di Léna Balaud

Introduzione e traduzione a cura di Sara Marano

 

Ecologie della trasformazione, rubrica a cura di  
  
Emanuele Leonardi e Giulia Arrighetti

Il testo che proponiamo qui offre uno spaccato interessante sul dibattito interno all’ecologia politica francese, che presenta dei caratteri molto avanzati ed è spesso il frutto, come in questo caso, di intrecci curiosi quanto fecondi di tradizioni militanti e intellettuali. Lena Balaud, agronoma e membro del comitato di redazione della rivista Terrestre, è autrice, insieme ad Antoine Chapot, di Nous ne sommes pas seuls (Non siamo soli), un libro importante in seno a questo dibattito. Balaud e Chapot immaginano la politica nell’Antropocene come fondata su delle “alleanze terrestri”, nell’orizzone politico di un “comunismo interspecifico”. In questo articolo, l’autrice mette alla prova della crisi ecologica contemporanea l’armamentario del metodo operaista, compiendo un tentativo molto interessante di esplicitare la base materialista anticapitalista della sua proposta di “alleanze interspecifiche”. Il risultato è un testo evocativo e originale, in cui le prospettive della filosofia dell’ambiente e dell’ecologia politica contempranea, in particolare Latour e Moore, dialogano con l’operaismo italiano.

 

Vorrei partire da una sensazione: quella di una destabilizzazione politica crescente di fronte al nostro presente catastrofico. Tale destabilizzazione non è dovuta alla mancanza di radici. Al contrario, traggo qui spunto dall’apprendimento continuo di un metodo politico, ereditato dal movimento operaista degli anni Sessanta in Italia, dal movimento autonomo degli anni Settanta e da tutti coloro che hanno cercato di trarne le conseguenze e di inventarne il seguito, fino a oggi. Si puo’ definire questo metodo politico a partire dalle sue pratiche fondamentali: analizzare il sistema capitalistico da un punto di vista parziale; fare inchiesta sulle nuove composizioni di classe che caratterizzano lo ‘sviluppo’ capitalistico per individuarne il potenziale politico; seguire le rivolte spontanee e dare fiducia alle strategie che portano con sé. Ma questo metodo, pur essendosi dimostrato corretto in molte occasioni, ha difficoltà a trovare la stessa efficacia nel presente del capitalismo antropocenico.

 

Guardiamo in faccia la realtà: i Gilets Gialli[1] non si sono appropriati delle parole e dei gesti che hanno segnato le lotte vittoriose del secolo scorso; Marx è poco letto tra i giovani, anche tra i movimenti per il clima, che tuttavia sono portatori di un anticapitalismo abbastanza spontaneo; sembra più concepibile, per molti, impegnarsi in un progetto agricolo collettivo che in un’organizzazione politica. C’è una sorta di scollamento tra le analisi e i metodi marxisti, che si sono dimostrati validi in passato, e il presente vissuto dalla maggior parte dei soggetti e delle vittime del carbo-capitalismo.

 

Una delle possibili motivazioni di questo fenomeno risiede forse nel fatto che le ingiustizie sociali sono e saranno sempre più riscontrabili a livello ecologico. Dal clordecone[2] alle isole di calore urbano[3] nei quartieri popolari, dalle ripetute siccità che fanno avanzare il deserto in Medio Oriente ai frequenti mega-uragani che devastano le Antille, le ingiustizie sociali presenti e future non si manifesteranno solo a livello economico e simbolico, ma soprattutto nella dimensione vivente delle nostre esistenze, inserite in una rete della vita[4] sempre più degradata e tossica.

Il mio tentativo consiste nel chiedersi se, ponendo al centro delle nostre analisi la dimensione ecologica degli assetti di potere, sia possibile rinnovare profondamente il nostro modo di ereditare Marx – e anche, come vedremo alla fine del testo, i nostri modi di concepire e praticare l’azione politica – al fine di riscoprire un nuovo potere di agire per trasformare il mondo esistente.

