di Vanni Santoni
[Questo articolo è uscito su “Linus”, che ringraziamo.]
Come tutti, o almeno come tutti quelli della mia generazione, ho scoperto Howard Phillips Lovecraft grazie ai giochi di ruolo. Assieme all’immarcescibile D&D in scatola rossa (blu per gli Expert, turchese per chi stava più su), a GiRSA (poco fortunato acronimo per l’ottimo Gioco di Ruolo del Signore degli Anelli), Cyberpunk, Kata Kumbas e tutti gli altri, girava molto tra gli appassionati anche Il richiamo di Cthulhu, prodotto della fertile factory Chaosium e portato da noi dalla non men che leggendaria Stratelibri.
Chi era quello Cthulhu, e chi richiamava? La faccenda era tutta da scoprire – giocando. E giocando si scopriva qualcosa che rendeva questo gioco di ruolo, e il mondo in cui era ambientato, qualcosa di ontologicamente diverso da tutti gli altri. Nel Richiamo di Cthulhu, infatti, si moriva sempre. Oppure, nel migliore di casi, si impazziva, ritirando comunque il personaggio dal gioco. Non che in altri giochi di ruolo non si potesse morire; anzi, il rischio della scomparsa del personaggio per mano di qualche insidia era uno degli elelementi che davano sapore all’intera faccenda, ma col Richiamo di Cthulhu il discorso era differente. Col Richiamo di Cthulhu, follia e morte erano prassi, e infatti lo scopo finale, per il gruppo di personaggi impegnato in una campagna di cotal gioco, era quello di cavarsela almeno in parte – che so, poteva essere giù un risultato discreto finire con due o tre sopravvissuti, più uno rinchiuso in qualche manicomio, e solo due morti lasciati in qualche orrida cripta alle zanne di esseri repellenti. Del resto, i vivi, avrebbero avuto storie inconcepibili e tremende – ma, ahi, pure affascinanti – da sussurrare all’orecchio di qualche malcapitato, nella stanza polverosa della biblioteca di un’università di provincia o nella sala sozza di un’osteria da poco, consegnando lo stolto curioso a un destino simile al proprio – o peggiore.
Era chiaro che tutto ciò, inclusa la sfida – per non dire contraddizione – che il gioco poneva al genere stesso di cui faceva parte, poteva essere giustificato e spiegato solo dalla preesistenza di una vera e radicata mitologia di riferimento. Di un universo, che esistesse anche fuori dal gioco: un campo immaginario in cui le cose, semplicemente, andavano così.
Il passaggio successivo sarebbe stato ovviamente procurarsi i libri di questo Howard Phillips Lovecraft. Passaggio, pure, non scontato, dato che l’autore aveva generato legioni di emuli, ed era facile incappare in qualche Necronomicon farlocco (il che, potrebbe asserire qualche maestro d’arguzia, è comunque meglio di incappare in quello vero, dato che la follia sarebbe garantita fin da pagina 1) e raccolte di racconti altrui che riprendevano i cosiddetti “Miti di Cthulhu” (la definizione viene da August Derleth, uno dei tanti corrispondenti di Lovecraft), ampiandoli però a piacimento, e in genere senza che ce ne fosse alcun bisogno, essendo il corpus Lovecraftiano ampio e solidissimo – casomai da ridurre, più che da ampliare, mettendo sotto il tappeto certe filastrocche scritte nel suo periodo più razzista. Lovecraft, infatti, presenta in ogni senso una mitologia. Come e forse più di Tolkien, la cui precisione assoluta (leggi: ossessiva) e la sua cura linguistica, pur avendo gettato le basi del fantasy moderno, in qualche modo fissavano dei limiti; il mondo di Lovecraft è invece un mondo di sconfinate possibilità. Tutte terribili, ma pur sempre sconfinate. Lovecraft, come il suo amico e corrispondente Howard, padre di Conan il barbaro, non aveva la raffinatezza di un accademico e si muoveva abbastanza a naso (Tolkien avrebbe detto a caso): i nomi dovevano essere spaventosi, mica far capo a precisi campi semantici o radici linguistiche. È ben noto il suo appunto “AZATOTH – hideous name” (nome orribile).
Ma in effetti, a cercar bene, ero circondato dai Miti di Cthulhu, anche prima di trovare i libri giusti: nelle vecchie riviste di fumetti di mio padre potevo ritrovare i fumetti del grande Breccia tratti da essi – L’orrore di Dunwich sui tanti –, e pure in Dylan Dog, a cui in quegli anni ci andavamo tutti appassionando, faceva ogni tanto capolino il Sognatore di Providence: c’era pure una storia in cui Dylan lo vedeva dar da mangiare un suo braccio a una sorta di piccolo Dagon (Dagon, per chi non avesse confidenza col campo immaginario di HPL, è un Grande Antico che presiede alle acque oceaniche, dove prospera la sua progenie, ma che vanta seguaci anche in quel di Innsmouth).
