di Antonietta La Manna

 

I ferri del mestiere, rubrica a cura di Antonietta La Manna

 

“Non farò mai l’insegnante, scordatelo!”. Era la frase che ripetevo a mia madre tutte le volte che mi parlava dei vantaggi dell’insegnamento per le donne ed era forse il mio modo di ribellarmi a chi mi voleva in un ruolo che non mi si addiceva, quello di chi dovrà occuparsi di una famiglia, dei figli, di un uomo. Io volevo andare al liceo classico, poi all’università, avrei avuto una carriera e una casetta tutta mia, queste erano le mie proiezioni da adolescente. Quante ne ho beccate? Non ho fatto il liceo classico, sono andata all’università, ho un lavoro che amo, una casa tutta mia e faccio l’insegnante. Ma credo che il motivo per cui non volevo fare l’insegnante fosse soprattutto un altro: “Se fare l’insegnante significa fare ciò che fanno i miei insegnanti, beh no, proprio no”.

 

La mia maestra fino in terza elementare era un vero mostro, la sua pedagogia si basava sulle bacchettate e sulle continue umiliazioni. Io ero tra quelli che amava torturare perché a suo dire chiacchieravo troppo, perché ero lenta quando scrivevo, infatti per lei ero “la lumaca” della classe, perché sbagliavo le doppie. Per correggermi si era inventata il dettato alla lavagna. I miei compagni lo svolgevano sul quaderno: l’umiliazione era la base della sua pedagogia. Mi fa ancora male e orrore il ricordo.

 

Crescendo ho imparato che non sono lenta, ma ho i miei tempi. Non sbaglio più le doppie ma non per merito della mia maestra perché, probabilmente, se mi avesse lasciata in pace avrei smesso molto prima. A lei invece devo la paura di sbagliarle ancora o di scrivere male, anche adesso. Per anni ho sofferto della sindrome da foglio bianco: quando dovevo scrivere qualcosa avevo il blocco, non sapevo dove mettere le mani, alle superiori buttavo giù un paio di concetti e poi li ripetevo con parole diverse fino a raggiungere almeno le due colonne del foglio protocollo, quelle richieste dalla professoressa. Quando ci riportava i compiti osservavo con attenzione gli errori sottolineati con la penna rossa, leggevo il giudizio scritto nel retro ma il voto oscillava immancabilmente tra il 5 e il 5-, sempre. Per tutte e quattro le prove previste in un anno, questo era il solo tempo dedicato alla scrittura che ad alcuni dei miei compagni, quelli bravi, probabilmente poteva bastare, ma a tutti gli altri, inclusa me ovviamente, no di certo. Eppure io amavo scrivere, tenevo un diario dove riportavo le mie gioie e i dolori ma  capitava di rado che rileggessi ciò che avevo scritto, perché temevo il mio stesso giudizio, di solito molto severo. A sedici anni avevo nel cassetto il sogno di diventare scrittrice ma me ne vergognavo anche solo a pensarci.

 

A scuola i miei insegnanti mi avevano trasmesso il concetto che scrivere bene fosse una dote innata, che o ce l’hai o non ce l’hai e così mi ero convinta, o forse mi avevano convinta, di non essere stata baciata dalla fortuna. Credo sia stato  anche a causa del mio rapporto non proprio sereno con la scrittura che all’inizio, quando sono diventata insegnante, mi riducevo ad assegnare una traccia e a rispettare il congruo numero di testi scritti per quadrimestre come veniva richiesto dal dipartimento di Lettere. Poi, però, quando mi trovavo faccia a faccia con le cose scritte dai ragazzi mi assaliva la stessa frustrazione che provavo da ragazzina davanti al foglio bianco e infatti per la maggior parte di essi io non sapevo dove mettere le mani per tirarne fuori qualcosa di soddisfacente.

 

Però mi dicevo: un metodo efficace per insegnare a scrivere senza la presunzione che tutti diventino autori di bestseller ci dovrà pur essere. Mi misi alla ricerca e presto e mi ritrovai fra le mani un libriccino Guida alla prova scritta di italiano di Tullio De Mauro e Stefano Gensini (Le Monnier 1999): in quel manualetto c’erano appunto tanti consigli per imparare a scrivere adeguatamente e in contesti diversi.

