di Daniele Lo Vetere

 

Ricorriamo a un’espressione bruttina ma molto diffusa: quali sono i ‘bisogni formativi’ di quei particolari studenti che sono gli insegnanti di lettere in formazione? Per estensione, quali sono le necessità di aggiornamento di chi già insegna?

A dispetto di un discorso pubblico egemonizzato da una rappresentazione caricaturale della trasmissione dei contenuti culturali e del loro riuso pedagogico (rappresentazione politicamente non innocente), anche per chi continua a credere in quella trasmissione e riuso è assolutamente pacifico che conoscere la propria materia sia condizione necessaria ma non sufficiente per insegnarla: persino il docente più refrattario ai discorsi metodologici o alle riflessioni pedagogiche, messo piede in una classe, si trova a dover risolvere empiricamente il problema, per dirla con Elio Damiano, dei mediatori didattici, ovvero della necessaria trasformazione del sapere da insegnare in sapere da apprendere.

 

Purtroppo le pressioni su vasta scala della governance scolastica neoliberale, con il suo corredo di benchmark e protocolli di valutazione, strumenti statistici e classifiche, con l’ossessione per la competizione dei capitali umani nazionali nel mercato globale, con forme sempreverdi di comportamentismo che traducono il linguaggio dell’educazione in variabili sulle quali ci si illude di avere il pieno controllo, hanno introdotto in questi anni approcci fortemente riduzionistici nel dibattito pubblico sulla scuola.

La semplicistica fiducia in metodi generali e tecniche passe-partout, applicabili ad ogni disciplina, produce le ben nota, generica, insistenza sulla ‘mancata formazione pedagogica e didattica degli insegnanti’. Il problema dei ‘bisogni formativi’ dei docenti andrebbe invece sottratto a questa logica egemone e riformulato su basi culturalmente più solide: verificando che cosa abbia funzionato e che cosa no negli esperimenti delle Ssis e dei Tfa, dove quella logica egemone ha prodotto non poche distorsioni, e mettendo al centro il valore formativo delle discipline, dal corpo delle quali ricavare una didattica ad esse ‘consustanziale’.

 

Una pedagogia del testo letterario

 

Il volume Insegnare letteratura. Teorie e pratiche per una didattica indocile (Laterza, 2022, pp. XX, 232), curato da Emanuele Zinato con la collaborazione di Stefania Giroletti, Alessandra Grandelis, Filippo Grendene, Morena Marsilio, si rivolge esplicitamente ai futuri insegnanti di lettere, mettendo a disposizione riflessioni comunque utili all’aggiornamento dei professori senza distinzioni di età o esperienza. Il libro prende esplicitamente posizione sui problemi che ho appena sollevato, rifiutando concezioni strumentalistiche della didattica della letteratura. Infatti è a una «pedagogia nella disciplina» [corsivo mio] che gli autori guardano, a una «pedagogia del testo» [corsivo originale] ancora da costruire e di cui si denuncia la «sostanziale assenza» (p. 33) nei percorsi di formazione per gli insegnanti e più in generale nel mondo accademico.

 

Le forma istituzionalizzata delle discipline universitarie, con la sua parcellizzazione e specialismo, separa da sempre la ricerca pedagogica dalla ricerca letteraria, riservando la prima alle facoltà di scienze dell’educazione e alla formazione di maestre e maestri elementari. La percezione che esista un conflitto tra pedagogisti e disciplinaristi – che pure esiste, inutile negarlo – è però assai sensatamente ricondotta a una reciproca opacità dei campi di riferimento, incapaci di dialogare da sempre. Si potrebbe pensare che le riforme degli ultimi tre decenni abbiano lavorato proprio a creare le condizioni per questo dialogo. Ci si illuderebbe. La fretta di adeguare la scuola alle necessità produttive (anche della ‘produzione’ del cittadino europeo ben integrato), ma anche l’abitudine a ragionare in termini di efficacia ed efficienza e non di senso, hanno quasi sempre saltato il processo (squisitamente ‘riformistico’) di costruzione di campi di sapere didattico articolati a partire dalla disciplina di riferimento: mancano «ricerche mirate […], che non si improvvisano dall’oggi al domani, ma richiedono anni di riflessione e specializzazione, riviste dedicate, dialogo internazionale, oltre naturalmente a finanziamenti» (p. 32); non si bandiscono borse di dottorato o assegni di ricerca in didattica della disciplina, né si lavora a istituire gruppi di lavoro misti di docenti universitari e della scuola secondaria. Da questo punto di vista, uno degli elementi di maggior fecondità di questo volume è proprio il fatto che nasca da un ristretto gruppo di collaboratori coeso e ideologicamente affiatato, che lavora in entrambi gli ambienti e che ha però anche chiaro il portato politico e intellettuale della didattica.

