la sopravvivenza
Per quelle di noi che vivono sul margine
ritte sull’orlo costante della decisione
cruciali e sole
per quelle di noi che non possono lasciarsi andare
ai sogni passeggeri della scelta
che amano sulle soglie mentre vanno e vengono
nelle ore fra un’alba e l’altra
guardando dentro e fuori
e prima e poi allo stesso tempo
cercando un adesso che dia vita
a futuri
come pane nelle bocche dei nostri figli
perché i loro sogni non riflettano
la fine dei nostri;
Per quelle di noi
che sono state marchiate dalla paura
come una ruga leggera al centro delle nostre fronti
imparando ad aver paura con il latte di nostra madre
perché con questa arma
questa illusione di poter essere al sicuro
quelli dai piedi pesanti speravano di zittirci
Per tutte noi
questo istante e questo trionfo
Non era previsto che noi sopravvivessimo.
E quando il sole sorge abbiamo paura
che forse non resterà
quando il sole tramonta abbiamo paura
che forse non sorgerà domattina
quando abbiamo la pancia piena abbiamo paura
dell’indigestione
quando abbiamo la pancia vuota abbiamo paura
di non poter mai più mangiare
quando siamo amate abbiamo paura
che l’amore svanirà
quando siamo sole abbiamo paura
che l’amore non tornerà
e quando parliamo abbiamo paura
che le nostre parole non verranno udite
o ben accolte
ma quando stiamo zitte
anche allora abbiamo paura.
Perciò è meglio parlare
ricordando
che non era previsto che sopravvivessimo.
[trad. it. a cura di Wit-Women in Translation]
*
Anne Sexton
Signor Tuttomio
Osservate come mi ha numerato le vene blu
sul seno. Ci sono anche dieci efelidi.
Ora va a sinistra. Ora va a destra.
Sta costruendo una città, una città di carne.
È un appaltatore. Ha fatto la fame negli scantinati
e, signore e signori, fu distrutto dal ferro,
dal sangue, dal metallo, dal ferro
trionfante della morte di sua madre. Ma ricomincia.
Ora costruisce me. È ossessionato dalla città.
Dalla gloria delle assi mi ha costrutto.
Dalla meraviglia del cemento mi ha plasmato.
Di seicento cartelli stradali mi ha dotato.
Stavo ballando, ha costruito un museo.
Una mossa a letto, ha costruito dieci isolati.
L’ho lasciato, ha costruito un cavalcavia.
Gli ho regalato fiori, ha costruito un aereoporto.
Per semafori ha distribuito leccalecca rossi e verdi.
Eppure in cuor mio io sono un RALLENTARE, BAMBINI.
[trad. it. di Rosaria Lo Russo]
Note
[1] Enrico Falqui, La giovane poesia. Saggio e repertorio, Colombo, Roma 1956.
[2] Edoardo Sanguineti (a cura di), Poesia italiana del Novecento, 2 voll., Einaudi, Torino 1969
[3] Pier Vincenzo Mengaldo (a cura di),
[4] Cristina Annino, Il mestiere di poeta, in Il movimento della poesia italiana negli anni Settanta, a cura di Tommaso Kemeny – Cesare Viviani, Dedalo libri, Bari 1979, p. 61.
[5] Julia Kristeva, La rivoluzione del linguaggio poetico, trad. it. di Silvana Eccher dall’Eco – Angela Musso – Giuliana Sangalli, Marsilio, Venezia 1979.
[6] Dacia Maraini, Donne mie, Einaudi, Torino 1974.
[7] Biancamaria Frabotta (a cura di), Donne in poesia. Antologia della poesia femminile in Italia dal dopoguerra a oggi, Savelli, Roma 1976.
[8] Max Horkheimer-Theodor W. Adorno, Dialettica dell’illuminismo, trad. it. di Renato Solmi, introduzione di Carlo Galli, Einaudi, Torino 1975, p. 121.
[9] Amelia Rosselli, in Donne in poesia, cit., p. 150.
[10] Giovanni Scheiwiller, Poetesse italiane del Novecento, Scheiwiller, Milano 1951; Gaetano Salveti, Poesia femminile italiana, Edizioni del Sestante, Padova 1964.
[Immagine: Cig Harvey, Clouds in the Lake © Cig Harvey].