di Alessandra Ginzburg
Intervista a cura di Anna Baldini
Alessandra Ginzburg (1943) ha studiato letteratura francese con Francesco Orlando e Arnaldo Pizzorusso; è psicoanalista didatta della Società Psicoanalitica Italiana e membro della International Psychoanalytic Association. Studiosa di Ignacio Matte Blanco, ha sviluppato in diversi scritti l’applicazione clinica delle sue ipotesi teoriche. Nel 2011 ha pubblicato Il miracolo dell’analogia. Letteratura e psicoanalisi[1], una raccolta di saggi su Proust, Kafka e altri autori che mette in luce l’apporto che la letteratura può ancora offrire alla psicoanalisi].
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Il suo libro parte dal presupposto che la letteratura abbia ancora molto da insegnare alla psicoanalisi. I diversi saggi che lo compongono mostrano come in alcune opere letterarie sia possibile rintracciare un modello di funzionamento della mente che sembra anticipare alcune teorie psicoanalitiche post-freudiane, e in particolare quelle di Armando Ferrari e Ignacio Matte Blanco [2]. Partirei da quest’ultimo, che mi sembra il paradigma teorico più impegnativo. Secondo Matte Blanco, l’inconscio non è soltanto il deposito delle rimozioni, ma anche, e soprattutto, uno spazio mentale in cui vige una logica alternativa a quella di cui facciamo uso coscientemente. Matte Blanco definisce “simmetrica” questa logica “altra”, in quanto è fondata sulla reversibilità di ogni proposizione e ignora il principio di non contraddizione; lei ne ha individuato un’intuizione e una rappresentazione narrativa nell’opera di Proust.
Quello che mi ha molto colpito, studiando la Recherche, è il fatto che Proust, pur senza avere probabilmente alcuna conoscenza diretta del lavoro di Freud, sia andato anche più in là nella sua auto-osservazione delle emozioni, del sogno, e in generale del funzionamento della mente. Nelle sue analisi dell’amore, del dolore e del mondo onirico, Proust descrive un mondo governato dai principi della logica simmetrica individuati da Matte Blanco: quando il narratore della Recherche ci racconta l’intercambiabilità degli oggetti d’amore, quando sovrappone la nonna e Albertine, quando parla del «fantasma remoto e collettivo della donna che suscitava la mia gelosia» [3], ci sta dicendo che le emozioni non si mettono in relazione con i singoli individui, ma che l’inconscio tratta piuttosto con una classe di persone legate tra loro da un un’analogia, da una funzione proposizionale che definisce quella classe. Per l’inconscio profondo l’analogia è un’identità: all’interno di una classe tutti gli oggetti diventano identici e intercambiabili. Gli esseri amati dal narratore sono perciò un prodotto della sua soggettività, che modella e se necessario forza la realtà esterna per renderla il più possibile somigliante ai prototipi interni elaborati nel corso della storia emotiva. Ogni volta che conosciamo qualcosa attraverso i principi della logica simmetrica, che sono quelli che governano le nostre emozioni, in realtà conosciamo noi stessi, i nostri assetti interiori.
Anche Ferrari pone al centro del proprio lavoro l’emozione, che costituisce il passaggio intermedio nella continuità che lega le sensazioni corporee al pensiero. Ferrari ritiene che la mente si generi dal corpo, e interpreta l’Edipo come un processo che dura per tutta la vita: un’evoluzione che lei ha rintracciato nella Lettera al padre di Kafka.
