a cura di Lorenzo Mari e Gianluca Rizzo
[Qualche mese fa, Lorenzo Mari e Gianluca Rizzo hanno dato avvio un un’indagine, in forma di questionario, sulla valenza sociale della poesia contemporanea. Dopo Ivan Schiavone, risponde oggi, con materiali compositi, il poeta statunitense Charles Bernstein. La traduzione è di Mari e Rizzo].
Dalla nostra corrispondenza con Charles Bernstein:
“Mi rendo conto che alcune delle mie risposte possono sembrare laconiche, ma ci tengo comunque a dare il mio contributo. Risposte alle vostre domande si trovano in molti dei miei libri. Sicuramente non sono noti al pubblico italiano, ma a me non piace ripetere quanto già detto, meglio mantenere un po’ di freschezza. Vi allego una copia del numero di boundary 2: volendo potete citare da lì, per un commento più approfondito.”
Le risposte di Charles Bernstein alle nostre domande:
Qual è la tecnica (intendendo con questa parola portemanteau un insieme di strategie testuali, para-testuali, extra-testuali, etc., che sia almeno parzialmente oggettivabile e condivisibile da un linguaggio critico riconosciuto o riconoscibile) che permette la conservazione e l’elaborazione della relazione tra “io” e “non-io”, dischiudendo così la possibilità di un “noi”? Tale tecnica ha a che fare con l’esplicitazione deittica del “noi”, o può farne a meno, prendendo altre strade?
Noi è un altro, molti altri. Io non è tu e nemmeno me. Questa verità è stata svelata nei Testi Ermetici, anche se poi sono andati perduti molto tempo fa, e il problema è che il fatto che siano andati perduti è un segreto. Spero di non essere io quello che vuota il sacco, ma quando dico io voglio dire loro.
Qual è la tua posizione nei confronti di un “noi” come “pronome politico” in relazione alla tua e/o ad altre scritture?
In poche parole, e com’era solito dire David Antin, sono sicuro che facciamo tutti del nostro meglio.
È possibile concepire una sorta di “immagine dialettica” nella poesia e nella scrittura di ricerca contemporanee?
Sì.
Dato il confronto, che appare ineludibile, con le singole comunità poetiche e i loro contorni che, per quanto labili, si sovrappongono spesso ai contorni delle comunità linguistiche, nazionali o culturali, esiste la possibilità di un confronto transnazionale – propiziato dalla traduzione, ma anche da altre forme di scambio, o anche conflitto, come le digital humanities, l’intelligenza artificiale o anche le nuove forme di scrittura a distanza – che susciti nuove opportunità per il “noi”? A quali esperienze specifiche ricondurresti questo confronto, e con quali prospettive?
Rispetto alla traduzione, la mia risposta è sì. Il recente numero di boundary 2, a cura di Paul Bové e intitolato Charles Bernstein: The Poetry of Idiomatic Insistences, cerca di parlare proprio di questo, attraverso lo studio di un caso singolo. Negli ultimi due decenni il mio impegno si è spostato verso uno spazio dialogico che non è più centrato sulla nazione, anche se è ancora dipendente dall’inglese in quanto lingua parlata in molti luoghi diversi, una limitazione cruciale per il concetto appena espresso. Nonostante tutto, si tratta di una poetica della traduzione, dove la traduzione stessa – o la trans-creazione, per usare la definizione di Haroldo de Campos – è la “materia” fondamentale della poesia.
Le questioni sollevate (politiche, sociali, tecnologiche, antropologiche) trovano articolazione nella tua pratica quotidiana di scrittura poetica e critica? Trovi che alcune di queste problematiche sono più vicine alla tua sensibilità, alla tua poetica?
Sì, e sì.
Si è cercato di tracciare un panorama delle questioni più urgenti partendo dal “noi”: condividi questo modo di descrivere l’interconnessione dei vari problemi sollevati?
Certo. Perché no?
