di Giulia Massini
La percezione popolare e la riflessione accademica sono entrambe mobilitate da cause e conseguenze dell’attuale crisi planetaria (Danowski e Viveiros de Castro, 2017), un discorso sulla fine del mondo che si fa sempre più intenso da quando abbiamo preso piena coscienza della nostra responsabilità nel processo di accelerazione del riscaldamento globale in corso. Non a caso affermiamo di vivere nell’Antropocene, con ciò attribuendo a noi stessi un potere distruttivo sul mondo naturale, che mette in crisi la liceità del nostro stile di vita e oscura, soprattutto, le visioni del futuro. Non c’è dubbio che quella apocalittica sia la narrazione principale dei nostri tempi.
Dato ciò per assunto, tuttavia, scrivere nell’Antropocene non significa limitarsi al passivo registro del dato di disastro che caratterizza il nostro presente. Lo dimostra la silloge poetica di Guido Mattia Gallerani I popoli scomparsi (Italic Pequod, 2020), la quale, pur collocandosi come già dal titolo nell’alveo di una riflessione sul “finire” dell’umano, dimostra l’esigenza di un cambiamento nell’approccio al problema che è dettato, a mio parere, proprio dalle novità dello scenario odierno. Affermando che l’anthropos è il principale agente di trasformazione/distruzione del mondo, cadiamo con tutta evidenza nel solito atteggiamento antropocentrico. Questa lettura della realtà a partire dall’umano, con l’umano al centro (Illetterati, 2021), coincide perfettamente con un certo tipo di pratiche culturali che vengono svolte considerando, nella relazione col mondo naturale, il solo vantaggio della propria parte. Ma possiamo dire che quello dell’Antropocene è anche un antropocentrismo di segno negativo, dal momento che rappresenta il riconoscimento del potenziale distruttivo di dette pratiche; in questo senso, l’Antropocene tradisce se stesso come sintomo e simbolo di un terribile fallimento dell’umano (Descola, 2020), la sensazione che la relazione umano/mondo non abbia funzionato proprio a causa nostra e che necessiti di un cambiamento.
L’immaginario letterario, come ci dimostra Gallerani, si fa portavoce di questa esigenza, recettivo a una nuova idea dell’essere umano nel suo rapporto con il mondo. Certi discorsi sulla fine, dunque, non si risolvono in se stessi, ma possono rappresentare un nuovo inizio.
In tempi e spazi non-umani
Una delle sfide più difficili che l’Antropocene ci richiede è quella di comprendere le disfunzioni spazio-temporali espresse nel suo concetto e Gallerani, con la sua raccolta, sembra cogliere in pieno questa sfida. Lo spazio e il tempo come di solito ce li rappresentiamo non assolvono più la funzione di descrivere le enormi trasformazioni sistemiche in atto, le quali sembrano giocarsi su tempi e spazi che di umano non hanno niente, anzi che l’essere umano stenta a comprendere. Esse hanno come sfondo l’intero pianeta Terra e devono per forza spiegarsi su una scala ampia e globale: il locale non ha più funzione di microcosmo o comunque non ha un destino svincolato dal resto. Il tempo dei processi che vi si svolgono, poi, lascia intravedere una storia profonda, tanto la storia naturale dell’essere umano quale animale che ha avuto origine dalla natura, quanto la storia umana della natura, poiché essa stessa è stata trasformata dall’essere umano (Lord Smail, 2017). Una trasformazione, tra l’altro, che non sappiamo datare chiaramente (Lewis e Maslin, 2015), talmente vasta e complessa da non potersi definire nemmeno oggetto, semmai “iperoggetto” (Morton, 2018), capace di mettere a soqquadro le nostre categorie conoscitive: lo spazio e il tempo dell’Antropocene si dilatano e si restringono con elasticità, muovendosi su scale inimmaginabili, «da quella nanometrica a quella planetaria, e dai picosecondi agli eoni» (Macfarlane, 2020).