Va da sé che nel giro di qualche anno avevo letto e riletto tutti i racconti e i romanzi di Lovecraft, ma la verità era che, come tutti i miei compagni di gioco, in qualche modo avevo già confidenza da prima col suo mondo. Anzi, forse la sua filosofia mi aveva già contaminato per il solo fatto di esser figlio della mia epoca: che senso aveva, del resto, credere in un mondo in cui “i buoni vincevano” quando eravamo poco più che insetti su un sasso che vorticava attorno a una fiammella gialla prossima allo spegnimento e oltremodo marginale tra miliardi di più grandi e lontanissime?
Tutto questo, assieme all’affetto per l’autore e il suo mythos, mi ha portato spesso a chiedermi perché Lovecraft fosse relegato a una marginalità da fissati e nerd, senza nemmeno la dignità mitologica di un Tolkien o quella filosofica di un Dick, e perché sedesse in qualche tavolaccio marginale da convention – certo a Lucca Comics c’era sempre posto per lui, quello sì – piuttosto che a quello dei giganti della letteratura.
Lo stesso Borges, che pure ne era lettore appassionato al punto di scrivere volutamente e dichiaratamente un pezzo “nello stile di Lovecraft” (si tratta del racconto Ci sono più cose…, contenuto in Libro di sabbia), non può in alcun modo fare a meno di vergognarsene apertamente, al punto di apporre una nota introduttiva atta a dichiarare fuor d’ogni dubbio la natura di gioco, anzi quasi di vezzo vizioso, dell’operazione.
La spiegazione che il letterato finisce per darsi è quella sentita dire tanto, troppo spesso. Lovecraft non siede al “tavolo buono” perché, banalmente, è uno di quelli che “scrivono male”. Il che è di per sé un’affermazione risibile, visto che prendendo la bontà dello stile come parametro unico del metro letterario, Nabokov sarebbe dieci volte più importante di Dostoevskij, e Le Guin o King sarebbero autori del tutto irrilevanti. Evidentemente non è così.
Se è vero, però, che il periodare di Lovecraft è ridondante, convoluto, tragicamente goffo nei dialoghi, a volte debitore della parte peggiore di quello sovraccarico di Lord Dunsany, autore da lui assai ammirato, e fa un uso ridicolmente ripetuto di avverbi tratti da aggettivi già di per sé pesanti – “orripilantemente”, “inconcepiblmente, ”“abominevolmente”… –, se è vero, insomma, che lo stile lovecraftiano, preso a singole frasi, lascia il tempo che trova o può addirittura essere derubricato a ridicolo, la verità è che, per quanto non sia dato sapere il grado di consapevolezza con cui agisse, l’autore di Providence faceva un grande e ampio lavoro sulla lingua, e lo faceva con un obiettivo specifico: suscitare più orrore possibile nel lettore. Chi volesse approfondire il tema, può peraltro farlo attraversio un ottimo saggio: Il linguaggio di Cthulhu di Daniele Corradi.
HPL, spiega Corradi, si era dotato, certo per tentativi e con l’insicurezza che lo caratterizzava (del resto, al di là della personalità, in vita era pur sempre considerato uno scrittore di “serie C”, spesso rifiutato, marginalizzato e criticato anche dalle stesse riviste “pulp” su cui scriveva; lontanissimo dai giri della letteratura che contava, era corrispondente e amico di altri disperati, e tanto scarsi erano i suoi risultati apparenti che arrivò a dirsi che “dopotutto, può darsi che il mio rapporto con la letteratura fantastica debba essere quello del lettore attento, dello spettatore, e non dello scrittore/creatore; non porterò a termine altri racconti a meno che non siano migliori dei precedenti, e nel frattempo continuerò a sperimentare”), si era dotato, dicevamo, di un suo vocabolario e di una sua lingua, che incarnavano uno specifico approccio alla sfida finale della sua poetica: nominare l’innominabile: quello che può apparire come una sorta di “cosmismo barocco”, come hanno scritto alcuni, va in realtà a edificare “uno schermo razionale che funge da velo contro il contenuto ignoto e orrifico, l’Oltre cosmico che filtra nel mondo; […] tale tensione tra forma e contenuti fonda la particolare estetica lovecraftiana, l’atmosfera peculiare di abominevole scoperta che l’autore intendeva, scientemente, ricreare perché anche il lettore ne facesse diretta esperienza.”
