di Niccolò Nisivoccia
[E’ appena uscito per Mimesis Il silenzio del noi, di Niccolò Nisivoccia. Ne proponiamo un estratto].
1.- Il silenzio non abita più qui, per queste strade. Lo abbiamo rotto, violato, smarrito. Era dentro un pomeriggio d’estate: nell’aria immobile di giorni brucianti, al confine fra un’epoca e l’altra – Moro era morto da poco, ma fra poco l’Italia sarebbe tornata a far festa, la paura sarebbe stata dimenticata, ce la saremmo lasciata alle spalle, al suo posto la spensieratezza, il divertimento, e sarebbe arrivato perfino l’edonismo. Era dentro un’ombra nel suo incerto divenire: una giovinezza spalancata sul futuro, un presente carico di Storia e di promesse – come quasi sempre, del resto (ora, ad esempio, di promesse il futuro ne contiene ben poche, bisogna essere più bravi a scovarne).
Era fra le mani dei nostri padri, che solo molti anni più tardi avremmo capito; di padri che non avevano bisogno di parlare, né intendevano farlo. E forse proprio per questo: perché confidavano nel fatto che un giorno, a tempo debito, li avremmo capiti. O nel fatto che per essere capiti non sempre occorre parlare: possono bastare i gesti, gli sguardi, i comportamenti. Molti anni dopo ce ne saremmo ricordati, un po’ come nella celebre prima frase di Cent’anni di solitudine di García Márquez: “Molti anni dopo, di fronte al plotone di esecuzione, il colonnello Aureliano Buendía si sarebbe ricordato di quel remoto pomeriggio in cui suo padre lo aveva condotto a conoscere il ghiaccio”[1]. Mano nella mano, con i nostri padri: è l’immagine di un’infanzia, che basta a sé stessa. Padri dai volti seri, e severi; che dimostravano sempre più anni di quelli che avevano. Pensiamo a Moro, ancora: chi direbbe, oggi, che aveva appena poco più di sessant’anni al momento della sua morte?
Ma non è forse vero che altrove si parlava comunque tantissimo? Si parlava nelle riunioni di partito, nelle aule e nelle palestre scolastiche, nei dibattiti pubblici. Si parlava fumando, perché non c’era quasi nessuno che non fumasse, e non c’era luogo in cui non fosse consentito farlo. Il fumo è un elemento estetico quasi costitutivo del clima di un’epoca. Si fumava anche in televisione: Sanguineti, durante un confronto con Arbasino e Moravia, o Luigi Pintor mentre veniva intervistato da Antonio Ghirelli[2]. Sono solo due esempi fra milioni di altri possibili. Si fumava, si parlava, si discuteva, ci si scontrava, si litigava. Ci si poteva anche attaccare duramente, e ci si poteva togliere il saluto. Ciascuno parlava per sé, naturalmente, ma anche per un’idea – anzi, di più: per un’ideologia. Perché questa era la forma che assumevano le idee, a quell’epoca, ed è così quindi che si chiamavano: ideologie, ideali, progetti, visioni, utopie. Erano idee messe al servizio non di sé stessi, come individui, ma di un soggetto comune, nel quale le individualità potevano e dovevano confluire.
Ciascuno parlava a nome proprio, insomma, ma anche a nome di tutti: o quantomeno di coloro che fossero disposti a riconoscersi sotto quel medesimo nome, dentro quella medesima idea o quella medesima ideologia, da quella medesima parte. Non per questo l’io ne risultava negato, svilito, mortificato. Al contrario: l’inclusione di un io più piccolo dentro un io più grande, collettivo, generava un senso comunitario dal quale l’io più piccolo, individuale, risultava amplificato, potenziato, arricchito. L’io collettivo, il “noi”, era il luogo nel quale i sogni personali potevano ambire a trasformarsi in speranze concrete, i rancori e le rabbie in proteste consapevoli; ed era quindi anche un luogo, sia metaforico che fisico, di educazione – di educazione anche sentimentale.
Sappiamo bene che all’inclusione di chi si riconosceva da una medesima parte corrispondeva l’esclusione di chi si riconosceva nella parte opposta. Il disconoscimento era l’altra faccia del riconoscimento, della comunione fra simili. E conosciamo bene le radicalizzazioni dello scontro fra le parti opposte, fra le opposte ideologie. Le degenerazioni, le perversioni. La violenza, le morti, gli attentati appartengono alla Storia, hanno segnato un’epoca; e quell’epoca, non a caso, è simbolicamente finita proprio quando sono finite le ideologie, inghiottite dalla caduta del muro di Berlino (e poi dal dissolvimento dell’URSS). Come se questa fosse la soluzione, come se davvero si potesse pensare che dalla fine delle ideologie sarebbe derivata la fine delle contrapposizioni, degli scontri e delle violenze.