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Materiali
Da C. Bernstein, “Comedy and the Poetics of Political Form” (in C. Bernstein, a cura di, The Politics of Poetic Form: Poetry and Public Policy, 1990):
2.
Non credo che tutte le convenzioni siano pericolose o che tutta l’autorità sia corrotta. Ma penso che sia essenziale sottolineare come alcuni usi delle convenzioni o dell’autorità nascondano il fatto che entrambe sono costrutti storici e non principi generali e immutabili. In effetti, le convenzioni e l’autorità possono, e debbono, essere assoggettate al controllo della polis, e non sono emanazioni del diritto divino dei re o della forza economica del Capitale. In questo senso, parlerei piuttosto della voce fallocratica della verità e della sincerità come di una voce che dissimula la propria parzialità insistendo, invece, sulla propria centralità, oggettività o neutralità, e facendo appello ai valori dominanti; una voce che sceglie l’opportunità a discapito della profondità, la continuità narrativa a discapito del dettaglio, la persuasione a discapito della convinzione. Si tratta di una voce pubblica che si autoproclama costantemente e che implicitamente, quando non anche esplicitamente, si prende gioco delle dis-articolazioni, dei balbettamenti, delle inudibilità, e della devianza linguistica di quei gruppi specificamente segnati come “di parte”. […]
La mia iniziazione a questo tipo di voce “pubblica” è stata il prodotto di una profonda umiliazione e degradazione che non ho potuto fare a meno di subire: un’iniziazione violenta, da scuola privata, alla Grammatica che, una volta padroneggiata, non sono più riuscito a disimparare, ma di cui, come succede a molti altri, sono perennemente sospettoso, nonostante continui a informare l’espressione delle mie (perlopiù fondate) opinioni e convinzioni: l’artificio della mia autenticità.
E quindi, di nuovo, non propongo una qualche voce privata, una qualche immagine vaticinante di sincerità o anche il valore assoluto dell’innovazione come un’alternativa alle voci dell’autorità che non riesco del tutto a scrollarmi di dosso. Il fatto è che sono un ventriloquo, felice come una pasqua di sermoneggiare con accecante fervore sulle corruzioni della vita pubblica con un tono di afflitta onestà, che è tanto una forma di vanità quanto la più formale delle memorie difensive per la quale sono stato preparato dalla mia istruzione. Se i miei loop e i miei cortocircuiti, il mio amore per l’elisione, il mio rifiuto groucho-marxista dell’ironia sono sforzi tesi a far esplodere l’autorità di quelle convenzioni che voglio screditare (e disconoscere), pure continuano a offrirmi la consolante autolegittimazione dell’essere Arte, come se potessi sfuggire alla parzialità della mia condizione semplicemente studiandola. Ma allora la mia arte è fatta soltanto di parole vuote messe su una pagina se, di fatto, non è capace di persuadere, se fa il suo ingresso nel mondo come pura autolegittimazione, o anche autoflagellazione, o anche come ornamento estetico, invece di essere interazione, conversazione, provocazione (sia per me che per gli altri) […]
Una delle intuizioni più rilevanti di Erving Goffmann nell’ultima parte della sua produzione riguarda il fatto che ogni interazione interpersonale dovrebbe essere interpretata come un evento istituzionale e ideologico; le convenzioni, infatti, che sono impiegate a qualsiasi livello, possono essere intese al meglio solo da una prospettiva istituzionale. Questa visione microcosmica dello spazio pubblico suggerisce uno spazio per la poesia che fa andare in cortocircuito quelle voci al limite dell’idiozia che ormai almeno una volta al mese si lamentano della perdita di prestigio o di pubblico di cui soffrono gli scrittori “seri”. Questo equivoco ripetuto, che riguarda tanto la storia della ricezione della poesia negli Stati Uniti e in Gran Bretagna, quanto il significato della parola “pubblico”, è un’istanza clinicamente precisa di una particolare immagine che ci tiene prigionieri, per usare l’espressione di Wittgenstein, e ci indirizza quindi, ineluttabilmente, verso una medesima conclusione.