Ma è chiaro che se Lovecraft ha saputo sedurre non solo intere generazioni di giocatori di ruolo, ma anche grandi letterati come Michel Houellebecq, è perché il suo orrore cosmico non è soltanto un nuovo e (dimostratamente) fertile dispositivo della letteratura horror (o weird, come è stato definito il suo originale mix di orrore, fantascienza, low fantasy e dark fantasy), ma un approccio filosofico totalizzante, che potrebbe aver solo iniziato a dire la sua in un mondo allo sbando, in cui lo stato di crisi che riguarda oggi praticamente ogni campo della civiltà umana si unisce a una crisi spirituale forse insanabile e a un livello di incomprensione dei misteri del cosmo, e della realtà stessa, additittura peggiore di quello di cento anni fa, quando scriveva Lovecraft: sappiamo infatti molte più cose, ma abbiamo nel frattempo scoperto l’esistenza di una quantità ancora più grande di cose che non sappiamo.
Lovecraft, si sarà capito, è uno di quegli autori di cui va letto tutto (a quando il “Meridiano”? Quella che cinquant’anni fa sarebbe stata una battuta, oggi è una domanda assolutamente seria). Da dove cominciare, dunque? Se dovessi dare un giudizio soltanto letterario, direi di partire da La cerca onirica di Kadath l’ignota, peraltro uscito da poco in una nuova edizione tradotta da Mario Capello e curata da Marco Peano, da Alle montagne della follia, altro suo decisivo romanzo, oppure da racconti qua il già citato L’orrore di Dunwich (subito dentro il mito di Cthulhu!), Nyarlatothep (peggio che mai!) oppure da testi d’impianto solo all’apparenza più classico, come Herbert West, rianimatore, in cui di fatto nel 1921 Lovecraft anticipava l’intero filone degli zombie.
O forse no, forse no. Forse bisogna farsi guidare da un sogno, come Carter – o dal caso, che del sogno è parente: prendere in libreria o in biblioteca un Lovecraft – Tutti i racconti tra i tanti e cominciare da un racconto a caso, come un esploratore che decida di spostare la pietra irta di glifi minacciosi che protegge da sempre un’inquietante tomba, e andare a vedere cosa c’è dentro. Spoiler: l’orrore, la follia e la morte, ma anche, per dirla con un predecessore rispetto al quale lo stesso HPL non avrebbe mai creduto di poter sedere allo stesso tavolo (giusto a qualche sedia di distanza, ok) la sostanza stessa di cui sono fatti i sogni.
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[In copertina e lungo il testo: immagini create da Vanni Santoni con Midjourney]
il motivo per cui tutti evitavano ed evitano Howard Philip Lovecraft è che era un’esoterista e occultista grande amico di Blavastky, Crowley, Hutchinson e come loro facente parte della Golden Dawn, il Necronomicon è un libro veramente esistente ed il suo contenuto è veramente quel che Lovecraft descrive, ma per accedere ai suoi scan o foto (è conservato in una teca sottovuoto da qualche decennio) è molto, molto difficile
@Mudhands: #credici
(HPL non era amico di nessuno e tantomeno di quei personaggi, non era affiliato alla Golden Dawn e il Necronomicon non esiste. Ma bello pensare che esista! The power of literature, etc.)
H.P.L. era amico di un sacco di persone, tra cui, August Derleth, Robert Block, R.E. Howard; ma tutti scrittori ( lo testimoniano una montagna di lettere e racconti scritti in collaborazione, anche in forma ironica, nonché numerose fotografie). Conosceva l’esoterismo da grande lettore e letterato quale era , ma non ci credeva e non lo praticava. Il Necronomicon è uno pseudobiblia ovvero in testo inventato con una lore inventata. Con tutta la roba che ha scritto non avrebbe avuto il tempo di far parte di cavolate esoteriche o praticare riti vuoti, veramente non aveva tempo
Eliminate tutto questo..fatelo per il futuro dei nostri figli e gli adolescenti di oggi. Si Conosce bene tutto ciò di cui parlate .. l’esoterismo è ormai superato….e non ha fatto mai bene a nessuna anima.
l’immagine è impropria..i contenuti lo stesso.
Signora Morena, lei probabilmente ha guardato troppi video complottisti su Youtube e adesso è molto confusa. Di certo ignora la storia, la storia della letteratura e anche il significato delle parole. Vada a letto, magari legga un bel libro di H.P. Lovecraft e stia tranquilla, i nostri figli sono a posto, casomai a minacciare il loro futuro c’è la crisi ambientale ed ecologica, non certo l’esoterismo. Buona notte! <3
Ah, anche le benzodiazepine possono aiutare, se Nyarlatothep le disturba il sonno ;)