di Maria Teresa Carbone

 

Dopo i dialoghi con Gianluigi Simonetti, con Ilaria Feole e con Francesca Borrelli, a partecipare a questo tentativo di ricognizione delle forme contemporanee del giornalismo culturale è oggi Andrea Cortellessa, che da tempo – tra l’altro nella sua veste di cofondatore e redattore del blog-rivista Antinomie – ha esteso la sua attività di critico letterario, per la quale è molto noto e apprezzato in Italia e all’estero, al campo delle arti visive, un tema di cui naturalmente si parla anche in questa conversazione.

 

Per cominciare, come è stato anche con gli altri dialoghi, vorrei provare a delimitare il campo, partendo da una domanda semplice, se non sempliciotta: quando pensi al giornalismo culturale che cosa ti viene in mente, in termini di oggetti e di canali di comunicazione?

 

Innanzitutto, a me pare che la parola giornalismo sia antiquata. Possiamo parlare di informazione culturale o – peggio mi sento – di comunicazione culturale, ma direi che il giornalismo inteso come l’utilizzo di canali istituzionali dotato di una ragione sociale, una diffusione garantita, un prezzo di copertina, una periodicità, insomma tutto ciò che bene o male dal Settecento a oggi associamo al concetto di giornalismo, sia uno dei tanti istituti della modernità divenuti fossili. Certo, esistono ancora i giornali e alcuni di noi continuano a collaborarvi, ma prevalgono sempre di più altre forme di intervento, le quali, come succede sempre nell’avvicendarsi dei modelli culturali, si ibridano con le forme precedenti, per cui i giornali stessi – perlomeno quelli di maggiore successo (diciamo, di quel poco successo che continuano ad avere) – mutuano format, stili, autori, questioni e lessici che provengono da canali diversi, e fondamentalmente dai canali della rete e ahimè dei social.  È una mutazione in corso, e noi non ne vediamo ancora la definizione, anzi probabilmente non la vedremo mai perché, appunto come ci insegnano i teorici dei media, i media non si avvicendano l’uno dopo l’altro, ma si ibridano e si modificano a tal punto che arriva il momento in cui non esistono più, secondo il paradigma della nave di Teseo, cioè di qualcosa che si modifica continuamente finché non diventa un’altra cosa che serba solo il nome di ciò che l’ha preceduta.

 

Beh, il senso di questo ciclo di interviste sta proprio qui, nel cercare di capire a che punto siamo della mutazione, se nella nostra prospettiva forzatamente monca noi riusciamo a vedere di quali pezzi si compone oggi la nave di Teseo. Per questo, tutto sommato, non mi dispiace mantenere la parola “giornalismo”, per quanto antiquata o fossile.  

 

Vedi, quello che contesto non è tanto il lessico, il problema è proprio la funzione. Se continuiamo a parlare di giornalismo, è perché noi, nati ben al di qua del passaggio di secolo, ci siamo formati in un contesto e in un campo sociale in cui i modelli di mediazione culturale e di formazione dell’opinione pubblica erano condivisi, e tutto sommato considerati una seconda natura. Oggi le testate di una volta in gran parte esistono ancora, ed esistono ancora le forme di scrittura e di pubblicazione che abbiamo ereditato. Ma ai miei occhi conta molto di più ciò che all’interno di questi contenitori è mutato, vale a dire la funzione di mediazione culturale che il giornalismo incarnava – cioè, senza ripetere i teoremi sociologici più consunti, l’idea che ci fossero delle élite che possedevano competenze, cognizioni, tradizioni e che, attraverso determinate forme di comunicazione, mediazione, divulgazione, trasferivano questi saperi, questi metodi, queste discipline a un pubblico a sua volta selezionato, quello appunto che accedeva a questi strumenti. Adesso i giornali hanno ancora un pubblico selezionato e ancora utilizzano come collaboratori un personale che assomiglia più o meno al vecchio identikit, ma nel momento in cui rincorrono i mezzi della disintermediazione comunicativa – fondamentalmente quelli della rete e dei social in particolare – vengono meno alla funzione che ho descritto. Se continuiamo a chiamarli in un certo modo, questo nome ci fa supporre – per alcuni sperare, per altri stigmatizzare – che siamo ancora lì, mentre in realtà siamo dall’altra parte del guado. Dunque, non è una questione meramente nominalistica: se stiamo parlando di un oggetto radicalmente mutante, dovremmo trovare anche un lessico diverso. Per quanto mi riguarda, io collaboro a giornali, a riviste, insomma a tutta una serie di oggetti ereditati dal Novecento, ma che gradualmente perdono quella funzione e impongono una definizione di linguaggi e di comportamenti alla quale io, nel mio essere novecentesco, faccio molta fatica a adeguarmi.