La Lettera al padre esemplifica bene l’idea di Ferrari che l’identità si fonda sul rapporto con la fisicità, che sia la traduzione della relazione tra mente e corpo. Il corpo è il primo oggetto della mente, che si sviluppa per mettere ordine nel flusso marasmatico delle sensazioni, ed in questo processo è fondamentale il modo in cui la madre presenta il corpo al bambino. La connessione tra mente, percezioni ed emozioni ha perciò a che fare con le figure parentali: dipende sia da come vengono introiettate durante l’infanzia, sia da come sono rielaborate successivamente, e in particolare durante l’adolescenza, che costituisce una vera e propria seconda nascita, in cui bisogna fare di nuovo i conti con il corpo e a quel punto anche con l’identità di genere. Ho ritrovato questi passaggi nella Lettera al padre, e ho cercato nel mio saggio di riordinare la narrazione di questo processo enucleando l’evoluzione delle figure della madre e del padre, della relazione tra corpo e mente (di cui Kafka parla diffusamente, perché era un problema che lo assillava molto), infine il tema della separazione dalla famiglia interna come momento dell’individuazione. Questa sembra compiersi per Kafka solo all’ombra della morte, e forse proprio perché lo scrittore sta morendo: solo allora si concede una possibilità di vita lasciando Praga, la “mammina con gli artigli”. In quel momento, e misteriosamente, abbiamo anche gli indizi di una riconciliazione con il padre – penso a quelle ultime righe incerte, che mi hanno sempre molto commosso, in cui Kafka, che già non era più in grado di parlare, esprime il desiderio di andare a bere una birra insieme al padre…
Trovo illuminante questa idea di una condizione edipica che dev’essere continuamente rivisitata, che si modifica nel tempo, che non è data una volta per tutte come per Freud, per il quale l’Edipo è qualcosa con cui bisogna fare i conti all’inizio della vita o mai più. Il modello di Ferrari è invece molto flessibile, consente di ripensare continuamente anche l’identità di genere attraverso le vicissitudini della relazione con il corpo. Il corpo diventa un elemento fondativo del rapporto con le emozioni, è attraverso il corpo per esempio che molte emozioni vengono rifiutate – di qui mi è venuta l’idea di leggere i personaggi di Jekyll e Hyde come figura della relazione della mente con la corporeità.
Nel libro, in realtà, ci sono due letture del Misterioso caso del Dr Jekyll e di Mr Hyde: se in una lei interpreta l’opposizione interdipendente dei due personaggi come, appunto, figura della relazione tra mente e corpo, nell’altra la dualità diventa quella tra pensiero simmetrico e a-simmetrico. Mi sembra importante che questi saggi “gemelli” siano contenuti nello stesso libro: la loro giustapposizione mette in luce la consonanza profonda delle teorie che lei ha scelto per guidare la sua indagine. Sia Matte Blanco sia Ferrari presentano un’immagine duale dell’essere umano, ed entrambi vedono l’emozione come snodo, come mediazione tra due entità poste in «antinomia costitutiva» (come la chiama Matte Blanco): per Ferrari, le emozioni mediano tra la mente e il marasma delle sensazioni corporee; per Matte Blanco il pensiero “logico”, diurno, cosciente tende a sprofondare nella simmetria quando viene sollecitato da forti emozioni. Mi ha colpito molto che lei metta al centro della sua analisi proprio le emozioni, e che ribadisca più volte che l’arte ne è il «luogo privilegiato di espressione» [4], essendo la creazione artistica la migliore traduzione della multidimensionalità e indivisione del modo di essere simmetrico in termini accessibili al pensiero a-simmetrico.
Un aspetto che mi ha sempre molto colpito del pensiero di Matte Blanco è la sovrapposizione di inconscio ed emozione – non che Matte Blanco dica che sono la stessa cosa, ma individua gli stessi princìpi logici nell’uno e nell’altra. Noi viviamo consapevolmente le nostre emozioni, ne possiamo afferrare alcuni aspetti, ma quanto più sono intense tanto maggiormente risultano intrise di logica simmetrica. L’inconscio non rimosso ne è il fondo, non conoscibile direttamente perché tende verso l’indivisibilità: per come lo vediamo manifestarsi ad esempio nei sogni, intuiamo che i principi che lo strutturano – quello di generalizzazione e quello di simmetria– finiscono per dissolvervi ogni separazione, perfino quella tra soggetto e oggetto. La logica simmetrica può assumere perciò aspetti inquietanti, come nel racconto di Hoffmann L’uomo della sabbia, che esprime bene il volto angoscioso del simmetrico, quando si va verso un’identità che diventa delirio, in cui tutto diventa identico a tutto. L’altra faccia del simmetrico, che mi affascina, è invece quella della creatività, della possibilità di moltiplicare all’infinito le rappresentazioni. L’indivisibilità diventa infinito nel momento in cui si cerca di tradurla in pensiero; il concetto di infinito – anche quello matematico – è una struttura bi-logica, in cui convivono la logica “classica” e quella dell’inconscio, è il risultato di una a-simmetrizzazione della dimensione di indivisione caratteristica del funzionamento simmetrico. Ho ritrovato in Kafka questa traduzione della logica simmetrica in infinito: l’universo del Castello è un infinito chiuso, in cui tutti gli elementi rimandano sempre allo stesso tema, figura di una vasta classe che comprende il potere, la divinità, il padre.