 

L’ecologia  del capitalismo

 

Le condizioni ecologiche di abitabilità dei nostri spazi di vita sono – e lo saranno sempre più – distribuite in modo diseguale. Ma dobbiamo andare oltre per comprendere la singolarità del nostro presente, non limitarci solo alle questioni di distribuzione e di giustizia ambientale. Per esempio, se i rapporti sociali di classe aiutano a spiegare le disuguaglianze di fronte al Covid (disuguaglianze nell’accesso a cibo di qualità, a cure mediche sufficienti, a condizioni abitative sopportabili durante il lockdown, ecc.), questi non sono però sufficienti a cogliere le probabili cause dell’insorgere della pandemia. Se è vero che le diverse catastrofi previste per il prossimo futuro non si abbatteranno sull’umanità nel suo complesso in modo omogeneo, ma accentueranno le disuguaglianze sociali, tuttavia è anche importante comprendere gli assetti ecologici e di potere che creano le condizioni propizie al loro verificarsi. Bisogna dunque prestare attenzione a ciò che è rimasto a lungo fuori dal radar delle analisi dell’economia capitalista: il modo in cui essa è incorporata nella tela della vita – ciò che Jason Moore chiama l’ecologia del capitalismo[5]. Con ciò si intende l’insieme delle disposizioni ecologiche necessarie, ben oltre la sfera dell’economia e dei rapporti umani di produzione, per rendere possibile questo sfruttamento. Queste interdipendenze non costituiscono solo un contesto favorevole per l’economia capitalistica, ma sono assolutamente indispensabili ad essa. Qui, infatti, si nasconde un’enorme ‘messa al lavoro’ della natura, partecipazione (negata e nascosta) dei viventi e degli elementi naturali al progetto di valorizzazione del capitale, a opera di investitori di ogni tipo.

 

Per esempio, l’organizzazione industriale dell’allevamento si basa non solo sulla capacità degli animali di aumentare il loro peso o di produrre latte, ma anche di sviluppare tra loro delle relazioni sociali che calmano la mandria. Tale complesso industriale dipende poi, ‘a monte’, dalla capacità della soia OGM, che costituisce il mangime per il bestiame, di resistere a condizioni di cosiddetta ‘biosicurezza’ vegetale e fungina estrema; ‘a valle’, fa affidalento invece alla capacità dei terreni e delle piante delle zone umide di digerire l’azoto e il fosforo degli effluvi zootecnici in eccesso.

L’ecologia del capitalismo è quindi molto più ampia della sfera dell’economia in quanto tale: è composta da esseri non umani messi al lavoro in modo gratuito e invisibile e, più in generale, da tutte le ‘nature del capitale’, tutte le disposizioni di spazio, tempo e relazione che permettono questo lavoro gratuito.

 

Chi dipende da cosa?

 

Riprendo qui il metodo politico, liberamente ispirato al marxismo, secondo il quale il conflitto tra padroni e lavoratori era pensato come un conflitto la cui posta in gioco, oltre che il suo orizzonte, era l’autonomia politica. Con questo intendiamo l’indipendenza dal proprio nemico e il margine di manovra per definire i termini stessi del conflitto: i luoghi e le poste in gioco, la scelta delle armi e la loro legittimità. L’intera storia dello ‘sviluppo’ può essere vista come l’effetto di questa battaglia di autonomie.

Ma sappiamo da tempo che il padrone ha più bisogno dell’operaio di quanto l’operaio abbia bisogno del padrone. In questa battaglia, il capitalismo gode di un’autonomia solo fittizia, costruita in particolari configurazioni socio-ecologiche che cercano di aggirare o mascherare la sua dipendenza. Per esempio, le situazioni ad alto tasso di disoccupazione sono riconducibili a una di queste configurazioni. Mario Tronti nota, a posteriori, che la strategia del rifiuto del lavoro da parte degli operai aveva avuto forza solo in una situazione di piena occupazione: la disoccupazione non poteva allora mascherare la dipendenza dei capitalisti dai lavoratori[6].