 

E in cosa consiste questa imposizione?

 

In realtà più che di imposizione, si dovrebbe parlare di selezione, come del resto avviene sempre in regime capitalistico: attraverso una selezione di carattere quantitativo si accantonano determinati contenuti e con loro i presunti specialisti che quei contenuti potessero maneggiare. Ti faccio degli esempi di carattere personale non per narcisismo, ma perché posso dare una testimonianza diretta di come sono andate le cose, ovviamente dal mio punto di vista. Io mi sono sempre occupato di poesia contemporanea perché continuo a pensare che sia la forma più importante di letteratura che si fa nel nostro paese, nella tradizione e anche oggi. In rete c’è tantissima poesia, ma appunto si tratta di oggetti non selezionati, i cui autori il più delle volte propongono su canali autogestiti i propri materiali e sostanzialmente producono un circuito autotelico, endogamico, di solipsismo e nevrosi. Questo vale per tutto l’universo della rete ma nel campo della poesia si somma al solipsismo della poesia tradizionale e quindi diventa ancora più macroscopico. Quando nacque ormai più di dieci anni fa «doppiozero», che era ed è una realtà eccellente nell’informazione culturale in rete, la mia intenzione era di consentire a un pubblico più vasto rispetto al pubblico tradizionale della poesia di conoscere dei «campioni», cioè degli esemplari individuati da un gruppo di critici, vale a dire da specialisti gerarchicamente addestrati a riconoscere e a interpretare quel campo molto complesso che è la poesia. L’esperimento è durato un annetto e poi, anche presso una redazione più che illuminata, con la quale condivido tanti miei postulati politici, sociali e linguistici, lo spazio è stato progressivamente emarginato e infine chiuso, con la motivazione che c’erano pochi contatti, che si trattava di oggetti di scarso interesse per un pubblico che non fosse quello degli addetti ai lavori. Io ricordo sempre che negli anni Sessanta sul «Corriere della Sera» Gianfranco Contini poteva scrivere di Antonio Pizzuto. Certo, non è che tutti i giorni si leggessero articoli simili, però era possibile che il «Corriere» pubblicasse una pagina di quel tenore e di quella importanza anche dal punto di vista storico-letterario. Oggi temo che qualcosa del genere non sia più concepibile. Anzi, nel momento in cui i sistemi di intermediazione si assoggettano alla logica quantitativa e quindi alle fasce di pubblico più basse, la situazione continua a peggiorare, perché si aggiunge un ulteriore elemento ai miei occhi ancora più pernicioso. Non saprei come definirlo esattamente perché non sono un esperto di linguaggi della rete, ma per un intellettuale novecentesco, come sono io, il contatto con una testata, cartacea o digitale non cambia, è un atto volontario: ogni mattina io faccio un giro di alcune testate e tra gli articoli pubblicati leggo quelli che mi interessano oppure passo ad altro. Oggi però questo tipo di consultazione, diciamo così, ordinata non è più prevalente: la maggior parte dei contatti alle riviste culturali online avviene attraverso i social e attraverso catene di passaggi dovuti alla moltiplicazione di quella che con un orribile ipocrita termine si chiama «condivisione» dei materiali. Il che significa appunto assoggettarsi non solo a un criterio quantitativo, ma anche a modalità di fruizione più frammentarie, che comportano una lettura – almeno secondo me – più superficiale, più rapida, meno paziente verso ogni tentativo di approfondimento, con la conseguenza che rischiamo di arrivare a una ipersemplificazione dei linguaggi, se non a un annichilimento della mediazione in quanto tale, a uno scioglimento della cultura nei social attraverso canali che oltretutto rispondono a realtà imprenditoriali sfuggenti e opache, secondo forme tutt’altro che democratiche. Ma questo forse è un altro discorso.