In un paragrafo molto denso del suo libro, lei descrive il processo di genesi dell’opera d’arte come la creazione, appunto, di una struttura bi-logica che affonda le radici in un’esperienza emotiva fondante: «situazioni […] intensamente impregnate di significato emotivo si prestano, analogamente a quanto avviene nei sogni, a costituire un nucleo di forte densità simmetrica che può diventare fonte di creatività soltanto quando l’evento simmetrizzato viene “tradotto” asimmetricamente dalla mente in quei contenuti che trasformano potenziali aree di fragilità in incondizionate possibilità espressive» [5].
L’opera d’arte nasce dal profondo delle emozioni, dal loro alveo più profondamente simmetrizzato, che spesso si è cristallizzato a seguito di un trauma, come nell’opera di Proust il bacio della buonanotte o in quella di Kafka la notte in cui il bambino viene lasciato dal padre sul ballatoio fuori di casa. Quell’esperienza traumatica si cristallizza al di fuori del tempo, e può dare origine a un’infinità di possibili varianti isomorfiche. L’isomorfismo è un concetto chimico, che indica la precipitazione analoga di principi diversi, ma è anche un concetto più generico, che ha a che fare con la corrispondenza termine a termine, come quella che si stabilisce per esempio tra le dita delle mani. Nella mia esperienza clinica ho sperimentato che alcuni pazienti molto in difficoltà trovano un modo per comunicare stabilendo inconsciamente delle relazioni isomorfiche tra ciò che li riguarda intimamente e film, romanzi, storie – è come se l’inconscio scegliesse con grande acume ciò che in quel momento può risultare più significativo per restituire la loro situazione interiore.
Ma torniamo a Kafka. Ho individuato nella sua opera la traduzione isomorfica di una rappresentazione nucleare – io sto sul ballatoio, mio padre mi ha chiuso fuori – in forme che diventano sempre più complesse: l’infinita distanza dalla figura paterna diventa l’infinita distanza dell’imperatore dal suddito, della legge che non si riesce mai ad avvicinare, la circolarità senza fine del Castello al quale non si arriverà mai. In Proust il nucleo di condensazione delle emozioni è invece il senso del bambino piccolo di essere escluso dalla coppia, le fantasie preedipiche sulla madre che sta con il padre, che diventano il prototipo di tutte le gelosie e di tutte le rappresentazioni in cui l’essere amato è visto come preda di un “festino infernale”. Ci tengo però a essere chiara su questo punto, perché non vorrei essere fraintesa: l’esperienza da cui si generano le traduzioni isomorfiche non deve essere considerata come un aneddoto biografico, ma come un elemento della storia emotiva dell’individuo che cristallizza certe emozioni e le rende così cogenti che possono poi essere riformulate e riformulate per tutta la vita. Il mio essere psicanalista mi porta a prestare attenzione al mondo delle emozioni, a ciò che lo caratterizza sotto forma del ritorno di alcune costanti, ma non mi interessa analizzare l’autore, anzi, mi sento molto distante da quel tipo di uso della psicanalisi. Non sono partita dalla biografia ma dal testo, dal ritrovamento di costanti che non sono tematiche ma sono funzioni proposizionali, qualità significative che definiscono stati d’animo e relazioni interpersonali.
La sua idea sarebbe dunque quella di rintracciare nei testi un modello del funzionamento emotivo dell’autore, per poi ritornare al testo. La mia impressione è però che, prima ancora che comprendere meglio i singoli testi, qui sia in gioco qualcosa di ancora più importante: una migliore comprensione della genesi dell’opera letteraria, dell’opera d’arte, del processo creativo.