 

L’analisi dell’ecologia del capitalismo mostra che i viventi e gli elementi naturali messi al lavoro in questi assetti non hanno aspettato noi per opporre resistenza. Dalle ‘erbacce’ resistenti agli erbicidi, ai pipistrelli che fuggono dalla deforestazione, essi si sottraggono costantemente da queste disposizioni per passare a relazioni più vivibili. Quando le meduse, approfittando del riscaldamento degli oceani, bloccano il pompaggio dell’acqua delle centrali nucleari, quando i funghi occupano i serbatoi per digerire le riserve di cherosene, queste resistenze non-umane costituiscono un serio ostacolo ai progetti capitalistici e vengono prese sempre più sul serio dagli investitori. Esse mostrano, in un certo senso, quale potere abbiano tali ‘nature’ capaci di resistenza di fronte ai capitalisti che dipendono da loro.

 

Ma queste resistenze sono anche ‘motore’ dei cambiamenti di strategia che i capitalisti devono attuare per aggirarle. Tali momenti di trasformazione delle modalità tecniche di produzione sono politicamente pieni di ambivalenze. Più di un secolo e mezzo fa, Marx sottolineava come l’ingresso delle macchine nelle fabbriche, come strategia per aggirare il potere dei lavoratori sul processo produttivo, potesse essere tanto un segno di perdita di potere per gli operai quanto la prefigurazione di una vita alleggerita da lunghe ore di lavoro massacrante[7]. Nella sfera della natura messa al lavoro, le successive ‘rivoluzioni verdi’ possono essere viste come tentativi di aggirare le varie resistenze di piante, animali e funghi, che ogni volta trovavano nuovi modi di sottrarsi alle discipline capitalisitiche per ottenere ambienti più vivibili.

 

L’ecologia del capitalismo nell’Antropocene

 

Questo valzer infernale di resistenza e innovazione sembrerebbe destinato a durare per sempre… se non fosse che siamo entrati nell’Antropocene. Il termine Antropocene indica che gli ostacoli posti dai viventi e dagli elementi naturali ai progetti capitalistici stanno cambiando di scala. Oggi e in futuro, la resistenza non umana sarà un elemento essenziale dell’ecologia del capitalismo.

Tanto che ora stiamo assistendo all’emergere del ‘valore negativo’[8], ossia situazioni in cui gli investimenti in innovazioni progettate per aumentare i rendimenti finanziari hanno l’effetto opposto: generano una resistenza tale da ridurre il rendimento anziché aumentarlo. È il caso della ‘superweed[9] Amaranthus palmeri, un’erbaccia resistente all’erbicida glifosato, che ha trovato le sue condizioni di sviluppo nei campi di soia OGM irrorati proprio con questo erbicida[10]. Questo effetto ‘boomerang’ è destinato a moltiplicarsi. Tali fenomeni dimostrano che ci troviamo più che mai in una situazione di piena occupazione della natura, il che significa che il capitalismo non è più in grado di nascondere la sua dipendenza dalla messa al lavoro degli elementi naturali e dei viventi, che resistono sempre più vigorosamente.

 