Ciò di cui ci si deve dispiacere, invece, non è l’assenza di un pubblico di massa per un qualsiasi poeta, ma piuttosto l’assenza di un pensiero poetico che sia, per tutti, una potenzialità realizzata. In un’epoca di catastrofe ecologica come la nostra, quello che sosteniamo è che le riserve naturali non debbono essere soltanto preservate ma anche ampliate, a prescindere dal numero di macchine che vengono parcheggiate a meno di due miglia da quei luoghi protetti. In altre parole, l’effetto di quelle riserve naturali non è misurabile in termini di pubblico, bensì come rigenerazione della terra, che è un beneficio per tutti noi che l’abitiamo – per il bene tanto del nostro inconscio collettivo quanto della nostra coscienza collettiva. Non sono mai stato in Alaska, ma il fatto che l’Alaska esista fa, anche per me, tutta la differenza di questo mondo. Non è necessario che i poeti siano letti, proprio come per gli alberi non è indispensabile sedercisi sotto, perché le emissioni nocive della società diventino qualcosa di respirabile. Chi fa poesia influisce sulla sfera pubblica un lettore alla volta, grazie alla poesia stessa, ed esercitando la sua prerogativa sulla scelta di quali forme collettive deciderà di legittimare. La forza politica della poesia non si misura coi numeri; piuttosto ci insegna a contare in modo diverso.
da “Poetics of the Americas” (Modernism/modernity, 3.3, 1996):
Non deve sorprendere che le concezioni più statiche delle identità di gruppo, rappresentate da portavoce autentici, continuino a calpestare opere e individui dalle identità complesse, multiple, miste, confuse, iperattivate, meticciate, sintetiche, mutanti, in corso di formazione o anche virtuali. Il punto è perseguire la natura dialogica e collettiva della poesia senza necessariamente definire la natura di questa collettività – la si chiami pure una collettività virtuale o anche… “questa nuova e comunque inavvicinabile America”[1]: una collettività che è irrappresentabile, e che pure continua a farsi avanti.
L’invenzione di una poesia idioletticamente inglese come “poesia delle Americhe” implica la sostituzione delle categorie, fondate sulla nazione e sulla geografia, di poesia inglese (o spagnola) non tanto con una categoria di “poesia americana” che sarebbe altrettanto essenzialista, ma con un campo di potenzialità, un’America virtuale verso la quale ci avviciniamo, ma che non possiamo mai possedere completamente.
[F]orse quello che stiamo ascoltando [in questi anni] è una scrittura che si muove oltre le attuali definizioni e iscrizioni delle identificazioni individuali e collettive, verso un’identità a venire, o virtuale, verso cui puntano tutte queste confusioni e commistioni, o meglio, queste confabulazioni; come se questa scrittura lasciasse debito spazio alle multiformi proiezioni di chi legge.