Il progetto di Gallerani parte proprio dall’idea di espandere le scale percettive. Innanzitutto sceglie di mettere in scena un soggetto meno scontato di quanto sembri: popoli, ossia collettività. Esperimento di rado tentato perfino dalla narrativa, che ne riscontra la difficoltà pur potendo disporre di pagine più numerose per estrinsecarlo, esso stupisce per la sua resa in poesia, ma forse proprio per questo convince quale tentativo di riscrivere una poetica antropocentrica. Come annotava Amitav Ghosh nel suo saggio più famoso, La grande cecità, qualsiasi problema collettivo oggi si colloca nel seno di una cultura dominante che ha invece estromesso l’idea di collettività dalla politica, dall’economia e anche dalla letteratura (Ghosh, 2017): Gallerani rappresenta una felice eccezione. Se non proprio alla coralità, con I popoli scomparsi aspira almeno alla rinuncia di quell’etica individuale che ha come scopo il racconto dell’avventura morale del soggetto con le proprie individuali preoccupazioni. Le collettività del titolo, popoli in senso stretto, storico, etnico e geografico, affiancati a popoli in un senso più lato, intesi come unità di ordine culturale o professionale, sono insiemi di destini condivisi: la «spersonalizzazione» del soggetto scrivente (Batisti, 2021), costituisce un tentativo di narrare a più voci un più ampio racconto dell’umano.
Ampliato il discorso dall’unico soggetto a più soggetti collettivi, per forza di cose la scala spaziale si allarga a un contesto non solo locale e – cosa ancora più interessante – non solo occidentale: protagonisti delle poesie sono i popoli vissuti in zone geografiche disparate che vanno dal Pakistan degli Harappa alla Crimea dei Cimmeri, dalle Marche dei Piceni al Mali dei Tellem, ecc., in una carrellata tanto veloce quanto straniante. L’ampliamento spaziale dello sguardo implica, oltre alla sua accelerazione, una corrispondente espansione temporale ed è proprio per questo che si genera la straniante sensazione di vuoto e pieno allo stesso tempo, dovuta a un inedito modo di declinare la percezione del tempo.
Con pochi tratti essenziali i testi narrano in breve la parabola storica di un determinato popolo, o li fotografano in un momento saliente, generalmente quello della fine. È vero che d’un popolo ci vengono restituiti solo pochi accenni di storia talvolta inventata (Gallerani, p. 7), e che il loro passaggio nel mondo, laddove per un singolo essere umano è un lungo trascorrere di decenni, per il lettore è invece una serie di apparizioni folgoranti. E però, anche se per il barlume di pochi versi, un effetto d’improvvisa ri-comparsa (quella sensazione di pieno) è ottenuto dalla sapiente visionarietà narrativa: dal silenzio bianco della pagina-tempo risuona lo strepito d’armi e di voci,/ di canti blasfemi o festosi dei Sumeri (Gallerani, p. 11) e comincia un’epopea a più voci dipinta con tratti fortemente caratterizzanti (si veda per esempio la descrizione degli Hyksos: apparvero davanti ai divini faraoni/guardando dritti negli occhi/senza giovanili timidezze/quel volto perso nelle antiche stirpi, p. 16; o dei Cimmèri che spesso suonavano/le campanelle notturne,/fruscianti alle porte delle grotte, p. 22; o ancora dei Berberi che del deserto masticavano la sabbia. Poco parlavano, più col loro cavallo/che l’un l’altro. p. 72, ecc.). Se questa ri-comparsa brilla d’un breve ma intenso fulgore, poi, è anche e soprattutto grazie a una fine archeologia della parola, compiuta «sulle tracce delle lingue morte solo in superficie e indotte dai popoli scomparsi a cozzare e intrecciarsi con le lingue dei vincitori» (Bertoni, 2020), secondo il principio per cui una parola dischiude un mondo (vedi per es.: zimarra, tiara, fuste, sciabecchi). Un momento dopo, chiusa la poesia, la sensazione di vuoto: il popolo è tornato nel suo oblio.
Il senso del tempo è insolito, dunque, per l’utilizzo di un arco cronologico che si espande dal più giovane /tra gli abitanti effimeri del mondo (Gallerani, p. 9), ossia l’uomo di Neanderthal, al futuro di imprecisati superstiti che ballano al ricordo di noi (Gallerani, p. 97). Eppure, questa temporalità non è proiettata solo in avanti, su una linea temporale inizio-fine, ma si dispone anche secondo il rispetto delle ere archeologiche in cui i popoli fanno di volta in volta la loro comparsa nella Storia. A ogni descrizione della scomparsa di un popolo Gallerani compie un salto all’indietro, il ritorno a un altro inizio, secondo un tempo circolare che segue le fasi di inizio, fine e nuovo inizio in un altro popolo. Si verifica così quella che potremmo chiamare, usando le parole di Niccolò Scaffai, una «complanarità temporale» (Scaffai, 2021): la scomparsa dei popoli è già avvenuta, ma allo stesso tempo sta avvenendo sotto gli occhi del lettore.