Quelli erano i miei primi anni di insegnamento e vivevo una profonda insicurezza, un senso di inadeguatezza e, lo confesso, c’era anche la mia personale ignoranza dei documenti ministeriali: davo per scontato  che quello che facevano gli altri fosse la legge, non mi permettevano né io mi permettevo di osare dicendo a me stessa “non ho tempo, devo finire il programma”. Ancora oggi, quando ci penso provo molta rabbia verso la me di allora. Insomma, nonostante ritenessi l’insegnamento della scrittura un’urgenza assoluta, davo la priorità ad altre cose.

 

Fornivo giusto qualche consiglio, prima delle prove scritte: “fai una scaletta, dividi in paragrafi, dai un titolo”. Mi illudevo che questo potesse bastare.

Come ho già raccontato qui, nel 2017 mi imbatto nel WRW*, writing and reading workshop ed ho subito la sensazione che sia il metodo giusto, adatto a me ma soprattutto alle mie classi. Cosa davvero, ed immediatamente mi ha colpito in questo metodo? La presenza di una struttura rigida, fissa, entro la quale (e l’ho scoperto assimilandone i fondamentali) ci si può muovere comunque in tutta libertà. Che è la libertà di sperimentare. Il laboratorio di scrittura infatti è uno spazio strutturato che poggia su alcuni elementi fissi: “minilesson”, “tempo per scrivere”, “condivisione”, “consulenze” ne sono gli elementi chiave. Da quando le mie classi si sono trasformate in laboratori di scrittura raramente mi capita di vedere studenti bloccati sopra il foglio bianco e quando capita di solito si trova la strategia per uscire dall’impasse. Porto come esempio gli studenti di una Seconda che stanno scrivendo il testo per un podcast. Dopo qualche giorno dall’inizio del lavoro, D. ha ancora davanti il foglio bianco e si mette le mani fra i capelli: allora capisco di dover intervenire, mi siedo accanto a lui, gli chiedo qual è il problema e lui mi risponde “non so di cosa parlare prof”. Gli suggerisco di sfogliare il taccuino in cerca di idee, ma risponde di averlo già fatto senza ottenere nulla. Allora gli chiedo di chiudere il taccuino e di raccontarmi del concorso da barman al quale ha partecipato, arrivando secondo qualche settimana prima, di dirmi come si è svolto e come lui si è sentito, che effetto ha avuto su di lui. Gli si illuminano gli occhi e comincia a raccontare dopo un po’ lo fermo e gli chiedo se non possa diventare proprio quello il contenuto del suo podcast. Allora mi guarda e mi risponde: “Credo sia proprio una bella idea, prof”.

(Qui ricordo che, nel laboratorio, gli studenti sono costantemente accompagnati nel percorso di stesura di un testo, dalla raccolta delle idee fino alla pubblicazione/consegna).

 

Ma come si svolge, in concreto, una sessione di laboratorio di scrittura?

Si inizia con “la poesia del giorno” che è come dire: “preparatevi, si parte”. Qui talvolta, quando ho terminata la lettura, c’è chi mi chiede di ripetere un verso, il significato di una parola, oppure dice: “Prof, non ci ho capito niente”: in questo caso ci fermiamo a riflettere insieme ma il più delle volte si va avanti senza che emergano problemi. (Mi succede anche di sostituire la poesia con un breve articolo di giornale che penso possa essere interessante per i ragazzi).

Si entra quindi nel vivo del laboratorio, mentre ricordo loro il punto in cui c’eravamo fermati nella lezione precedente e poi inizio la “minilezione” (ML) che ho preparato. Ma di cosa si tratta? E’ una lezione frontale (“mini” perché dura dieci o quindici minuti al massimo) dove la docente fornisce dei riferimenti riguardo alla strategia di scrittura (per esempio delle abilità,  procedure ecc).