Dalle interviste incluse in boundary 2 (48.4, 2021)
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Penso alla poesia come a una conversazione: non soltanto l’espressione di una voce isolata, ma una voce che si mette al servizio di altre voci, in dialogo tra loro. La poesia esiste in forma di costellazioni. Per capire quali sono gli obiettivi raggiunti da ciascuno di noi, bisogna leggere tutto quel che viene prodotto, per comprendere non solo i contesti sociali o storici, ma anche i diversi approcci adottati da ogni singolo poeta. Chi li legge separatamente li sminuisce o li banalizza. Il mio lavoro prende corpo da quello di interpreti radicali del modernismo come Gertrude Stein, William Carlos Williams, Louis Zukofsky, Charles Reznikoff e Laura Riding. Nonché la generazione della “New American Poetry”: Jackson Mac Low, Robert Creeley, Larry Eigner, Barbara Guest, Jack Spicer, Hannah Weiner, James Schuyler, Charles Olson, e molti altri. Potrei fare un elenco che va avanti all’infinito, composto da tutti i poeti di cui ho scritto o che insegno. Ad ogni modo, per tornare al punto: i poeti con i quali ho a che fare formano una serie di raggruppamenti interconnessi. E, per la maggior parte, si tratta di poeti che hanno lavorato (o che lavorano) fuori dal mainstream, fuori dalla Cultura Poetica Ufficiale. Imparo continuamente qualcosa dalle modalità con cui questi poeti ripensano la relazione tra rappresentazione e linguaggio, significato ed espressione, voce e voci, senza per questo pensare che questi temi siano pacificati, ma pensandoli, anzi, come in conflitto… in rapporto dialettico.[2]
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«‘Quella necessità più forte’ di andare avanti sempre in / un posto nuovo, in circostanze diverse: / & comunque sembra che ancora non siamo cambiati»[3].). Sono versi che ho scritto quarant’anni fa in uno dei miei primi libri, Senses of Responsibility (1979, quando ero giovane e immaginavo me stesso nel futuro. Ma mi sento così anche adesso. Le cose cambiano, e io sono cambiato. Come poeta, però, ho resistito all’idea di dover progredire. Cerco di stare a galla più furiosamente che posso, in modo, almeno, da non affogare. Ma poi affogo… e successivamente torno alla vita – è così che immagino la poesia! – uguale a me stesso… però diverso. Adoro l’espressione beside myself (fuori di me), che può essere detta nell’estasi o nella paranoia, ma restando next to oneself (accanto a sé stessi), in compagnia di sé stessi nei viaggi della vita. Forse, allora, la mia visione della poesia non è affatto cambiata, ma sono sempre alle prese con nuove circostanze e quindi scrivo poesie che affrontano tali momenti. Per dirla in un altro modo, la mia poesia ha sempre riguardato il cambiamento e come incarnarlo: è tipicamente atipica. Voglio dire, non ho uno stile singolo, bensì multiplo, composto da stili contraddittori anche tra di loro, anche all’interno di uno stesso libro. Uno diventa molti. Ma anche una cosa del genere diventa, a suo modo, tipica. Che cosa chiede la società alla poesia, oggi? Cosa può offrire la poesia? Nulla. Il che può essere il vantaggio più grande, per la poesia: non offrire nulla e non accettare nulla come risposta. Vale a dire – e mi rendo conto che stiamo parlando di qualcosa di immaginario! – che la poesia offre un luogo non-strumentale dove il linguaggio non è al servizio di storie, personaggi, messaggi o di significati preesistenti, ma dove il centro è il linguaggio stesso: i suoni, le metafore, i ritmi, i giochi di parole. È la performance del linguaggio in relazione ai molteplici piaceri che può fornire. E questo significa che io trovo il significato della poesia mentre la scrivo, così come il lettore ne trova il significato mentre la legge: un significato che non esiste in una forma indipendente dall’esperienza estetica. Come ha scritto William Carlos Williams: No one / will believe this / of vast import to the nation. (Nessuno / crederà che questo sia / di grande rilevanza per la nazione).[4]
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Lo scambio [tra contemporanei] ha a che fare con un’estraneità comune[5], non con una somiglianza comune, ma anche con la simultaneità delle condizioni culturali, e con le congiunzioni storiche, le tradizioni e gli incontri. Alcune delle nuove tecnologie di scambio per la scrittura (email, traduttori automatici, social media) rendono possibili modalità di traduzione diverse da quelle finora conosciute. Basta confrontarle, ad esempio, con gli scambi epistolari tra USA e Russia ai tempi dell’Unione Sovietica.