Nel bene o nel male, le nature resistenti[11] hanno ripreso l’iniziativa nella lotta per le autonomie. Nel male, perché questo si manifesta innanzitutto, su larga scala, in fenomeni sempre più violenti che, pur minando i progetti capitalistici, ovviamente non sono mossi da alcuna ‘coscienza di classe’, e dunque hanno spesso effetti nefasti sulle fasce più povere della popolazione. Desertificazione, salinizzazione, inondazioni, piante invasive, invasioni di insetti… paradossalmente, queste nature che stanno riacquistando la loro autonomia rispetto alle discipline capitalistiche che le hanno generate accentuano le disuguaglianze di classe o riproducono una seconda volta il rapporto coloniale. Andreas Malm[12] racconta che un uragano ha raso al suolo in una notte le foreste dell’isola di Dominica, che un tempo ospitavano le irriducibili comunità maroon[13]. Ma forse anche nel bene: ci sono alcuni di questi disastri con cui possiamo allearci, perché sono selettivi: agenti la cui capacità di nuocere dipende dai regimi di relazione in cui si trovano. Per esempio, le ‘erbacce’ resistenti agli erbicidi sono un disastro in un regime di produzione industriale, ma perdono il loro eccezionale potere di nuocere negli appezzamenti coltivati con metodo biologico. È quindi importante, dal punto di vista tattico, concentrare la nostra attenzione e le nostre azioni politiche su questa messa al lavoro della natura e cercare di sostenere alcune di queste resistenze.

 

Nuova (de)composizione

 

Questo è il punto in cui il nostro metodo politico sembra incepparsi. Infatti, quale sarebbe il soggetto di questa politica? Se per molto tempo è stato ovvio che fosse l’operaio, oggi non possiamo pensare seriamente che il soggetto dell’azione politica sia semplicemente Amaranthus palmeri

È allora opportuno, forse, ricordare una delle pratiche di questo metodo: mettere in discussione le nostre analisi del capitalismo. Forse siamo in un momento analogo a quello che fece sentire agli autonomi italiani, di fronte alle mutazioni delle modalità del lavoro in fabbrica e alla nascita dell’operaio-massa, la “necessità di un’analisi profonda del rapporto tra le tecnologie e l’attività sociale produttiva, l’attività cosciente dell’attenzione, della percezione, della memoria, dell’immaginazione…”[14]. Oppure, analogamente al contesto dello sviluppo del cognitariato[15] che ha fatto dire a Toni Negri: “Ciò che occorre […] è una nuova interrogazione sulla composizione tecnica e politica della classe dei lavoratori che, nelle contingenze che abbiamo di fronte, si costituisce e si offre sotto nuove figure”[16]. Se è vero che il pieno utilizzo della natura e l’aumento dei valori negativi stanno diventando incontestabili, ciò significa che la situazione si è trasformata a tal punto da superare i nostri riferimenti teorici riguardanti il funzionamento del sistema di produzione capitalistico, nonché, soprattutto, l’identificazione dei luoghi in cui dei rapporti di forza politici sono potenzialmente all’opera.

 

Ciò che viene evocato nelle due citazioni precedenti è la ‘composizione di classe’, che è stata definita come “il rapporto dinamico tra la composizione tecnica della classe operaia (cioè le modalità di sfruttamento del lavoro vivo nel processo produttivo) e la composizione politica della classe (cioè la soggettività e il comportamento operaio)”[17]. La composizione tecnica si riferisce al modo in cui i capitalisti dipendono da altri e non possono sempre nasconderlo. La composizione politica è, sulla base della consapevolezza che siamo meno dipendenti da lui di quanto lui lo sia da noi, la via per lo sviluppo di un senso di estraneità al capitale: il sentimento di non essere portatori della stessa logica del regime capitalistico di relazioni, e il rifiuto di essere complici di quel regime di relazioni in cui siamo coinvolti.

 

Questa analisi della classe in due componenti si è poi complessificata. Alcuni hanno aggiunto la composizione sociale (per esempio, in Italia negli anni ‘60 e ‘70, i lavoratori del sud rurale, che non avevano una cultura operaia e sindacale, si rivoltavano in modi nuovi). Oggi potremmo arricchire la questione considerando una ‘composizione ecologica[18] di classe per rendere conto dei fenomeni ecologici che influenzano il rapporto tra i capitalisti e i loro avversari (per esempio: l’instaurarsi del binomio OGM-pesticidi e l’emergere della resistenza agli erbicidi, lo scandalo dei tumori da pesticidi, sono eventi che hanno fatto evolvere questa composizione ecologica).

