di Valentina Sturli
[E’ uscita da poco per le Edizioni di Storia e Letteratura, nella collana Biblioteca Italiana di Testi e Studi, nel quadro dell’Edizione nazionale dell’opera omnia di Federigo Tozzi, l’edizione critica di Bestie curata da Valentina Sturli. Riportiamo di seguito il brano finale della sua Introduzione, ringraziando l’Editore per la gentile concessione. La prima presentazione del volume si terrà martedì 28 marzo alle 17 all’Accademia degli Intronati di Siena, con la partecipazione di Roberto Barzanti e Riccardo Castellana].
L’io, il mondo, le bestie: queste classi di entità formano un triangolo i cui vertici sono tenuti insieme da legami che il testo stabilisce attraverso un reticolo di sovrapposizioni tanto formali quanto contenutistiche. Questi legami possono risultare più o meno evidenti ma, come abbiamo cercato di dimostrare, sono pervasivi e persistenti: Tozzi se ne serve per alterare la propria materia narrativa – che sulla carta potrebbe prestarsi anche troppo facilmente a un trattamento naturalistico fuori tempo massimo, fatta com’è di scene dei campi e animali, corpi di povera gente, miserie di una città di provincia – in direzione di un espressionismo creaturale, ossessivo, allucinato, dove non solo lo spazio e il tempo, ma anche le entità animate e inanimate si fanno attori inquietanti su un fondale disperatamente ristretto e imprevedibile. La rappresentazione della campagna, delle case e delle chiese racchiuse nell’asfissiante cerchio di mura è allora tutt’altro che bozzetto o acquerello: quel che da lontano si poteva scambiare per un piccolo mondo antico costituisce in realtà la modernissima ribalta di forze inconsce incontrollabili, di sovrapposizioni angoscianti, di pulsioni persecutorie e inspiegabili.
Abbiamo visto che gli alberi, le strade, le nubi e le suppellettili si comportano come vere e proprie persone provando invidia, perseguitando, schiacciando, cospirando ai danni dell’io per illuderlo o canzonarlo. Il mondo non è rassicurante, ma può mutare e rivolgersi a ogni istante, fingersi immobile e a tratti persino idilliaco solo per meglio angosciare. E a sua volta il soggetto non può conoscerlo, ma solo passivamente subirlo: a parte qualche ridicola – e infatti subito frustrata – velleità di atteggiarsi a padrone, l’io di Bestie abita il mondo da schiavo e da estraneo: basta una nuvola a far virare al nero il corso dei suoi pensieri; basta il canto di un grillo a spaventarlo; la natura è piena di ombre, di nemici e di vittime. E infatti ombre, nemici o vittime sono i pochissimi agenti che intravediamo, sempre per lampi e per accenni, entrare in contatto con lui: lo spettro allucinatorio e simbiotico della madre morta da anni; l’odio dei fratelli e del padre, come una maledizione biblica; la tremula passività della zia Betta; l’ostilità con la moglie; il sadismo divertito dell’amante. In questa cornice le bestie si fanno portatrici di un messaggio che non può essere decifrato; c’è, ma quel che significa è al di fuori della portata del soggetto comprenderlo o anche soltanto intuirlo: sono piuttosto, quasi sempre, l’incarnazione aliena, inquietante, istupidita o maliziosa di un mondo che non si può penetrare. E tuttavia, senza volerlo, esse si fanno a volte testimonianza del male che affligge ogni entità: cose, animali e persone. È il caso della rospa descritta come un involto dagli occhi umani, è il caso delle «brìcciche» rotte abbandonate in fondo a un cassetto, è il caso della coppia di sposi lui giallo e tisico, lei seguita dal «canettaccio bastardo».
Debenedetti ha per primo riconosciuto l’infiltrazione, all’interno della sintassi di Bestie, di una logica di tipo emotivo che scombina i piani temporali e le sequenze, fa emergere come illusoria ogni ricerca di cause ed effetti, rivela la natura profondamente figurale del testo. E dalla sintassi alla forma complessiva, in questo caso, il passo è breve: si può ben dire che tutto il mondo di Bestie è costruito sulla continua discrepanza tra le percezioni; su un’oscillazione tra poli apparentemente contrari ma in realtà complementari: isolamento e simbiosi, esplosione e implosione, idiosincrasia e ripetizione ossessiva. Tutto ciò è evidente nel contenuto del testo, ma permette di spiegarne anche la forma, che non è novella e non è romanzo, non è poema in prosa ma neppure – strictu sensu – esclusivamente frammento. Se le prose di Bestie possono essere definite frammenti, infatti, è per la loro forma di piccoli testi in successione che non rispettano una rigorosa sequenza temporale né fanno posto a un sistema chiuso e definito di personaggi. Ma a leggerle insieme, le pagine della raccolta appaiono subito, in modo piuttosto evidente, come legate in un continuum.