Mentre valorizziamo le differenze linguistiche, culturali ed economiche, esistiamo anche all’interno di alcuni “non-spazi” – il web e i social media, di nuovo, ma anche l’economia transnazionale. La traduzione, di conseguenza, dovrebbe avere di nuovo un ruolo fondamentale… Come strumento? Come strumento, e anche come medium, perché dobbiamo reinventare il significato della “traduzione” e le modalità con cui essa consente di istituire uno scambio tra contemporanei… Invece di concentrarci su un singolo poeta che traduce un altro singolo poeta (spesso più anziano o già appartenente alla storia), perché non avviare una traduzione collettiva di un contesto creativo articolato che includa diversi poeti, traducendone le poesie ma anche le poetiche? Uno scambio del genere sarebbe più avvincente e potrebbe trovare un riscontro più ampio su entrambe le sponde. Molte persone sono già coinvolte nella cultura poetica che esiste in un luogo specifico, a San Pietroburgo o a New York. La traduzione tende a perdere di vista la base per concentrarsi sulla sovrastruttura. Questo non vuol dire che quella sovrastruttura che porta a individuare singoli poeti non sia in sé valida, ma il fatto di tradurre un contesto più ampio, che consenta allo scambio stesso di avere luogo, potrebbe essere più interessante. Altrimenti, è come prendere solo la panna che c’è in cima e perdere, così, tutto il latte.
[…]
Il web crea certamente nuove possibilità di scambio, ma l’innovazione tecnologica crea anche, in egual misura, problemi e opportunità. In poesia, il dominio sul web della lingua inglese, o, comunque, di quattro o cinque lingue sulle altre, è un buon esempio di vittoria dimezzata: è un’ondata globale, la cui risacca porterà molte lingue ad annegare o ad aver bisogno della respirazione bocca a bocca. È per questo motivo che, come contromisura, la traduzione diventa ancora più importante nella nostra epoca digitale. Le traduzioni possono essere eseguite più rapidamente e godere di maggiore mobilità che in passato. Per fare un esempio, quel che mi immagino (o almeno, quello che sto aspettando) è che le collettività di giovani poeti si traducano a vicenda, come forma di scambio quotidiano. Questi sforzi collettivi potrebbero contrastare il modello del Grande Poeta, secondo il quale si tende a leggere i singoli poeti astraendoli dall’ambito nel quale operano, spesso a detrimento di quegli stessi poeti che vengono ad essere così individuati in mezzo alla folla (a volte per ragioni buone, a volte per ragioni cattive). Intendo dire che, per capire se una poesia o un poeta sia “grande”, è necessario avere un’idea dell’intero campo e delle forme di scambio, dalle pubblicazioni alle performance, che vi hanno luogo. Il campo della poesia – si può chiamare “tradizione” se la si pensa in modo diacronico, ma il modo sincronico è altrettanto significativo – è la base entro la quale trovano poi articolazione le singole poesie. Quest’attività della poesia è dunque – ontologicamente! – più significativa di ogni singola grande poesia o poeta.
[…]
Mi piacerebbe provare, perlomeno provare, a immaginare le nuove forme web-based di traduzione come socratiche. La traduzione, in altre parole, non fornisce una serie di risposte – nella forma di una sintesi accurata del significato – ma una serie di reazioni: la traduzione come conversazione, non come relazione padrone/schiavo, originale/copia. L’uso aperto, non predeterminato, dei file sonori, le traduzioni omofoniche o le traduzioni automatiche, le traduzioni collaborative avrebbero lo stesso statuto delle traduzioni “fedeli”. Non si tratterebbe, quindi, di traduzioni infedeli, ma di un tipo diverso di fede, più vicina alla scommessa di Pascal.[6]
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Immagina una poesia che procede dalla fusione di linguaggi incompatibili, e inconsolabili, e che conduce a un collage di tipo frankensteiniano. Tempo fa le ho dato un nome: “disrafia”. La disrafia è una fantasia della poesia delle Americhe. In questo nuovo mondo portiamo il carico, le ferite, gli incantesimi del vecchio. Ad ogni scintilla di luce (e sono infinite), siamo risospinti nel calderone della materia oscura della nostra storia di violenza, nel quale ribollono gli echi delle lingue estinte o scarsamente parlate. Alla disrafia si oppone quella poesia “di alto profilo” che si appropria dell’innovazione estetica (rendendola, inoltre, appropriata) al servizio della crociata per l’assimilazione culturale e per l’autenticità dell’espressione. Questo tipo di poesia ambisce a elevarsi sopra il caos, disprezzando trionfalmente il mosaico-patchwork e aspirando, invece, agli attestati di merito codificati. Ci ritroviamo con un che si traveste da super-io: un mulo che si dà delle arie. Da una parte, appropriazioni, collage, disgiunzioni, opacità, dialettalismi, multilinguismi, forme inventate, poliversità – tutte le forme della xenofilia – danno conto dell’urgenza delle condizioni culturali esistenti. Dall’altra parte, la purezza è una fantasia il cui oggetto del desiderio è strettamente legato alla xenofobia. La poesia “di alto profilo”, allora, è come un preside che ti impedisce di entrare a scuola perché non indossi la divisa giusta (divisa che può benissimo essere una giacca, ma anche un jeans). Sto pensando a quell’attitudine sdegnosa che ancora oggi accoglie la caotica e rumorosa poesia di invenzione. I morti parlano, ma non li si può sentire, se si ammette soltanto un inglese piano e senza inflessioni.[7]
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Chi parla in una poesia? Non “chi”, ma “che cosa”. E quel “che cosa” è una costellazione di voci, e allo stesso tempo è un linguaggio senza voce. Dare voce a chi non ha voce è uno shibboleth di molta della poesia di oggi, il che è ammirevole, ma il rischio è sempre quello di imporre la nostra voce su chi non ne ha. Come ha scritto R. W. Emerson, “in sella ci stanno le cose e sono loro a cavalcare il genere umano”. Molta della “voce”, nella nostra cultura, è la voce delle merci, delle persone che parlano come se fossero merci. Il che equivale a dire che noi, la maggior parte di noi, per la maggior parte del tempo, siamo alienati da noi stessi. So di non essere il solo a considerare robotica buona parte del linguaggio che sento in bocca agli altri. Mi rendo conto di sembrare condiscendente, ma molte delle voci che sento in giro mi fanno paura. Non penso che parlare con naturalezza o sincerità sia una soluzione; non è l’unica, almeno. Cosa succederebbe se sospendessimo l’illusione delle “voci” e guardassimo al linguaggio come a un costrutto? A quel punto, forse, a contare sarebbero non tanto le parole o il parlante, quanto il lettore o l’ascoltatore. Naturalmente, chi legge/ascolta non è molto più libero di me o di te. Ma questo approccio è comunque un modo per lavorare con la poesia come spazio immaginario per la riflessione e la proiezione, un momento esterno all’esercizio della parola più smaccatamente quotidiano e utilitarista.[8]
Note
[1] Il riferimento è al titolo del saggio di Stanley Cavell, This New Yet Unapprochable America (1989).
[2] Intervista con Romina Freschi, Buenos Aires, giugno 2005 (originariamente pubblicata in Plebella, 6, 2005).
[3] «‘That harsher necessity’ of going on always in / A new place, under different circumstances: / & yet we don’t seem to have changed» (C. Bernstein, Sense and Responsibility, 1979).
[4] Intervista con Mariano Peyrou (originariamente pubblicata su El Mundo, 2020).
[5] Il riferimento è al saggio di Jacob Edmond, A Common Strangeness: Contemporary Poetry, Cross-Cultural Encounter, Comparative Literature (2012).
[6] Intervista con Natalia Fedorova, Mosca, 2013 (originariamente pubblicata su Translit, 2013).
[7] Intervista con Alí Calderón, Messico, gennaio 2018 (originariamente pubblicata su Círculo de poesía, 2018).
[8] Ibid.
Segnalazione
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Poesia e presente
http://www.poliscritture.it/2023/03/15/poesia-e-presente/
Segnalazione
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MOLTINPOESIA APPUNTO 2: Vengo a sapere di Charles Bernstein
https://moltinpoesia.blogspot.com/2023/03/moltinpoesia-appunto-2-vengo-sapere-di.html