L’Antropocene è, innanzitutto, una questione di prospettiva. Descrive una presente epoca umana sulla base di una probabile documentazione fossile o archeologica che si paleserà agli abitanti futuri del mondo solo in un tempo successivo e lontano e quindi presuppone un archeologo-geologo del futuro che, guardando dal proprio presente al nostro passato, riesca a vedere i mutamenti diacronici della terra osservandoli come se fossero sincronici. È esattamente l’operazione che compie Gallerani: si volge al passato dell’essere umano, a uno strato di suoi fossili culturali, per coglierlo in un unico breve sguardo, al fine di ricavarne un resoconto che contenga l’idea di un mondo. Supponiamo, infatti, che Gallerani stia declinando a suo modo quel modello apocalittico che, stando alle parole di Frank Kermode, è una legge della mente umana da sempre applicata nel tentativo di raccontarsi il mondo, una legge secondo la quale per schiarire il senso di una storia occorre ricongiungere la sua fine al suo inizio (Kermode, 1972). Ma che senso ne ricava?
Presentando i suoi Popoli, l’autore annuncia di volerli organizzare entro un «mappamondo archeologico, che non mira soltanto a dare una rappresentazione verosimile di ognuno di quei popoli, quanto a significare il loro inserimento in un processo continuo, fatto di vittorie e sconfitte, di sopravvissuti e vinti, e dimostrare così come ogni idea di civiltà sia sempre transitoria, al pari dell’idea stessa di fine della Storia, di crisi immanente, di apocalisse» (Gallerani in Capone, 2021). Non è tanto il singolo destino che gli interessa, ma, come suggerisce l’Antropocene, un destino profondo, destino di specie, cartina tornasole di un possibile e nostro futuro. L’accostamento tra popoli, in una vertiginosa rincorsa di secoli, entro un avvolgimento rapido fino al nostro presente, non possiede la temporalità statica del locale, dell’individuale; vuole invece simulare quell’ineffabile processo di mutamento, accelerandolo a uso dell’utente umano, al fine cioè di tradurgli in un modo a lui finalmente comprensibile (sulla scala temporale che può comprendere) ciò che interpreta del mondo: ossia gli enormi mutamenti in atto e la transitorietà come una delle principali caratteristiche dell’anthropos.
Memoria planetaria e posterità dell’umano
La narrazione della fine del mondo, ai nostri tempi, è anche e soprattutto paura che essa, nonostante tutte le proroghe ottenute, possa davvero verificarsi. È un pensiero che annichilisce, che impedisce una visione chiara e propositiva del futuro, un pensiero carico di impotenza e senso di colpa. Gallerani aggira il problema dimostrandocene la falsità: per vedere la nostra fine non gli serve guardare al futuro. La fine è già lì dietro a noi, basta rivolgere lo sguardo indietro al passato: essa è già avvenuta. Essa è addirittura nel DNA della specie, inscritta nel suo abbrivio col soccombere di Neanderthal a causa nostra (uno più intelligente/avvolto dalla corteccia cerebrale/avanza al riparo; Gallerani, p. 9): un processo storico di evoluzione che configura lo svolgersi del tempo come un ripetersi del disastro. Non a caso quello della scomparsa in cui cadono tutti i popoli è un clinamen (Gallerani, p. 13), un principio di deviazione impercettibile, la legge di inclinazione casuale ma costitutiva della specie. Leggiamo dei Sumeri scacciati dal Diluvio, dell’Egitto conquistato dagli Hyksos, dei Tellem messi in fuga dai Dogon, dei Moriori decimati dai Maori, di come le culture sbiadiscano e appaiano quasi ridicole all’evolversi della storia, come quella dei punk che furono fatti esplodere/in bulbi di luce venosa/dai pugni e dai calci/di Ken il guerriero (Gallerani, p. 85), o quella di Samurai, feroci guerrieri, che hanno la mente ormai intonsa/da cattivi pensieri (Gallerani, p. 69), o degli Hipster che si atteggiano ad apostoli urbani ma sono invisi alle masse (Gallerani, p. 94), ecc., secondo l’idea che ogni destino si svela al seguito/di un’orda ignota e del suo esodo (Gallerani, p. 20). Un pensiero con cui concorderebbe la dark ecology (Morton, 2020): la selezione naturale implica l’estinzione.