 

La centralità del docente

 

Al centro di questa pedagogia dei testi letterari c’è la scommessa su una figura di «docente-critico» (p. X), capace di praticare una «didattica attiva, critica, selettiva» (p. XII) e di assecondare una «spinta alla sperimentazione» ben diversa dalla «rincorsa all’innovazione» (p. 21). Questo docente-critico ha assai poco a che fare con il profilo che emerge dall’argomento fantoccio ricorrente che lo vorrebbe se va bene sterile erudito, se va male stolido ripetitore: anzi è il crogiolo alchemico che può propiziare la trasmutazione del sapere letterario in esperienza del testo per gli studenti.

Questa centralità dell’insegnante non ha nulla di retrivo. L’insistenza sulla centralità dell’apprendimento e dello studente, almeno nella forma in cui è propagandata correntemente, ha impoverito e banalizzato l’educazione, come ha spiegato persuasivamente Gert Biesta in Riscoprire l’insegnamento, che ho recensito qualche mese fa su questo stesso blog. La trasmissività effettivamente deteriore può essere superata solo coltivando un’idea diversa di insegnante, non certo marginalizzandolo entro l’equazione pedagogica e facendone un ‘facilitatore dell’apprendimento’. Come il critico «deve saper fruire dei migliori risultati dello specialismo per costruire la sua interpretazione, non specialistica: allo stesso modo il professore deve poter utilizzare i risultati della ricerca letteraria per costruire forme didattiche esperibili da parte dei propri studenti» (p. 146), trovando un equilibrio tra la «capacità di interpretazione, che ci viene dai nostri studi specialistici […] alla voce del senso comune, del lettore comune» (p. 14). Se già la stessa ricerca accademica è invitata ad andare oltre l’accumulo di risultati specialistici, perché ciò che conta sono la scommessa interpretativa e il piano della socializzazione più ampia dei saperi, rispetto ai quali gli specialismi sono solo un mezzo, anche l’insegnamento della letteratura a scuola non si riduce a mediazione di un sapere prodotto altrove e idealisticamente e autoritativamente trasmesso: «l’insegnamento della letteratura comporta un atto di fiducia nell’immaginario come fonte di conoscenza, di piacere e di libertà» (p. XIII); al centro dell’esperienza letteraria in classe troviamo «l’incontro emotivo e cognitivo degli studenti con l’opera letteraria» (p. X).

 

Propiziare questo incontro non è affatto facile, per due ragioni. La prima è che «un testo letterario può ingenerare, oltre a piacere e libertà, incomprensione e rifiuto o perfino inettitudine e assenza di senso della realtà», perciò l’insegnamento è «una mediazione, aperta e rischiosa […] una scommessa» (p. XV). In un contesto culturale superficialmente ‘progressivo’, in cui i risultati di apprendimento si misurano e si migliorano come fossero parametri economici o statistici, non è poca cosa ricordarci che l’incontro tra l’esperienza di uno studente e quella di un insegnante, intorno alle parole di un testo letterario, non è un evento garantito e può essere persino portatore di elementi perturbanti.