 

Ma in tutti i casi si tratta dell’articolazione tra, da un lato, le componenti pratiche, concrete di organizzazione materiale e orientamento delle capacità che legano i capitalisti a coloro da cui dipendono (la composizione eco-tecnica, per così dire); e, dall’altro, una componente soggettiva o politica, determinata dalle trasformazioni delle modalità di attenzione, percezione, memoria e immaginazione di coloro che sono nella posizione di fare un’esperienza che può portarli a odiare il capitale.

Ma la trasformazione più delicata da tenere in considerazione è questa: nel contesto del movimento operaio, coloro che avevano questo potere sui capitalisti erano gli stessi che potevano sentirsi estranei ai suoi progetti: i lavoratori. È stato questo allineamento tra la dimensione tecnica e quella politica a dare alle azioni di rifiuto del lavoro quella forza che ha permesso di ottenere alcune vittorie. E la forza specifica di questo metodo politico è proprio quella di agire sulle situazioni in cui la composizione tecnica e la composizione politica si incontrano, incarnandosi in un’unica esperienza, in un unico soggetto collettivo, negli stessi corpi pensanti.

 

Qui risiede, mi sembra, una delle ragioni dell’incepparsi del nostro metodo: siamo oggi in una situazione in cui le forze che, con una certa probabilità, sono maggiormente in grado di ostacolare i progetti capitalistici, dal punto di vista della composizione tecnica – intendo le forze di resistenza non-umane – non sono soggetti capaci di sviluppare una soggettività politica.

In altre parole, non si può impedire l’appropriazione dei non-umani al loro posto; è infatti dalle ‘nature del capitale’ che il capitalismo inevitabilmente dipende, anche se siamo noi a identificare questo ‘punto debole del capitalismo’. Ci troviamo in una situazione nuova che mette in difficoltà il nostro patrimonio politico, perché non siamo di fronte ad un gruppo che è in grado, oggettivamente e soggettivamente, di rifiutare il lavoro da sé. Si tratta di rifiutare la messa al lavoro di altri. Le difficoltà sono quindi due:

 

La prima: è essenziale che il rifiuto del lavoro gratuito sia portato avanti da coloro che sono coinvolti direttamente nel processo lavorativo. Sono coloro da cui i capitalisti dipendono in modo imprescindibile che detengono, per questa ragione, un potere su di loro.

La seconda difficoltà è che non ci si può soggettivare politicamente al posto degli altri; e non si propone qui di credere a una soggettivazione politica da parte dei non-umani.

 

Ma allora, come inventare delle azioni che abbiano la potenza del rifiuto del lavoro, e la pertinenza di prendere di mira una situazione di vulnerabilità dei capitalisti, visto che non possiamo rifiutare la messa al lavoro al posto di altri?

Di fronte a questo problema, il nostro obiettivo diventa allora quello di trovare pratiche politiche che possano riarticolare composizione tecnica e composizione politica. Infatti, se rimangono separati, c’è il forte rischio che questi temi perdano la loro dimensione politica: da un lato, riducendosi a una resistenza meccanica e senza senso della natura; dall’altro, ad un sentimento di pietà e un desiderio morale di sostenere queste nature. Si tratta allora di articolare queste dimensioni tessendo delle relazioni propriamente politiche, una ‘composizione di classe’ che si configuri al di là della classe degli esseri umani sfruttati.

 

Comporre delle alleanze

 

Per cominciare ad abbozzare una risposta a questo problema, vorrei dare tutta la sua importanza a un’invenzione di modalità di azione politica, che è all’opera silenziosamente in molte lotte e che chiamiamo, con Antoine Chaput, alleanze politiche terrestri[19]. Si tratta di azioni politiche che consistono nell’allearsi con delle forze di percezione e azione non-umane,  all’interno delle stesse lotte politiche.