Non mi sono proposta esplicitamente questo obiettivo, anche perché il libro non è nato omogeneamente, i saggi sono stati scritti in momenti diversi e per occasioni diverse. Però vi sento un’unità di fondo, e forse consiste proprio in questo: la genesi dell’opera d’arte all’interno dell’inconscio e delle emozioni, in esperienze che, nel momento in cui non se ne è travolti, possono generare conoscenza, possono arricchirci.
In alcuni punti del libro lei accenna anzi alla possibilità che il processo creativo abbia una funzione auto-terapeutica. Forse il passo in cui questa ipotesi è formulata più chiaramente è nel saggio su Elsa Morante: «l’immaginario della Morante mi sembra utilizzare la creazione artistica […] per rappresentare una relazione che ribalti queste premesse dolorose nel loro contrario, fino a generare un’esperienza autocurativa» [6].
Parlerei di auto-cura nel senso in cui Proust dice che i libri curano, che aprono porte che non avremmo mai attraversato altrimenti. Il mio sforzo è stato proprio quello di rintracciare questa sapienza della letteratura, che mi è sembrata tanto più significativa in autori che non potevano conoscere l’opera di Freud, ma non solo: nel caso della Morante, per esempio, ho trovato molto più interessanti gli appunti sui sogni e le considerazioni su di sé che la scrittrice faceva spontaneamente, rispetto alla banalizzazione della vulgata freudiana che ogni tanto compare nella sua opera, dove appare come un’inserzione rudimentale, qualcosa che le è giunto da fuori ma non è parte del suo pensiero – i prodotti posticci introdotti dalla psicanalisi si riconoscono. Proust e Kafka invece erano contemporanei di Freud, e sono arrivati a intuire cose che anche lui stava intuendo, per giunta avvalendosi dello stesso strumento: l’indagine su di sé. Come lui hanno aperto dei tragitti che non erano mai stati esplorati così a fondo: Proust nella discesa dentro di sé, Kafka nella rappresentazione dell’infinito isolamento, dell’infinita mancanza, dell’infinita distanza della legge rispetto all’individuo, del padre rispetto al figlio, della divinità rispetto all’umano.
[Testo inedito]
[1] A. Ginzburg, Il miracolo dell’analogia. Saggi su letteratura e psicoanalisi, Pacini, Pisa 2011
[2] A. Ferrari, L’eclissi del corpo, Borla, Roma 1992; A. Ferrari, L’adolescenza, la seconda sfida, Borla, Roma 1994; A. Ferrari, L’alba del pensiero, Borla, Roma 1998; I. Matte Blanco, L’inconscio com insiemi infiniti. Saggo sulla bilogica [1975], Einaudi, Torino 1982; Id., Pensare, sentire, essere, Einaudi, Torino 1995.
[3] M. Proust, All’ombra delle fanciulle in fiore, trad. di G. Raboni, Mondadori, Milano 1983-93, vol. I, p. 634.
[4] Ginzburg, Il miracolo dell’analogia, cit., p. 16
[5] Ivi, p. 65.
[6] Ivi, p. 186.
[Immagine: kattwo, Sigmund Freud Knows (gm) – http://kattwo.deviantart.com/art/Sigmund-Freud-knows-123764983].
Bellissima intervista, piena di idee. La giornata incomincia bene.
Il libro di Alessandra Ginzburg – così come l’intervista di Daniela Brogi- sono molto utili: riaprono la partita del confronto tra psicanalisi e letteratura, questione che sembrava da tempo ristagnare, nonostante il fatto che in Italia abbiamo avuto il più brillante e originale fra i critici e teorici della letteratura che abbiano utilizzato a fondo la lezione di Freud: Francesco Orlando.
Sollevo – a beneficio della discussione collettiva – qualche interrogativo che ho rivolto anche all’autrice in occasione di una pubblica presentazione de Il miracolo dell’analogia a Siena.