È per questo che convivono due modelli temporali nell’opera, quello circolare aristotelico e quello lineare giudaico-cristiano. Ma mentre il tempo lineare non è interessato al rinvenimento di un’escatologia finale (tutto è rovina, residuo, traccia di uno svolgimento infinitamente più grande), il tempo circolare acquisisce una forza inedita che è quella letteraria dell’epica. Essa sembra riecheggiare il racconto del mito cui infine assurgono i suoi personaggi scomparsi. E infatti li narra col «battente di un dominante e ineluttabile passato remoto» (Nicolini, 2020), un tempo quasi archetipico per le loro figure ormai esemplari. Un’epica, potremmo dire, particolarmente adatta a rappresentare le riflessioni dell’Antropocene, che tende a far scomparire l’individuo e a privilegiare la de-presentificazione, «attraverso la corrispondenza o fusione di piani temporali, ma anche evocando immagini di civiltà remote, culture antiche o preistoriche, vicende di una storia profonda che inquadrano l’umano come elemento di una ‘memoria planetaria’» (Scaffai, 2021). I popoli nascono, i popoli vivono di usi e tradizioni, i popoli muoiono, il loro mondo finisce, soppresso da un altro e nel tempo profondo si trasforma in un passaggio che, per quanto pachidermico (Gallerani, p. 81), nell’insieme non è che un’eco lontana di un tempo senza cronaca (Gallerani, p. 16).
Potremmo forse descrivere le poesie dei Popoli scomparsi come vaghe memorie del nostro pianeta, tanto impersonali esse sono. La loro forza, però, come si è detto, non risuona unicamente al tempo passato, essa contiene anche, proprio per l’esemplarità cui aspira, un senso di posterità. Propongo di utilizzare lo stesso aggettivo che Scaffai recupera dalle Storie naturali di Primo Levi per descrivere le nuove narrazioni dell’Antropocene (Scaffai lo applica a due romanzi che spiccano tra altri per l’utilizzo di nuove categorie conoscitive dettate dallo scenario aperto dall’Antropocene: Doggerland di Elisabeth Filhol e Underland Di Robert Macfarlane). Gruppo di racconti pubblicati anni dopo i romanzi principali, le Storie naturali sono descritte dallo stesso Levi come narrazioni di un “cosmo prepostero”. Il “pre” sta per una dimensione temporale di anticipazione, ma il tempo cui si riferisce tale anticipazione è in realtà “postumo”, il tempo dei “posteri”. Questi due aspetti insieme attribuiscono a “prepostero” il significato di “invertito” in senso cronologico. Leggendo I popoli scomparsi, svolgiamo sì le pagine di un lavoro archeologico di recupero del passato, ma ci abbandoniamo anche a un presentimento del futuro. Nel racconto del loro passato, Gallerani anticipa il presente destino, o per lo meno ricava una illustrazione di certi comportamenti che perdurano nella società occidentale, come un album archeologico, un repertorio incompleto d’umanità diverse, alla fine delle quali – benché si tratti di una fine sempre transitoria – arriva la nostra (Gallerani, p. 7).
La prosa poetica in chiusura della raccolta – una posizione di importanza strategica – mostra un soggetto poetico non meglio identificato, colto mentre si reca in un museo di storia naturale di una grande città, insieme ai genitori. Non si tratta dell’autore, qui l’io è bandito, quanto piuttosto di un essere umano eletto a campione e a mito della nostra contemporaneità: non a caso è narrato in terza persona, come il generico “uomo” e il generico “bambino” protagonisti di un romanzo alla fine del tempo e sulla soglia dell’ignoto come La strada di Cormac McCarthy. L’individuo quasi archetipico dell’umanità è indotto a profonde riflessioni dalla carrellata di storia naturale che il museo gli offre (una sorta di raccolta in 3D di popoli scomparsi) e proprio qui – non poteva essere altrove – immagina di sistemarsi sulla soglia del luogo ambivalente, del tempo resuscitato (Gallerani, p. 95) – ossia dietro la teca, al fianco del Cro-Magnon. Proprio qui capisce che affinché il viaggio abbia senso deve unire la fine al suo inizio, ossia capisce che il viaggio termina solo se indosserà il suo cilindro, la cravatta, il gessato col gilè e i canini (ibid.). Ciò che immagina, tuttavia, quando con la mente sposta la paglia e si accomoda sulla sedia, è che dalla porta del museo entri qualcuno per cui lui stesso diventerà spettacolo, il pubblico dei prossimi alieni. Saranno loro a fare un passo avanti come interpreti di ciò che l’essere umano è stato, solo a loro è data la possibilità di congiungere davvero la nostra fine al nostro inizio.