 

Conclusa la ML, inizia il tempo dedicato alla “scrittura individuale” in cui ognuno lavora al proprio testo. Va detto che nel laboratorio non esistono tracce, ognuno sceglie ciò di cui scrivere, perché per imparare a farlo è bene iniziare da ciò che si conosce, ciò che si è vissuto: qui conta solo ciò che “mi piace”, che “mi sta a cuore, altrimenti si finisce con il concentrarsi più sul cosa che sul come. Perché se sono vincolata a scrivere di un argomento di cui so poco o di cui mi importa molto poco passerò la maggior parte del tempo a chiedermi “cosa devo scrivere?”; se invece parto dal mio vissuto, dalle mie esperienze, da cose che conosco veramente, allora posso dedicarmi a rendere il testo efficace e più coinvolgente per i miei lettori. Il momento della scrittura individuale dura di solito fra i venticinque e i trenta minuti, dopodiché c’è la “condivisione”, cioè il momento in cui qualcuno sceglie di condividere con i compagni e le compagne il lavoro della giornata. Nelle mie classi questo è sempre molto difficile, sento che non lo fanno volentieri perché anche se sono consapevoli di avere maturato un diverso rapporto con la scrittura, temono ancora il giudizio degli altri, la figuraccia: perciò a volte non insisto, lascio stare. Succede comunque che qualcuno alzi la mano prima che io dica “chi vuole condividere?” e mi chiede: “Posso condividere, prof?”. Sono momenti preziosi, che assaporo fino in fondo, perché so che dovrò aspettare chissà quanto prima che succeda di nuovo.

 

Nel laboratorio si scrive un po’ di tutto, dal memoir al testo espositivo e argomentativo, dalla poesia autobiografica alla recensione e alla lettera saggio. Ma, a seconda della classe, si può decidere di sperimentare anche altro: infatti, come ricordavo, nelle mie classi Seconde stiamo lavorando alla stesura di un testo per un podcast.

In Prima, per iniziare, propongo sempre la poesia autobiografica, una tipologia che paradossalmente permette ai ragazzi (soprattutto quelli che hanno un rapporto difficile con la scrittura) di rompere il ghiaccio e di riappacificarsi con la scrittura stessa.

 

In questo caso la procedura parte dalla “immersione nel genere”. Per un paio di settimane leggiamo una serie di poesie autobiografiche di autori vari e di ognuna ci soffermiamo a riflettere soprattutto sul come piuttosto che sul cosa e contemporaneamente costruiamo “territori di scrittura”: si lavora cioè, con una serie di attività, a mettere in serbo idee, suggestioni che potranno servirci nel momento della stesura. Durante il percorso, attraverso le ML, io fornisco  strategie di scrittura come “il verso libero”, “il potere dell’io”, “riduci all’osso”, “organizza il testo in versi e strofe”, “usa l’anafora”, “chiudi con uno scopo”.

 

Di solito si impiegano un paio di mesi, tra ottobre e novembre, per concludere e poi pubblicare:

 

Ero una goccia

ora sono il mare

Ero un seme

ora sono un albero

Ero una parola

ora sono un libro

Ero un fiore

ora sono un giardino

Sono sempre stata qualcosa

anche quando sembravo niente

 

(Nayma, 1ªG)

 

[P.S. WRW è una metodologia nata in America negli anni ‘70 grazie al lavoro di Donald Graves e Donald Murray: Nel decennio successivo, presso la Columba University, è stato istituito il “Teachers College Reading and Writing Project” fondato e diretto da Lucy Calkins. Il lavoro di Graves e Murray pone l’attenzione sul processo più che sul prodotto e cambia il ruolo del docente, che non è tanto un trasmettitore di saperi quanto, a sua volta, un apprendista scrittore che sperimenta strategie e procedure insieme con i suoi studenti.

In Italia il WRW è arrivato grazie al lavoro di Jenny Poletti Riz e di molti altri insegnanti sparse per il paese. (Quando io personalmente ho incontrato il WRW era appena uscito Scrittori si diventa, Erickson, 2017, di Jenny Poletti Riz, unico testo disponibile in lingua italiana.

Con gli anni il metodo si è molto diffuso e si è estesa la bibliografia. Qui mi limito a segnalare i due due lavori per me più significativi: Amano leggere, sanno scrivere (Pearson, 2019) di S. Minuto e E. Golinelli e Lettori e scrittori crescono (Pearson, 2021) di S. Minuto e E. Golinelli]

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