La seconda ragione di difficoltà di una pedagogia del testo letterario deriva dalla forte discontinuità nella trasmissione del sapere della contemporaneità, nella quale la cultura umanistica ha perso ogni centralità. Questa perdita è benjaminianamente affrontata con un invito a concentrarsi su frammenti allegorici allusivi del tutto, sulla capacità di «vedere l’universale nel particolare» (p. 13). Da un punto di vista della formazione degli insegnanti, questo significa prendere in carico il senso di insufficienza che è proprio di una figura che non può dichiararsi esperta di nulla in particolare: gli specialisti nelle discipline ne sapranno sempre più, così gli esperti in scienze dell’educazione, i sociologi della scuola, gli psicologi dell’età evolutiva: quasi tutti sempre pronti a sottolineare quello che gli insegnanti non sanno e a prescrivere corsi assolutamente necessari alla loro professionalità. Proprio perché Zinato e collaboratori hanno come ‘lettore ideale’ l’insegnante in formazione o che si aggiorna, la postura adottata nel rivolgerglisi è ben diversa: non additano mancanze, non prescrivono adeguamenti professionali spesso vuoti o burocratici o grotteschi, non trattano l’insegnante da ‘fattore dell’apprendimento’, ma quale uomo o donna appassionati alla letteratura e al suo insegnamento. In diverse occasioni nel volume ci si fa carico delle difficoltà materiali, dei buchi nel tessuto di conoscenze di ciascuno di noi, della condizione di radicale empiria del mestiere, di solito rimosse dal discorso che fa della professionalità del docente un lubrificato sapere metodologicamente sempre reattivo e creativo.

 

Leggere e interpretare

 

Il libro si apre con due prefazioni: una classica presentazione della materia (Questo libro) e un meno consueto appello-dedica ai docenti, che è una sorta di piccolo manifesto per praticare una didattica della letteratura densa di impegno intellettuale (Per cominciare: quindici mosse). I capitoli che seguono sono organizzati in tre parti: Il mestiere dell’insegnante, che inquadra i compiti del docente entro l’assetto istituzionale della disciplina (indicazioni nazionali, manuali, scuole di formazione), invitandolo a prendere consapevolezza di questa dimensione, spesso superficialmente o snobisticamente sottovalutata, allo scopo di muoversi in essa con intelligenza e senza passivi adattamenti; Costruire la didattica, che affronta l’insegnamento della letteratura per ordini di scuola (a partire dalla secondaria di primo grado) e per problemi (il rapporto tra lettura dei testi e storia letteraria, il canone, la lettura domestica di libri, il rapporto tra classici e contemporanei, …); Strumenti della critica e applicazioni in aula, che mostra possibili percorsi didattici a partire da categorie e pratiche della critica letteraria (polifonia, stile, variantistica, tematologia, generi, convergenze tra letteratura e scienza). Il libro si chiude con un capitolo, Collaudare i concetti: Dante e l’esperienza letteraria, in cui il curatore mostra operativamente cosa significhi una didattica che, partendo da un frammento o caso particolare – qui Dante –, giunga al problema generale (o universale) del senso di studiare la letteratura.

 

Questo senso risiede appunto in un’esperienza del testo, saltando logicamente o praticamente la quale non si può nemmeno parlare di apprendimento della letteratura. Al centro è il momento della lettura del testo e della sua interpretazione. È bene «sottrarre l’opera letteraria a quell’apparente immobilità che la colloca all’interno di un periodo, di una poetica, di un ismo, di un’interpretazione» (p. 144). A catturare l’interesse degli adolescenti è sempre «una forma problematica, una figura vitale, un personaggio imprevisto» (p. XIX): «le forme di un immaginario [sono] governate da dispositivi di simbolizzazione e da associazioni di tipo latamente emotivo e confusivo che, nell’equilibrio della forma, trovano una loro straordinaria dicibilità e ricomposizione» (p. 83). Ed è questa, forse, una terza ragione della difficoltà dell’insegnare la letteratura, un oggetto non facile da domare, sempre a rischio di burocratizzarsi sia per ragioni interne (le fruste lettere dei dizionari di Montale, inevitabile catacresizzazione di ogni metafora una volta viva), sia per ragioni esterne: i vincoli dello spazio istituzionale – scuola o università – senza il quale nemmeno si darebbe insegnamento, ma anche, e forse oggi soprattutto, le pressioni di ideologie utilitaristiche e della performance. Per affrontare questo compito forse impossibile, un manuale in equilibrio tra teoria e pratica, tra puntuali conoscenze critiche e sensibilità didattica, tra rigore disciplinare e apertura al senso comune, come questo Insegnare letteratura, è certamente un ottimo viatico.

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