 

Al di là della valutazione che se ne dà, credo sia impossibile non ritrovarsi nel quadro che hai descritto. Eppure, vorrei farti notare da un lato che anche oggi i giornali ospitano interventi di critici non appiattiti sull’ipersemplificazione (tu stesso ne sei un esempio), dall’altro che i cambiamenti che denunci si inseriscono in una trasformazione più ampia: per dirne solo una, l’università non è più quella in cui insegnava Contini.

 

Sicuramente, e anzi una figura come quella di Contini oggi sarebbe impensabile. Ma quello che mi preme dire è che oggi è venuta meno la traduzione, e la tradizione, dei materiali. Sul «Corriere» chiaramente Contini non scriveva come sul bollettino dell’Accademia dei Lincei, però scriveva in “continese”, cioè non si inibiva per la complessità dei concetti e il linguaggio, anche se, com’è ovvio, aveva una consapevolezza retorica degli spazi a disposizione. Chiaro, parliamo di un caso limite, ma indicativo di quello che accadeva allora. Proprio in questi giorni con Tommaso Pomilio stiamo preparando un numero della rivista della Sapienza, «L’Illuminista», dedicato a Giorgio Manganelli, che includerà il lavoro di un giovane studioso, Emiliano Ceresi, su un episodio interessante, la collaborazione di Manganelli con un settimanale a larga diffusione degli anni Ottanta, «L’Europeo».  Forse per la media dei lettori del giornale gli articoli di un autore difficile concettualmente e lessicalmente com’era Manganelli, potevano risultare criptici, ma «L’Europeo» li pubblicava perché riconosceva il prestigio della sua firma, e non cercava di “normalizzarlo”. A ogni suo pezzo, però, veniva associata una piccola rubrica lessicografica: le parole a torto o a ragione considerate desuete, fuori dalla doxa, venivano dotate di una schedina che consentiva ai lettori di “tradurre” il linguaggio di Manganelli. Pure questo è un caso limite, e con un taglio giocoso, ma è un esempio di come allora i giornali, intesi come luogo della divulgazione, fossero abituati a “tradurre” (letteralmente, in questo caso!) i contenuti culturali più complessi in forme comunicative accessibili a un pubblico più vasto, in quella che chiamiamo spesso, senza rifletterci troppo, divulgazione. Oggi mi pare che il principio non sia più quello di tradurre ciò che di complesso viene prodotto, non solo in ambito letterario ma anche scientifico, sociologico, psicanalitico e via dicendo, ma viceversa di selezionare i materiali da proporre al pubblico in base alla loro comprensibilità più o meno presunta, secondo quello che Gadda chiamava l’«uso Cesira»: dove appunto la signora Cesira pretende che ogni oggetto a lei sottoposto sia abbassato al suo livello. Per questo Contini mi sembra un caso paradigmatico: non perché io gli sia, come in effetti sono, particolarmente affezionato, ma perché era un esempio di filologo che possedeva tutta la tradizione letteraria italiana e romanza ma poi si applicava sul «Corriere» a un autore perfettamente contemporaneo e vivente come Pizzuto, un autore complesso che a suo modo di vedere garantiva una traduzione della tradizione.

 

Tutto questo avveniva in un regime fortemente gerarchico che noi abbiamo contestato per i suoi mandarinismi, per i suoi ideologismi, per i suoi elitarismi, che erano i prezzi da pagare per un modello capace di selezionare e tradurre i propri materiali. Oggi, in nome di una presunta democraticità, ma dal mio punto di vista in funzione di una commercializzazione coatta, i materiali vengono predigeriti, anzi previsti e preconfezionati dagli stessi autori per essere solubili e divulgabili. Tutti noi che leggiamo abitualmente testi inediti di narrativa abbiamo assistito negli ultimi decenni all’aumento esponenziale della quantità di giovani autori che hanno introiettato il principio secondo il quale il loro testo deve essere traducibile, “cesirizzabile”, in forma di fiction audiovisiva. Ecco, questo predigerire i materiali anziché tradurli mi pare uno degli effetti più perniciosi di una falsa democrazia della comunicazione operata fondamentalmente dalla disintermediazione della rete.

 

E tu, nella tua veste di collaboratore di diverse testate giornalistiche, come reagisci a questa situazione? Ti adegui o ti ribelli? Riesci a ricavare degli spazi di autonomia?