No, non è successo: ed è Storia anche questa. Alla fine di un’epoca hanno fatto seguito epoche diverse, nelle quali però violenza e conflitti non hanno cessato di esistere: semplicemente, si è cessato di confrontarsi e di scontrarsi in nome di un’idea, di un ideale. Ciascuno ha preso a parlare solo per sé, senza più pretendere né desiderare di parlare anche per altri; senza più aspirare alla condivisione delle parole.
Al netto delle loro degenerazioni, le ideologie davano a tutti e a ciascuno una coscienza di appartenenza venendo meno la quale il rischio era quello che rimanesse solo un vuoto originato dal suo esatto opposto, e cioè dall’individualismo più sfrenato. Il rischio è divenuto realtà, in effetti: ed è questo vuoto, oggi, il luogo nel quale le violenze continuano a compiersi, i conflitti a dividere. Non solo la parola, quale elemento costitutivo di una discussione e di un confronto, ma anche la sua degenerazione è diventata tutta individuale, solipsistica: ciascuno vive e lotta per sé, e solo per sé.
Ecco dove e quando è sparito il silenzio dei nostri padri: è sparito insieme a noi, è crollato insieme al “noi”.
2.- Certo: l’affermazione della soggettività è una delle grandi conquiste della modernità. Di più: l’individuo, come è stato detto, è un’invenzione della modernità. Perché dovremmo negarlo? E come potremmo? Perché non riconoscerlo, invece, e non riconoscere che si è trattato di un bene? L’affermazione della soggettività ha portato con sé quella dei diritti, a partire dal diritto più vasto di tutti, nel quale tutti gli altri sono contenuti: il diritto di avere diritti.
Oggi ci appare scontato ciò che una volta scontato non era, ed è anche vero che, se si vuole, tutta la Storia umana potrebbe essere letta nel senso di una continua e progressiva estensione dei diritti della persona (e dei correlativi doveri). Se la Storia ha un significato, si sostiene, il suo significato non è altrove che qui, appunto: nell’idea secondo la quale proprio attraverso la creazione dei diritti e dei doveri, che in quanto tali non esistono in natura, la ragione umana “cerca di dare forma e senso alla storia, e forse alla sua stessa esistenza”[3].
Ma quel che è certo, in ogni caso, è che solo con la modernità i diritti hanno cominciato a fare formale ingresso negli ordinamenti statali e costituzionali (anche perché prima della modernità è impossibile anche solo parlare di ordinamenti statali e di costituzioni); e che, di nuovo, solo con la modernità l’esigenza di tutelare i diritti e di consentirne il libero godimento è entrata a pieno titolo nelle agende del pensiero politico, se non altro occidentale. La prima costituzione della Storia moderna è quella promulgata dagli Stati Uniti nel 1787, preceduta dalla Dichiarazione d’Indipendenza del 1776: e già la Dichiarazione d’Indipendenza sanciva niente di meno che il principio del diritto inalienabile alla felicità. Che bellezza, no? E che vetta, già agli albori: una vetta che di per sé dovrebbe impegnarci come minimo a rimanervi sempre all’altezza, e che dovrebbe richiamarci ogni giorno alla consapevolezza delle nostre responsabilità.
Ciò detto, quello che appare altrettanto certo è che “la grande stagione dell’io”, come l’hanno definita di recente Chiara Giaccardi e Mauro Magatti in un libro intitolato Supersocietà, è stata in particolare il ventesimo secolo. È nel corso del novecento che finalmente, scrivono Giaccardi e Magatti, “in Occidente si è realizzato il sogno perseguito fin dall’umanesimo rinascimentale: creare le condizioni per dare a tutti la possibilità di essere liberi, di realizzare se stessi”[4]; è nel novecento che, finalmente libero, l’io ha potuto “esplorare il mondo, scoprire l’ignoto, assaporare i piaceri della vita, esercitare la propria creatività”[5].