Sono proprio i rapporti latenti a far sì che le prose di Bestie si richiamino e si facciano eco l’una con l’altra, rivelando una profonda coerenza nella frammentazione. Debenedetti ha voluto interpretare la forma di Bestie come un tentativo da parte di Tozzi di inserirsi nella linea del frammentismo vociano coevo, una linea poi abbandonata dall’artista in favore dei romanzi e delle novelle. Certo c’è qualcosa di vero, ed è verissimo che nel momento in cui Tozzi andava componendo Bestie il frammentismo era un genere praticato e accreditato nel panorama culturale intorno a lui; ma basterebbe questo, e soprattutto basterebbe in un autore che sin dalle sue primissime prove – anche quelle più goffamente altisonanti e dannunziane – tenta di articolare la sua voce, senza ricorrere a compromessi? Se si guarda da vicino, ci si accorge che proprio i contenuti fondanti di Bestie, la dialettica tra fusione e scissione, implosione ed esplosione, idiosincrasia e simbiosi, caratterizzano anche la forma della raccolta. Che cos’è infatti questo testo se non la continua dialettica tra singolo frammento, che esemplifica la natura irrelata del mondo – l’avvicendarsi di percezioni sempre mutevolmente inquietanti, di stati d’animo sfuggenti e incontrollabili –, e totalità di un corpus tenuto insieme dall’ossessività di elementi che tornano, tanto a livello sintattico che semantico? Da più parti è stato notato che, se anche Bestie si presenta come un omaggio al frammentismo, poi da esso diverge proprio per essere dotato di una tensione e di un’organicità che nelle raccolte dei vociani non c’è. Verissimo, talmente vero che potremmo spingerci ancora un po’ più in là, decidendo una volta per tutte di non considerare Bestie come una prova rispetto a maggiori e future realizzazioni, ma come un esperimento rischioso e perfettamente riuscito: quello di una formazione di compromesso tra frammentismo e totalità.
Il singolo frammento, la successione di prose, offrono infatti il mezzo formale per dare corpo a una struttura apparentemente slegata, franta, sussultoria. Permettono di aggirare il vincolo della coerenza in superficie, quella dei personaggi che tornano, dei legami spazio-temporali, della consequenzialità manifesta tra azione e azione, tra evento ed evento. È chiaro che tutto questo in Bestie lo si vuole evitare: non è in una struttura da romanzo, o in una scansione da novella, che si può rappresentare la madre come la si rappresenta in questo testo, cucita insieme dai lampi di una crocetta ritrovata o del ricordo della sua assenza durante una malattia; non è in una struttura da romanzo che si può articolare la potenza assassina di certe maledizioni al padre e ai fratelli; anche soltanto all’interno di una novella i personaggi della moglie o dell’amante, che qui compaiono come figurine inquietanti appena ritagliate sul fondale da due gesti, sarebbero chiamati a definirsi un po’ di più, perdendo qualcosa del loro baluginare persecutorio. Il frammento permette di isolare momenti, fare entrare sulla scena uno per volta personaggi che poi spariscono subito; permette di zoomare sugli attimi in modo ancora più concentrato e straniante, dando il senso di una realtà che va a singhiozzo, si avvita su di sé, è incomprensibile. Ma se ogni frammento è un mondo a parte, non può essere letto senza gli altri; e questa forse è la distinzione più evidente rispetto al pezzo di bravura, alla prosa poetica inserita in una mera sequenza.
Perché i frammenti di Bestie compongono un’unità indivisibile, e si richiamano e potenziano a vicenda. Quello che li lega, ancora più che il ritorno ossessivo di certe immagini, la mobilità del paesaggio e la comparsa regolare della bestia, è proprio la logica che innerva tutto il testo, il modo di percepire gli eventi, rivoltando nella rappresentazione i nessi logici che tengono insieme la realtà così come la percepiamo da svegli. A Tozzi interessa dare forma in ogni atto, in ogni rappresentazione di individuo, di bestia o di cosa, a una logica di tipo emotivo che non riconosce e quindi sovverte le distinzioni tra animato e inanimato, tra inorganico e antropomorfo, tra io e mondo. Solo un testo composto da prose brevi o brevissime, di durata e intensità variabile, ognuna a isolare un’immagine che incombe come un oracolo, ma tutte profondamente legate da nessi semantici ricorrenti e idiosincratici, solo un testo del genere poteva rendere conto di un mondo spezzato e sussultorio, ma profondamente coerente, come è il paesaggio interno che ci abita, e che in quegli anni Freud andava perimetrando e scoprendo. Proprio la tensione che si instaura tra la successione di questi lampi e l’unità logico-emotiva che presiede all’insieme costituisce la bellezza di Bestie, e il motivo più profondo del suo fascino.
[Immagine: Antonio Possenti, Passeri (Per Bestie di Federigo Tozzi)].
Ricordo una discussione sobriamente accesa con Sergio Romano sopra Federigo Tozzi, avvenuta molti anni orsono. Sergio Romano non apprezzava molto la scrittura di Tozzi, giudicandola piuttosto chiusa entro una piccola patria nella quale il poeta si proteggeva. Il giudizio era ed è tutt’altro che infondato, dal momento che Tozzi pare ignorare molto di quanto accadeva nel mondo, ma forse la questione è proprio che cosa sia una letteratura capace di misurarsi con le faccende del mondo, che dal punto di vista di un borghese, può solo significare la forma-romanzo. Bestie non si sa che cosa sia, ma è in questa indecisione del poeta a scegliere una forma per la propria parola che si manifesta una ‘chiusura’ feconda, poiché è chiusura alle forme di racconto, rifiuto di forme narrative o espressive; tutt’altro che protezione. A questo punto le considerazioni da fare sarebbero molte, ma è mi fermo qui.