Lo sforzo di astrazione è dunque massimo, o se vogliamo usare il suggerimento di Scaffai unito a quello di Levi, è innervato di una tensione prepostera verso il già accaduto. Qui presente, passato e futuro si mischiano e, pur nella consapevolezza che anche nella nuova combinazione i diversi tempi non potranno restituirci un’immagine esaustiva dell’iperoggetto, ci strappano dalle consuetudini e dalle certezze di visioni classiche e ormai insufficienti per interpretare il presente. Alla fine della lunga carrellata di Gallerani, semmai, possiamo chiederci cosa di diverso possa attenderci, se i popoli scomparsi ci insegnano che tutto si ripete uguale e inesorabile da sempre. No future? Pessimismo di una narrazione distopica, dietro la quale si nasconda un’incapacità d’immaginare un diverso futuro? Niente affatto. Anche se non possiamo dire che ci sia al contrario un’utopia nello sguardo di Gallerani, un’idea del futuro c’è eccome. E se il contraltare della narrazione apocalittica non è l’utopia – e questo tanto più perché la narrazione apocalittica stessa non coincide necessariamente con la distopia – in esso si potrà leggere tuttavia un’immaginazione di segno positivo che sta proprio nel tentativo di guardare oltre la barriera senza alternativa del presente. È vero che la raccolta non esplora ciò che solo accenna. Solo nella poesia I superstiti, quasi gioco rievocativo delle più belle pagine apocalittiche degli ultimi decenni – il già citato McCarthy, o il potentissimo La morte dell’erba di Christopher – intravediamo i fantasmi di quel tempo che sarà: essi, dalle caverne dei monti dove immaginiamo siano stati nascosti durante gli ultimi giorni illuminati da una luce breve e tremenda simile a una bomba atomica o a una catastrofe solare, ritornano alla vita in un pianeta fattosi spaventoso per via dei tonfi dei pini crollati, il terremoto/ e in pianura le cicatrici dei campi incoltivati. Solo là intravediamo strade che altro non sono che ombre surreali, dove non c’è elettricità, dove anche le stelle hanno smarrito il significato simbolico loro attribuito dall’uomo perché il tempo, di fatto, si è fermato e non distingue/ nell’oscurità immensa tra le sabbie/una notte qualunque dal ricordo/ di un’altra (Gallerani, pp. 96-97).
Ma in fin dei conti non è una necessità stringente del lavoro di Gallerani definire le coordinate narrative d’un ipotetico futuro. Già nel suo sforzo di narrare e versificare su scale percettive innovative le tracce apocalittiche della nostra storia la raccolta contribuisce ad allargare gli orizzonti oltre il presente e a inquadrare la storia della nostra specie da un punto di vista diverso che non ha per forza l’umano al centro, che non misura il tempo solo al proprio ritmo e che considera lo spazio qualcosa di ben più aperto e interconnesso. Sotto questo punto di vista il mondo naturale è senza fine e solo l’umano, continuamente, vi finisce. Non è poi un mondo nuovo che dobbiamo immaginare, quanto piuttosto un nuovo popolo capace di cogliere e abitare il mondo del futuro (Danowski e Viveiros de Castro, 2017), un popolo che accolga la minaccia apocalittica del non-umano (Massini, 2018) come risorsa per dar luogo a una diversa relazione tra umano e non-umano. Dopotutto, ed è stato scritto in molte forme (Haraway, 2019; Tsing, 2021), non è l’anthropos il vero responsabile della fine del mondo, bensì un modo particolare di stare al mondo di un certo gruppo di esseri della nostra specie, la loro caratteristica di fare mondo attraverso l’impiego della tecnica per lo sfruttamento delle risorse e il dominio di cose, natura e altri esseri umani. È la fine di questo mondo che forse possiamo anche augurarci, a patto che ci sia lo spazio per appropriarsi di un nuovo sentire dell’anthropos, perché si possano salvare di anthropos quelle qualità davvero uniche che egli rivendica per se stesso – come una capacità di comprensione e ascolto superiore a quella degli altri esseri viventi – e darle in eredità a chi verrà dopo. Perché l’anima preumana e impaurita (Gallerani, p. 10) che fu Neanderthal domani saremo noi.
Riferimenti bibliografici
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