di Linnio Accorroni
Vocali, rubrica a cura di Linnio Accorroni
Caro M.,
nell’ultimo libro di Michele Mari Le maestose rovine di Sferopoli la ‘sezione’ conclusiva è icasticamente intitolata Vecchi cinema: un malinconico catalogo di sale cinematografiche, presenti nella Milano fra i ’60 e ’70 del ‘900, ed oggi del tutto scomparse, o diventate altro- un centro commerciale, un teatro, una libreria- oppure, come nel caso del Capitol, rimpiazzate da celebri monumenti, quale quello di Aldo Rossi per Sandro Pertini. Un frammento esistenziale che non riguarda, però, solo la vita dell’autore milanese, ma aderisce al vissuto di tanti che, come Mari, hanno felicemente sperperato lunghe ore della propria adolescenza e giovinezza in quelle sale cinematografiche dai nomi evocativamente altisonanti. Io, per esempio, con la fregola goduriosa di un topo nel formaggio, mi fiondavo in posti che si chiamavano Alhambra, Splendor, Goldoni, Fenice. Il nome era, di per sé, une promesse de bonheur, una parte dell’incanto che ci aspettava, una volta entrati là dentro, nella caverna magica, luci spente e sigaretta accesa e le figure enormi che prendevano forma e recitavano storie sullo schermo grande. E, immaginificamente, Empire si chiama anche il cinema che è il fulcro generativo di questo struggente Empire of light di Sam Mendes. Del resto, che cosa è il cinema se non un fantasmagorico abbagliante ingannevole Impero della luce? Siamo dalle parti di Margate (Kent) nel 1980, negli anni più cupamente devastanti del thatcherismo. Nel film, l’enorme edificio che conserva, a fatica, solo due delle quattro sale iniziali e che è il luogo da cui tutto ha origine e in cui tutto ha, poi, fine, ha la bellezza rovinosa di un castello arenato da un dio eccentrico e bizzoso su di una spiaggia. Splendidamente impreziosito dalla avvolgente fotografia di Roger Deakins che riveste tutto di una incantata luce crepuscolare, restituendo intatto il fascino decadente tipico di un luogo d’antichi fasti, d’antichi splendori, avviato malinconicamente verso il proprio Finale di partita. Quasi uno Zeitgeist questo che attraversa anche altre opere recenti, se si pensa anche a The Fabelmans di Spielberg o Babylon di Chazelle (ma, prima ancora, Roma di Cuaròn e Belfast di Kenneth Branagh): celebrare con un film l’ennesimo funerale della Settima Arte, attraverso la forma del mémoire– congedo- omaggio.
Ma se nel film di Spielberg tutto era calato nei toni di un melò familistico talmente reiterato da diventare insopportabilmente stucchevole, in quello di Chazelle campeggia (da Camp, ovviamente!) il ricordo caotico e babelico dell’epoca d’oro del cinema muto (la Hollywood- Sodoma e Gomorra degli anni 20). Più sofisticata invece ed intimistica la cerimonia d’addio in questo film di Mendes, più accorati i toni di questo epicedio, da cui balugina, a tratti, la perfezione, la bellezza, la magia che è solo del Grande Cinema. Si pensi alle citazioni dei film dentro il film: al di là dei titoli in programmazione all’Empire (Blues Brothers o quella gioia eterna per gli occhi e per il cuore di All that jazz) vengono evocate opere quali Momenti di gloria e Nessuno ci può fermare, utili a ricostruire The portrait of the artist as young man e cinefilo, ovviamente. Più in particolare, uno dei momenti più struggenti del film di Mendes è dedicato ad una commovente, indimenticabile sequenza da Oltre il giardino con Mr. Chance-Peter Sellers che, come un Gesù autistico, cammina sull’acqua. Ma anche tanta poesia letta e recitata by heart: Tennsyson, Auden ed il Larkin ‘imperdonabile’ di The trees.
La storia principale (ma forse Mendes ha peccato nello stipare dentro Empire of light troppe cose insieme: la stagione orribile dell’Inghilterra sottoposta alle cure della lady di ferro, il razzismo, la malattia mentale, il rapporto intergenerazionale, …) è presto detta: la single Hilary (Olivia Colman) è la direttrice di sala dell’ Empire, soffre di crisi depressive e ha una relazione extraconiugale- poco torrida e molto tossica- con il suo capo, Donald Ellis (un irriconoscibile Colin Firth, farisaico gestore del cinema). L’arrivo di un nuovo dipendente, Stephen (Michael Ward), immigrato di seconda generazione e black-english, cambierà profondamente il corso delle loro esistenze. Ad Hilary, come agli alberi della poesia di Larkin-« Last year is dead, they seem to say,/Begin afresh, afresh, afresh »- si spalanca una insperata possibilità. Ma l’incanto durerà poco. E, se si va al cinema, si scoprirà anche perché. Cos’altro? Amo da sempre Olivia Colman. Mai, come in questo film, la macchina da presa indugia non solo sul suo corpo dalla fisicità naturale, spesso stazzonato in abiti che mortificano la sua prepotente corporeità, ma soprattutto sul suo volto, capace di passare, attraverso infinitesimali frazioni di tempo, da uno stato d’animo all’altro. Solo la figura del protezionista, il grande-piccolo Toby Jones, che spiega al giovane Stephen l’aura irreplicabile del cinema, l’incanto prodigioso dei 24 fotogrammi al secondo, regge il confronto, mentre gli altri personaggi appaiono esili figure di contorno, se paragonati a questa dea giunonica che cattura il nostro sguardo fin dalla prima sequenza e non ci lascia più. Sarà proprio lui, il protezionista filosofeggiante che, felix culpa, farà vedere alla disgraziata Hilary, la direttrice di sala che non aveva mai visto un film al cinema, Oltre il giardino di Hal Ashby. Più o meno, come scrive Mari nel congedo del suo Vecchi cinema: «… si entrava quando si entrava, e il bisbiglio che annunciava ritualmente l’uscita era: ‘ ecco, siamo entrati qui’ ».