Infatti, partendo da queste resistenze non umane, è possibile costruire attivamente quello che potrebbe essere visto come un insieme di resistenze interspecifiche. Attraverso queste alleanze, si tratta di portare avanti un rifiuto politico organizzato di ciò che ci mutila – che mutila un ‘noi’ composto non solo da esseri umani – nel mondo della messa al lavoro. Queste alleanze nascono dalla presa di coscienza che già esistono delle formidabili resistenze non-umane. Esse costituiscono di fatto il riconoscimento che le azioni dei non-umani fanno concretamente parte di situazioni politiche e, per questo, consentono soggettivazioni politiche più ecologiche.

 

In cosa possono consistere tali alleanze? Un buon esempio è la lotta contro Monsanto in Argentina e Paraguay. In risposta alla resistenza al glifosato della superweed Amaranthus palmeri, gli abitanti della zona, espropriati delle loro terre e contaminati dai pesticidi a causa delle monocolture di soia OGM, hanno riconosciuto nell’Amaranthus un’iniziativa a cui era necessario rispondere. È stata così inventata una nuova modalità d’azione, adeguata a collaborare con la resistenza della pianta infestante: hanno praticato il lancio di ‘bombe di semi’ di Amaranthus nei campi delle monocolture, amplificandone così l’azione di sabotaggio della produzione di soia.

Potrei anche citare diverse lotte che hanno accolto attivamente specie protette dalla legge affinché queste, a loro volta, proteggessero aree minacciate da grandi progetti. Il falco pescatore, la Corydalis solida, la Gentiana pneumonanthe, il Gittaione… Questo tipo di accoglienza richiede di fare la conoscenza di tali altri abitanti del luogo, per articolare azioni politiche con questi nuovi alleati.

 

Attraverso queste azioni non si tratta solo di associarsi ai poteri dei non-umani, alla loro capacità di bloccare efficacemente le imprese dei nostri avversari, in un semplice rapporto strumentale, bensì anche di vegliare a non far scomparire la loro alterità, a non negare la loro autonomia. Perché è in questa autonomia che risiede la loro intelligenza della situazione. La pratica dell’alleanza consiste quindi, innanzitutto, nel sospendere per un po’ le nostre intenzioni politiche per prestare attenzione a ciò che le resistenze non-umane manifestano come conflitti tra mondi opposti. Un rapporto di alleanza, tra gruppi umani o rispetto ad azioni non-umane, consiste nel trarre le conseguenze dalle azioni degli altri, cioé a essere coerenti con esse.

 

Infatti, quando degli esseri viventi o degli elementi naturali si oppongono alla messa al lavoro capitalistica, essi manifestano, a partire dal loro modo di sentire, delle linee di conflitto tra diversi usi degli spazi e diversi regimi di relazione. Conflitti che ci riguardano, all’interno di una divisione politica che diventa quindi ‘socio-naturale’.

La Reynoutria japonica (anche detta Poligono del Giappone), per esempio, non è solo un potente alleato per fermare le ruspe che distruggono una foresta come quella di Romainville; è anche una pianta che, prosperando molto bene in terreni inquinati da metalli, può rendere visibile la tossicità del suolo in alcuni quartieri e, così facendo, rivelare l’esistenza di ingiustizie ambientali che potrebbero rimanere nascoste. Questo può aiutare a costruire un punto di vista, una prospettiva di classe eco-centrica, e a progettare azioni contro questo inquinamento. Azioni condotte da e per gli abitanti di questi quartieri (abitanti umani e non-umani)[20].

 

Si tratta di inventare modalità di azione politica, non per rifiutare al posto di altri ciò a cui essi stessi già resistono a modo loro, ma per estendere e amplificare gli effetti politici delle molteplici resistenze già all’opera. Vale a dire, portare un’azione che non è nostra, all’interno delle nostre lotte politiche.