Se la letteratura ha perduto buona parte del suo prestigio nel sistema culturale e formativo dell’occidente, (il ruolo di “narrare” nel postmoderno è deputato alla cultura mediatica, all’intrattenimento di massa e al marketing) paradossalmente si è fatto strada un nuovo interesse per le modalità letterarie (es. per la narrazione) da parte di studiosi di molte altre discipline (neuroscienziati, giuristi, storici hanno manifestato nuovo interesse per la retorica e per la rielaborazione funzionale dell’esperienza, per la narratività e per l’invenzione di mondi). Questa contaminazione può esser variamente letta come il segno di una fine (a esempio, la condizione postuma della letteratura nella costipazione dell’immaginario delineata in Italia da Ferroni) o viceversa di una postmoderna paradossale vitalità dei campi aperti dell’immaginario, grazie a “convergenze” (Convergenze è appunto il titolo dell’ultimo libro di Ceserani) .
Questa colonizzazione dell’immaginario (con forte impatto erosivo sull’istituzione letteraria) ha forti connotati psicanalitici: quello che è stato chiamato “surrealismo di massa” (Franco Fortini) ha determinato un rifluire delle epifanie individuali e di una temporalità puntiforme nella sfera del marketing e della mercificazione dell’inconscio.
Anche in campo psicanalitico, si può oscillare fra senso della fine e aperture più ottimistiche: un lacaniano (che ha anche interessi letterari) come Massimo Recalcati a esempio nel suo fortunato L’uomo senza inconscio, ha sottolineato come nel Postmoderno liquido o fluido, il Padre evapora e dilaga il narcisismo, l’io diventa più vulnerabile , decade il super-io, vien meno l’autorità paterna tipica del Moderno (coi suoi correlati di censura, minaccia…): si istituiscono isole autistiche dentro la liquefazione diffusa: l’aspetto caotico e infernale della ripetizione pulsionale.
Abitata da una sorta di principio Speranza appare invece la funzione della Letteratura e dell’immaginario delineate nel libro di Alessandra Ginzburg : la letteratura sembra depositaria di una funzione terapeutica, a partire dalla rappresentazione dell’infinito o dell’analogia o della simmetria che ci abita.
In fondo, però, anche gli psicologi cognitivisti attribuiscono al cervello la possibilità di sdoppiarsi, di costruirsi situazioni immaginarie, e i neuroscienziati ragionano sul racconto come costruzione del se’, fondamentale nell’evoluzione della specie homo. Raccontare serve all’allenamento e sperimentazione e previsione di situazione complesse. Cosa differenzia la prospettiva teorica di Alessandra da questa linea interpretativa del “narrare”?
Poiché la letteratura è (è stata?) una forma (di ritorno del represso) e un codice socialmente istituzionalizzato, come ‘gioca’ questa liberazione/riconoscimento biograficico/individuale con la dimensione sovraindividuale, collettiva, dell’immaginario?
Si può confrontare questa funzione “alta”, terapeutica, dell’immaginazione e formalizzazione letteraria a quella ipotizzata da Francesco Orlando, secondo il quale l’ideologia può entrare in un’opera letteraria «con piena validità estetica solo in forma di ritorno del represso». In ogni incontro di un lettore con le contraddizioni illuminanti e vitali di un’opera vi è l’incontro con il rimosso delle società: un rimosso che è spesso fonte di nevrosi, dolore e di lutti, ma che, socializzato, riconosciuto e “grammaticalizzato”, può alludere a un “barlume di festa”, e cioè alla gioia di identificarsi negli altri fino a sentire come meno dolorosa la nostra stessa morte individuale.
Riconoscere che (grazie alla nozione di formazione di compromesso, di figuralità, come esito dello scontro di forze, psichiche e sociali) un grande testo controriformista – mettiamo la Gerusalemme di Tasso – gode e partecipa del codice erotico rinascimentale nell’atto stesso di dichiararlo empio, o che un grande testo illuminista, mettiamo Le lettres persanes di Montesquieu, – implica due livelli di lettura, il primo più palese, una critica ironica all’antico regime, il secondo più nascosto, un segreto piacere e fascino per le categorie arcache (l’analogia, la magia, l’orientalismo), prodce un riconoscimento e un piacere sociale, non solo individuale. Oltrepassa le strettoie di ogni ideologia. Per un grande materialista come Orlando, erede di Freud e dell’illuminismo, è questa la sola forma di oltrepassamento della morte concessa ai viventi: partendo da questo riuso psicanalitico del testo letterario, mediante Ferrari e Matte Blanco, si giunge a risultati analoghi nella sfera sovraindividuale?