È nel corso del novecento, in altre parole ancora, che l’individuo ha finalmente scoperto sé stesso e tutte le proprie potenzialità, in ogni direzione: tanto verso il basso quanto verso l’alto, tanto verso l’interno quanto verso l’esterno. Verso l’interno, la psicoanalisi ha consentito all’individuo di scendere negli abissi della propria anima, trovandovi di tutto e spesso arrivando a perdervisi – e non è un caso, da questo punto di vista, che il novecento sia anche il secolo della morte di Dio, qualunque sia il Dio o la divinità a cui vogliamo fare riferimento: perché all’ascensione verso il divino, verso dimensioni ultraterrene, si è via via sostituita questa discesa verso l’interiorità, nella psiche, in una dimensione più concentrata, più ristretta. Verso l’esterno, è soprattutto alla Legge che l’individuo ha cominciato a rivolgere le proprie istanze: alla Legge come strumento di riconoscimento della propria legittimità, prima ancora che di protezione dei propri interessi.
Tutto bene, tutto giusto. Il problema consiste nel fatto che, oltre un certo limite, la soggettività individuale si è ammalata. Emancipatosi dopo secoli dalla tirannide delle autorità e delle tradizioni, che ne impedivano l’affermazione e la liberazione, l’io ha finito paradossalmente per rovesciarsi a sua volta in tiranno, e quindi in vittima, di sé stesso. Forse non ha retto all’urto, si è ubriacato. Forse la libertà gli ha dato alla testa. Forse, dopo averla assaporata, non ha saputo evitare di abusarne. Non ha saputo contenersi, si è lasciato sopraffare dall’ingordigia.
La soggettività non si è accontentata della propria affermazione: si è gonfiata, si è ingigantita, ha assunto forme sempre più esasperate. Ha perso il controllo delle proprie azioni: e l’io, da oggetto di un discorso, si è trasformato in oggetto di un’idolatria. È diventato un io che non ammette più altre ragioni all’infuori delle proprie, che si erge a misura del mondo: un io “sciolto da ogni vincolo”, notava Vincenzo Paglia, “attore di dissoluzione, non di legami; di esclusione, non di inclusione; di liquefazione, non di solidificazione”[6].
Lo vediamo anche sul piano della Legge, perché neppure alle proprie istanze normative l’io ha saputo mettere un freno. Semmai anche il piano della Legge offre un esempio perfetto di una soggettività ormai incontrollata: e lo dimostra il fatto che alla Legge chiediamo sempre di più di intervenire continuamente su tutto. Se c’è una cosa che caratterizza la produzione legislativa degli ultimi anni, è proprio la sua moltiplicazione, la sua inarrestabilità. Non esiste quasi più ambito della realtà nel quale la Legge non voglia intervenire, per dire la sua: e siamo noi a chiamarla in causa. Come se tutto potesse e dovesse essere sempre e continuamente disciplinato, regolamentato, ordinato, a misura dell’io richiedente; come se ogni istanza, per il semplice fatto di essere reclamata, non potesse che essere assolutamente giusta.
Non sono forse il segno di un io degenerato, pretese simili, sintomo di un male da curare? Non è forse almeno febbricitante un individuo che crede che il proprio io coincida per forza con l’io di tutti, che nega la complessità del mondo riducendolo a misura del proprio sé? Io, io, io: questo io occupa tutto lo spazio, si infila ovunque, come un liquame. Toglie l’aria, non permette neanche di respirare. È una presenza arrogante, prepotente, assordante.
Note
[1]) G. García Márquez, Cent’anni di solitudine, trad. it. Mondadori, Milano 1986, p. 3.
[2]) Tanto il confronto di Sanguineti con Arbasino e Moravia quanto l’intervista di Antonio Ghirelli a Luigi Pintor si possono vedere su YouTube.
[3]) Queste, in particolare, sono parole di E. Felice, La conquista dei diritti. Un’idea della storia, il Mulino, Bologna 2022, p. 12.
[4]) C. Giaccardi, M. Magatti, Supersocietà. Ha ancora senso scommettere sulla libertà?, il Mulino, Bologna 2022, p. 13.
[5]) C. Giaccardi, M. Magatti, op. cit., p. 13.
[6]) V. Paglia, Il crollo del noi, Laterza, Bari-Roma 2017, p. 13.
[Immagine: Foto di Alec Soth]
Non è un caso che nella poesia, a partire dagli ultimi decenni del Novecento, l’io, perno su cui si reggeva la lirica tradizionale, sia venuto meno o si sia attenuato proprio in favore di un ‘noi’ o di un ‘si’ impersonale. La poesia vede sempre lontano