A differenza degli scioperi dei lavoratori, queste dimensioni oggettive e soggettive della resistenza non sono riunite in un unico corpo, in un’unica esperienza. Ma il rapporto politico di alleanza permette di riarticolarli. È quindi la relazione stessa il luogo di articolazione tra la dimensione tecnica e quella politica.

 

Ma è anche all’interno di ciascuno dei termini di questa relazione politica che le due dimensioni vengono riarticolate. Perché i non umani che, ostacolando concretamente la loro messa al lavoro, portano la dimensione oggettiva dell’azione, non sono forze puramente cieche. Le loro resistenze, se non sono il frutto di una soggettivazione politica, derivano comunque da logiche a loro proprie, dalla loro capacità di percepire l’ambiente in cui vivono a partire dalla loro dimensione di senso, e di puntare a condizioni di vita più arricchenti. Quindi, se prestiamo attenzione, hanno la capacità di mostrarci non solo gli avversari della vivibilità, ma anche dei modi di coabitazione più vivibili.

Simmetricamente, noi attivisti umani non prendiamo in carico solo la dimensione soggettiva di queste alleanze. Sta a noi, infatti, inventare nuove tecniche e modalità d’azione in grado di amplificare l’efficacia concreta delle resistenze non-umane. Rilanciando delle resistenze non-umane, gli esseri umani partecipano in egual misura al potere concreto sull’avversario comune.

 

Questo intreccio tra dimensione tecnica e politica si spinge ancora più in là nel rapporto di alleanza, in un’incessante staffetta. Infatti, se la resistenza oggettiva dei non-umani ci porta a una trasformazione soggettiva del nostro sguardo di militanti, verso una sensibilità più eco-centrica dei conflitti politici, questo ci permette di cogliere con maggiore precisione i conflitti tra gli usi del mondo, guidati dai non-umani che resistono in base alla loro esperienza della situazione, e quindi di cercare di adattare le nostre azioni per renderle più politicamente pertinenti ed efficaci.

Mi sembra che sia possibile, intrecciando questi nuovi tipi di azioni politiche, queste azioni politiche più che umane, riarticolare le composizioni tecniche e politiche del nostro presente, nel contesto del pieno impiego della natura. E, in questo modo, facendo presa, proprio nei nostri ambienti di vita, sul sentimento diffuso di vulnerabilità vitale, riattivare le forze d’azione del ricco patrimonio politico che ancora osa pensare la politica in termini di antagonismo.

 

Note

 

[1]Il movimento dei Gilet Gialli è stato un movimento sociale spontaneo nato in Francia nell’ottobre 2018 a seguito della diffusione – principalmente sui social media – di appelli a manifestare contro l’aumento del prezzo dei carburanti alla pompa, derivante dall’aumento dell’imposta sul consumo interno dei prodotti energetici (TICPE). Questo movimento di protesta popolare è stato di massa, inaspettato e molto combattivo.

[2] Il clordecone è un insetticida molto tossico, utilizzato in particolare per i bananati delle Antille Francesi fino al 1993, con conseguenze devastanti in termini di contaminazione ambientale e rischi per la salute umana. Cfr. https://it.frwiki.wiki/wiki/Chlord%C3%A9cone_aux_Antilles_fran%C3%A7aises. NdT.

[3] L’isola di calore è il fenomeno che determina un clima più caldo all’interno di zone urbane, in particolare quelle in cui ci sono meno aree verdi: si tratta molto spesso di quartieri popolari. Cfr https://it.wikipedia.org/wiki/Isola_di_calore. NdT.

[4] Il concetto di “rete della vita” deriva dai lavori di Jason Moore. Per una definizione esaustiva, si veda dunque Moore, Capitalism in the Web of Life, Verso, London, 2015. In sintesi, si tratta di un concetto che ambisce a fornire una definizione meno metafisica e più relazionale di natura, intesa come una rete di materia, energia e scambi biochimici (in cui anche le società umane sono inserite) che costituisce l’infrastruttura della vita sulla terra. NdT.