 

Proprio Gianluigi Simonetti nel suo libro La letteratura circostante descrive con molto sarcasmo il tipo di atteggiamento che mi appartiene: appunto l’atteggiamento resistenziale di chi loda i tempi passati come ho fatto qui finora, di chi non si sa adeguare ai ritmi del cambiamento, alle metamorfosi sociali, ai nuovi pubblici, alle nuove parole d’ordine, ai nuovi linguaggi eccetera. È triste ma in parte ha ragione, anche se a me sembra altrettanto triste che gli intellettuali più intelligenti della mia generazione (Simonetti è un po’ più giovane ma di pochi anni) sostanzialmente accettino e in alcuni casi incoraggino questo andazzo. Certo ha ragione Simonetti nel dire che l’atteggiamento opposto non ha futuro perché la resistenza poche volte prevale. In genere si fa la fine del famoso ultimo giapponese, una figura che non a caso mi è particolarmente cara.

 

Dunque tu accetti di essere definito resistenziale?

 

Resistenziale è una parola che rischia di essere troppo retorica. Per quanto mi riguarda, parlerei piuttosto di ostinazione.

 

D’accordo, ma tu hai fatto riferimento alla figura dell’ultimo giapponese, che però resta solo e alla fine muore. Allora io mi chiedo chi sono le persone per cui tu scrivi, ammesso tu ipotizzi che qualcuno là fuori ti legga. Oppure ti ostini, per usare il termine che hai scelto, anche immaginando che non ci sia nessuno a leggerti?  

 

Questa è quasi una domanda esistenziale, che ciascuno forse dovrebbe dibattere nel suo foro interiore. Ma volendo provare a fare questo striptease, penso che chiunque scriva, che lo faccia con intenti artistici o meno, lo faccia fondamentalmente per sé stesso, per dare sfogo al proprio metabolismo nervoso, al proprio horror vacui o semplicemente, auspicabilmente, alla propria curiositas. Questo perlomeno mi dico quando sono indulgente nei miei confronti. D’altra parte, come giustamente tu dici, se questa fosse l’unica considerazione che ci muove, useremmo un linguaggio stenografico, autoriferito, brachilogico, addirittura escretorio, mentre invece ci adeguiamo ai format – gli spazi, i livelli linguistici, le glosse che inseriamo quando usiamo un termine meno consueto, e via dicendo. Quindi è evidente che in ciascuno di noi vige comunque un super io esterno che probabilmente è ancora memore del vecchio modello e che in maniera più o meno surrettizia impone determinati comportamenti, determinati bon ton. Senza contare l’aspetto economico che toccheremo, immagino, e che fa sì che alcune di queste prestazioni siano retribuite, anche se in misura sempre più scarsa.

 

Ecco, io penso che se devo proprio immaginare un lettore, almeno negli ultimi dieci anni circa della mia attività, l’unica forma di (uso un’altra parola retorica) speranza non la trovo nei più giovani di cui si parla tanto, e che suppongo usino altri canali. No, alla domanda “dove vogliamo tradurre questo nostro prigioniero, dove vogliamo spostare questa famosa tradizione?”, io mi sono dato una risposta empirica, cioè ho assecondato la mia passione non professionale per le arti visive, e tutto sommato quello che cerco di fare – niente di originale, lo si fa da almeno due secoli – è tradurre determinati concetti e determinati oggetti, «affetti e percetti» diceva Deleuze, non tanto presso un pubblico più giovane o meno preparato come nel vecchio modello, bensì proprio presso un altro pubblico, cioè in un altro campo, in un altro regime discorsivo e anche in un altro mercato. Naturalmente questo ha dei vantaggi, per esempio che si viene considerati dagli stranieri a cui ci si rivolge come ex lege, esseri fuori dalla norma, giraffe o canguri, animali curiosi. D’altro canto il rischio è quello del marziano di Flaiano, cioè che l’oggetto curioso diverte, entusiasma e appassiona, poi ci si abitua e alla fine gli si dice di scansarsi. Non so, io sono ancora nella fase di innamoramento e anche in termini esistenziali, sociali, mi piacciono i diversi codici di comportamento, i diversi regimi economici, la diversa educazione. Vedo anche cose che mi piacciono meno, però la differenza di campo – ecco, mettiamola in termini surrealisti: i vasi comunicanti – permettono la circolazione di una certa energia, come un sistema idroelettrico che nel passaggio da un campo all’altro consente alla nostra parola, alla nostra esperienza, alla nostra cultura, non solo di essere più apprezzata da coloro a cui ci rivolgiamo, ma forse anche di avere minori inibizioni, di essere meno legata a un repertorio. Tutto ciò che sappiamo fare bene o male, o fin troppo bene, alla fine ci annoia o comunque non ci incuriosisce più come una volta. Però, ripeto, può darsi che sia solo una fase destinata a esaurirsi.