Ovviamente intendevo dire l’intervista a cura di Anna Baldini
Ho molto apprezzato l’intervista di Anna Baldini ad Alessandra Ginzburg perchè riesce ad esprimere con chiarezza il vertice di osservazione e ricerca dell’autrice del libro e di come la conoscenza e l’amore per la letteratura, insieme alla riflessione e all’uso del pensiero di Matta Blanco e di Ferrari, possano generare un arricchimento per tutti noi. Condivido l’impostazione che vede gli autori studiati da Alessandra Ginzurb come maestri nella capacità di esplorare ed esprimere il complesso mondo delle emozioni e del vissuto del corpo. Penso, in tal senso, ad Emily Dickinson che non ebbe bisogno di lasciare la sua stanza per sondare gli abissi di un’anima posta di fronte a se stessa o a Sylvia Plath che cercò, in bilico sul crinale, la differenza tra avere un corpo ed essere un corpo,
Mi auguro che gli analisti leggano il libro di Alessandra Ginzburg con lo sguardo e la partecipazione di Anna Baldini. Grazie ad entrambe.
Prendo spunto solo da qualcuna delle tante osservazioni pregnanti di Emanuele Zinato che certamente meriterebbero uno spazio maggiore di riflessione e di approfondimento. Non ho mai pensato, prima che lui ne parlasse, che le mie modalità di lettura del testo letterario costituissero in sé un “principio di Speranza “, quanto piuttosto l’espressione di una illimitata ammirazione per la ricchezza e la creatività del funzionamento dell’inconscio simmetrico, un sentimento che forse va a mia insaputa proprio in quella direzione. Voglio precisare comunque che la distinzione su cui insisto sempre fra inconscio rimosso, su cui soprattutto si è soffermato Freud, e inconscio simmetrico non rimosso, concettualizzato particolarmente da Matte Blanco, nasce dal presupposto che la componente simmetrizzante dell’inconscio, che tutto tende ad equiparare e sovrapporre (il miracolo dell’analogia di cui parla appunto Proust), contenga in sé una forza dirompente che abolisce le dimensioni spazio-temporali e ci proietta in un universo multidimensionale in cui la nostra limitata coscienza è costretta a continue acrobazie per rendere, tridimensionalizzandola, la molteplicità simultanea dei significati. Questo aspetto mi sembra possa utilmente affiancarsi all’elaborazione di Orlando sulla letteratura come forma di ritorno del represso. Un concetto fondamentale, certo, che sottolinea la funzione di compromesso sempre presente in ambito letterario ma che non spiega la ragione di tutte le possibili scelte figurali del testo. Ho voluto per questo motivo considerare Proust come l’interprete migliore di questo secondo versante interpretativo, perché in lui, pur coesistendo ambedue questi ambiti dell’inconscio, la componente strutturale mi sembra essere la base su cui tutta l’ immensa cattedrale della sua opera si sostiene. Ringrazio anche Domitilla Cataldi per aver messo in rilievo con i suoi esempi letterari il significato fondativo dell’emozione in ogni creazione artistica.
Intervista molto interessante. Mi sento di segnalare tre opere, fra cui quella di “un altro” Ferrari:
Stefano Ferrari, “Scrittura come riparazione, Saggio su letteratura e psicoanalisi”, Editori Laterza, 2007
Gianluca Barbieri, “Tra testo e inconscio, Strategie della parola nella costruzione dell’identità”, Francoangeli 2007
M.P. Arrigoni, G. Barbieri, “Narrazione e psicoanalisi, Un approccio semiologico”, Raffaello Cortina Editore 1998
Da profano, vorrei condividere una riflessione con la prof.ssa Ginzburg, e amerei molto avere ricevere un suo riscontro.
Una prospettiva vicina a René Girard, riguardo l’opinione sulla debolezza delle teoria freudiane, mi ha portato a notare che esistono alcuni autori che riescono a declassare a monte la critica psicoanalitica, come Nerval – che, nonostante, molti hanno studiato in sento psicoanalitico. Jean Richer dimostra come «Nerval lui-même y établit le lien direct entre sa ‘folie’ e ses idée mystique» (Gérard de Nerval. Expérience vécue et création ésotérique, Guy Trédaniel Éditeur, 1987), scavando fra le carte autografe e gli articoli dell’autore.