[5]Jason Moore, Capitalism in the Web of Life, Verso, London, 2015.

[6]« Sur le pouvoir destituant », intervista con Mario Tronti, rivista La rose de Personne, n°3, Éditions Mimesis, 2008, p. 36. https://fucina62.noblogs.org/files/2013/12/Discussione-con-M.Tronti-Dul-potere-destituente.pdf

[7] Karl Marx, Manuscrits de 1857-1858 dits « Grundrisse », tome II, Éditions Sociales, 1980, p. 182-202.

[8] Si tratta di un concetto di Jason Moore che attraversa Capitalism in the Web of Life. In sostanza, esso indica un nuovo tipo di limite alla valorizzazione del capitale, che rende “epocale” la crisi attuale, non paragonabile alle crisi di accumulazione del passato. NdT.

[9] Con superweed si intendono quelle piante ibride, prodotte da un incrocio genetico accidentale tra piante OGM e piante selvatiche, che hanno sviluppato delle forma di resistenza agli erbicidi. Cfr. https://www.collinsdictionary.com/dictionary/english/superweed. NdT.

[10]Per maggiori dettagli su questa situazione si vedano Beilin Katarzyna Olga e Sainath Suryanrayanan « The War between Amaranth and Soy: Interspecies Resistance to Transgenic Soy Agriculture in Argentina ». Environmental Humanities, v. 9, n. 2 (2017), p. 204-229. Online:
https://read.dukeupress.edu/environmental-humanities/article/9/2/204/133011/The-War-between-Amaranth-and-SoyInterspecies.

[11] Chiamate anche nature ferine o terze nature, in particolare da Anna Tsing.

[12]  Cfr. https://www.terrestres.org/2018/11/15/nature-maronne-et-liberation-du-monde/ – traduzione in francese del discorso per il Deutscher Memorial Prize, pronunciato a Londra il 10 novembre 2017.

[13] I maroons (marrons in francese) erano ex-schiavi o discendenti di schiavi di origine africana; liberatisi dalla schiavitù, in alcune località dei caraibi e del Sud e Centro America formarono delle comunità clandestine autonome, con base in zone selvagge e difficilmente accessibili, da cui conducevano delle lotte di liberazione anti-coloniale. NdT.

[14] Nanni Balestrini, Primo Moroni, L’orda d’oro. 1968-1977:la grande ondata rivoluzionaria e creativa, politica ed esistenziale, Feltrinelli, Milano, 2011.

[15] Il cognitariato è un tentativo di designare la mobilitazione, nella produzione, di numerose capacità cognitive che vanno oltre il tempo di lavoro in senso stretto: capacità di apprendere, di creare, di cooperare, di prendersi cura degli altri…

[16]Étienne Balibar, Antonio Negri, Mario Tronti, Le démon de la politique, Éditions Amsterdam, 2021, p. 113.

[17] Nanni Balestrini, Primo Moroni, L’orda d’oro, cit.

[18]  L’espressione mi è stata suggerita da Davide Gallo Lassere.

[19]Cfr. Léna Balaud, Antoine Chaput, Nous ne sommes pas seuls. Politique des soulèvements terrestres, Le Seuil, Paris, 2021. Cfr. anche l’articolo online https://www.terrestres.org/2018/11/15/suivre-la-foret-une-entente-terrestre-de-laction-politique/.

[20]  Per esempio, c’è stato un toxic tour a Romainville, nella periferia parigina, in cui il Poligono del Giappone è stata presentata non come un avversario da estirpare, ma come una rivelazione di questo inquinamento invisibile. Cfr. http://www.leslilasecologie.fr/2019/06/toxic-tour-de-pantin-a-romainville-dimanche-16-juin-2019.html.

 

[Immagine: Reynoutria japonica].

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