 

Parlando di questo tuo passaggio a una forma di scrittura che ha come oggetto l’arte, hai accennato anche a un diverso regime economico. Ora, non voglio fare i conti in tasca a nessuno, ma al di là del tuo caso personale, questa energia nel campo dell’arte non sarà anche dovuta al fatto che qui girano molti più soldi rispetto ad altre aree del territorio culturale?

 

Non solo girano più soldi, come può materialmente constatare chiunque, ma c’è anche un altro aspetto ancora più importante, e probabilmente collegato, e cioè che nell’arte l’intermediazione ha mantenuto una forza, una capacità di resistenza maggiore, e questo deriva dal fatto che l’oggetto artistico – sebbene Benjamin abbia teorizzato il contrario in pagine celebri ampiamente smentite dai fatti – non risponde a criteri quantitativi. Rispetto al passato c’è, sì, chi lamenta che i musei e le istituzioni sono più attenti al numero dei visitatori, ma in fondo per le scelte di un artista non prevale il criterio della predigestione, dato che i singoli esemplari hanno un valore venale. Rispetto alla letteratura sono oggetti diversi, e infatti io temo la svolta della digitalizzazione dell’arte perché, se prevalesse questa nuova frontiera, probabilmente i criteri quantitativi si riproporrebbero come nelle arti legate alla stampa. Non che le copie in arte non esistano, ci sono i multipli, ma il principio della copia altro non è che una moltiplicazione dell’aura dell’originale – non la sua eliminazione, come temeva o auspicava Benjamin. Ma per il momento, finché non prevale anche in questo campo la digitalizzazione, le forme di intermediazione restano. Gli organismi dirigenziali delle istituzioni museali o quello che Bonito Oliva già negli anni Settanta chiamava il «sistema dell’arte», cioè i mercanti e le gallerie, sono forme di intermediazione. Potremmo dire che in un certo senso sono forme editoriali – alle volte dotate anche di riflessi editoriali in senso letterale – che comunque non rispondono a criteri quantitativi. Ed è per questa differenza sostanziale che il mercato dell’arte ancora oggi risponde ai criteri dell’aura, del prestigio, dell’elaborazione intellettuale. Poi, come hanno scritto con toni troppo indignati e risentiti Alessandro Dal Lago e Serena Giordano in Mercanti d’aura, ci sono sperequazioni, mistificazioni, veri e propri plagi – non nel senso dell’imitazione ma della circonvenzione. Ma questo avviene in tutte le arti, anche in letteratura. Anzi, se guardiamo alla letteratura, forse di fame usurpate ne vediamo anche di più.

 

Sì, è vero, ma mi pare – come del resto hai detto – che si tratti di campi, quello dell’arte e della letteratura, che pur appartenendo al vasto territorio della cultura, si reggono su regole diverse.

 