Mi pare a volte che si voglia cercare in esperienze personali – mitopoietiche, oserei dire, come in Kafka; piuttosto che d’intimissima ricognizione, come in Proust – sovrastrutture che non esistono o che esistono soltanto in funzione di un’immaginario che non è così profondamente consustanziale al ‘momento’ creativo e che – come nel caso di Jekill e Hide – rappresenta, a mio avviso, più una fascinazione, un pretesto narrativo efficacissimo.
Dunque, fin dove può spingersi la critica psicoanalitica, senza rischiare di creare “prodotti posticci”? Io credo si voglia spingere troppo oltre e, in particolar modo, in un ambito che potrei definire (ispirandomi liberamente a Richer) “un approccio simbolico-mistico”.
Questo approccio, secondo me, segna bene i confini fra la dimensione clinica, analitica (spesso anche dialogica), e quella intuitiva, simbolica, analogica che – per dirla, in brevissima, con Girard – Freud ha distorto.
Nel ragionamento che Matte Blanco sviluppa intorno alla struttura bi-logica dell’inconscio freudiano servendosi della matematica del transfinito di derivazione cantoriana è ìnsito sia il paradosso che nasce dalla pretesa di rendere intellegibile con mezzi logico-matematici ad alto coefficiente di formalizzazione l’esistenza di qualcosa d’illogico, sia l’inevitabile conseguenza che discende da una siffatta impostazione del problema. In effetti, una volta stabilito che l’oggetto (= l’inconscio) è auto-contraddittorio, esso non risulta individuabile se non negativamente, talché possiamo soltanto dire che cosa esso “non” è. Il risultato è però epistemologicamente micidiale, poiché non abbiamo più alcun criterio per preservare dalle contraddizioni il nostro rapporto conoscitivo con un oggetto di tal genere. Occorre peraltro riconoscere che la nozione di una contraddizione ‘formalmente’ inscritta nella struttura stessa dell’inconscio è l’innovazione teorica più rilevante che sia mai stata tentata della topologia di Freud. Le modificazioni generate da una simile innovazione sono di non poco conto, come dimostra la teoria dei sentimenti, delle emozioni e delle sensazioni, attraverso la quale Matte Blanco riesce a individuare aspetti di grande interesse, come la “superlativizzazione”, mai posti in luce da altre teorie. Così, mentre gli istinti, che Matte Blanco esclude dalla struttura della vita psichica profonda, risultano per la loro natura asimmetrici, ossia teleologici, rivolti ad un appagamento e quindi, in qualche misura, razionali, l’inconscio si configura, per converso, come simmetrico, omogeneo, infinito, il che lo rende irrazionale fino al limite dell’illogicità. La scoperta più fruttuosa cui perviene lo psicoanalista cileno va ricercata allora in ciò, che tutti gli impulsi istintuali assumono un significato sul piano ermeneutico nel momento stesso in cui vengono inseriti in un sistema – l’inconscio – che è strutturato in maniera tale da produrre, per così dire, ‘sinergie antitetiche’. Laddove, assumendo che la nozione più adeguata dell’inconscio sia (non quella ‘sostanziale’ ma) quella ‘aggettivale’, è agevole comprendere perché tanto la teoria delle emozioni e dei sentimenti quanto la rielaborazione ‘bi-logica’ della categoria freudiana dell’inconscio si siano rivelate, come i riferimenti a Proust, a Kafka e a Hoffmann confermano, assai fecondi per la critica letteraria, l’analisi della narrativa e la ridefinizione del senso del romanzo. Circa poi i rischi di idealismo che un’impostazione del genere implica, essi meritano di essere corsi se il guadagno conoscitivo, una volta sceverato il nucleo razionale dal guscio mistico, è un grande quadro concettuale, senza contare che saranno inevitabili almeno fin quando non sarà stata elaborata un’ontologia attendibile di questi settori della ricerca (in questa direzione merita di essere segnalato almeno il notevole saggio di Francesco Napolitano,”Lo specchio delle parole”, Torino 2002).