C’è però un altro punto su cui mi vorrei soffermare. Tranne eccezioni ben localizzate, per esempio la «poesia concreta» o come piace dire oggi «scrittura asemica», la letteratura ha necessariamente un referente – e questo, lo diceva già Manganelli, pone un problema perché, come vediamo oggi in modo molto evidente, la porta a subire forti condizionamenti di carattere sociale, politico e economico, derivanti dalla sua storicità, dal suo essere collocata in un tempo determinato di cui riflette le problematiche. Anche l’arte ha un referente, ma la tradizione dell’astrazione è molto più forte e inoltre, diciamo dalla svolta di Duchamp, anche la riproduzione materiale dell’oggetto non è l’oggetto stesso, ha un impianto di carattere sostanzialmente metaforico/metonimico che lo porta a slittare verso forme di simbolismo anche molto complesso, si pensi al Grande vetro per fare un esempio molto evidente. E infatti negli ultimi decenni le arti visive hanno goduto, mi pare, di maggiore libertà, di uno spazio di sperimentazione e di affrancamento dalle istanze sociali e politiche del nostro tempo. Negli ultimi dieci-quindici anni, però, si è assistito a una forte ideologizzazione anche delle arti visive, a una forte ipoteca contenutistica. L’ultima Biennale e, mi dicono, anche l’ultima Documenta sono connotate da questo contenutismo, e quindi riflettono in modo non sufficientemente mediato le istanze contemporanee. Viene meno cioè un principio fondamentale della modernità, che non a caso Baudelaire enunciava nel Pittore della vita moderna e non del poeta della vita moderna (anche se per me riguarda ovviamente anche la letteratura), e cioè che ogni opera d’arte riflette la cronaca più immediata e al contempo fa riferimento all’eterno, a qualcosa che ci sfuggirà sempre e che resterà vivo, si spera, nei secoli dei secoli. Nelle arti visive contemporanee questa doppiezza è stata maggiormente difesa, e oggi invece viene messa in discussione per cui di recente l’amico Federico Ferrari contestando questo andazzo ha affermato la necessità di una critica che si disinteressi dei contenuti e anzi addirittura individui nell’arte un linguaggio che ne farebbe, o ne possa fare, concretamente a meno e che in sostanza sia una forma di «estasi» in presenza dell’opera d’arte. Ecco, proprio per le questioni di cui ho detto prima, io capisco i motivi per cui si possa giungere a una posizione del genere, ma è una posizione che non mi appartiene, e continuo a pensare che se la critica – un termine, di nuovo, novecentesco – ha ancora una funzione, è per l’appunto quella di discriminare queste due faglie dell’opera d’arte che Baudelaire icasticamente rappresentava,  e quindi l’aspetto più legato al proprio tempo, sempre intimamente connesso però a qualcosa che lo trascende. Insomma, per me la critica non può essere «acritica», come predicava per l’arte Germano Celant negli anni Settanta, o Susan Sontag per la letteratura negli anni Sessanta, e che quindi si vieti l’interpretazione. L’interpretazione non è altro che la costruzione di modelli o, prendendo in prestito un termine della sociologia contemporanea, una forma di «costruzionismo». I modelli magari valgono solo per chi li enuncia, ma la scommessa è che invece abbiano un valore condiviso, che consentano appunto di comprendere quegli oggetti così apparentemente sfuggenti. Sarà che negli ultimi anni mi sono accanito su autori come Zanzotto e Manganelli che hanno rifuggito con orrore e con raccapriccio il «contenuto» inteso in senso denotativo, ma a me interessa proprio, in queste forme di testualità così apparentemente sganciate dal proprio tempo, la possibilità di interpretarle, di verificarne più o meno attendibilmente un contenuto di realtà. Questo è l’aspetto che mi appassiona di più del lavoro della critica, ed è il motivo per cui continuo a esercitarla malgrado tutto.

 

Zanzotto e Manganelli sono grandissimi ma, riprendendo un punto che hai toccato a più riprese, appartengono a un ventesimo secolo ormai chiuso, laddove un critico dovrebbe svolgere il suo esercizio interpretativo soprattutto nel proprio tempo, non trovi?

 

Di recente un amico comune mi ha segnalato che appunto una scrittrice del nostro tempo ha inserito all’interno di un suo romanzo un mio piccolo e satirico ritratto, nella forma appunto di un critico innominato ma riconoscibile che, essendo già «emerso» e non più «emergente», non ha più necessità di confrontarsi con i nuovi autori e in particolare con gli autori più giovani di lui. Non era una pagina acrimoniosa, e mi ha fatto riflettere: può darsi che qualcosa di vero ci sia. Un altro amico molto intelligente definisce questo fenomeno, più comune di quanto si pensi, una forma di «edipismo»; ma senza per forza assumere la postura di Crono opino che forse temperamentalmente siamo portati a riconoscere più facilmente le opere d’ingegno di persone che hanno la nostra stessa anagrafe culturale e sociale o ancora meglio l’anagrafe che noi conosciamo storicisticamente dalle generazioni passate, mentre fatichiamo a compiere il doppio passo invocato da Baudelaire, quando si tratta della produzione di generazioni più recenti che si confrontano, come dice Simonetti, con linguaggi e contesti diversi. Diciamo che in questi vent’anni mi è capitato abbastanza di frequente di trovare interessanti degli autori nuovi, cioè più giovani di me, sia in poesia sia in narrativa. Forse nell’ultimissimo periodo faccio più fatica, ma non so se è colpa semplicemente del mio invecchiamento o della fine ingloriosa cui si avvia un mondo che a sua volta qualche annetto ce l’ha.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *