di Vincenzo di Marco

 

La domanda da porsi, dopo la lettura dell’ultima fatica letteraria di Renzo Paris, Il picchio rosso, Editoriale Scientifica, Napoli 2022, dedicato al ricordo dell’eccidio di Celano del 1950, non è quello di stabilire se lo scritto faccia riferimento al genere autobiografico, o alla memorialistica, quanto perché non si scrivano oggi con più frequenza opere che sappiano raccontare la realtà evitando i manierismi artificiosi di molta letteratura corrente. Questo volume fa parte di una trilogia marsicana, ambientato nella terra natale dell’autore, nel Fucino, tra ricordi d’infanzia, povertà, lotte sociali per l’affermazione del diritto all’esistenza, riti magici, scoperta della sessualità, emigrazione e faticoso ritorno alle proprie origini. Ma non va taciuto un ampio saggio dello stesso Paris, uscito sempre quest’anno per Einaudi, su Pasolini e Moravia. Due volti dello scandalo, dedicato a due scrittori centrali per il suo percorso intellettuale, che non ha solamente letti e commentati, ma conosciuti nella giovinezza e frequentati fino agli ultimi anni di vita di entrambi.

Renzo Paris ha sei anni quando è testimone in piazza, a Celano, della sparatoria dove trovarono la morte Agostino Paris e Antonio Berardicurti. Dodici i feriti, confusione generale, in una piazza occupata da manifestanti, carabinieri e guardie private del principe Alessandro Torlonia, ché furono queste ultime, con molta probabilità, a sparare sulla folla adunata per il rinnovo delle liste di collocamento al lavoro ‒ strano a dirsi ‒ in un Abruzzo ancora sottoposto a consuetudini servili manu militari. Le inchieste successive mandarono tutti assolti. Il governo era presieduto da Alcide De Gasperi, ministro degli interni Mario Scelba. In quegli anni si susseguirono incidenti e morti nelle strade a causa degli interventi delle forze di polizia, con l’evidente scopo di respingere illegalmente le proteste operaie, nel timore di una svolta a sinistra del Paese. Portella della Ginestra aveva aperto la strada ai martiri civili, poi i fatti di Genova e Reggio Emilia scossero un’Italia tutt’altro che pacificata dopo la lotta antifascista e il ritorno alla democrazia. La cultura e i metodi fascisti proseguirono in piena epoca democristiana. La riforma agraria non decollava, i conflitti erano molto diffusi nelle zone agricole, le proteste operaie si imposero più tardi. In aumento l’emigrazione interna verso le grandi città del Nord.

Il ragazzino Paris portava con sé il suo amato picchio rosso, che cadde “eroicamente”, è il caso di dire, anche lui sul campo. Quasi involontariamente si evoca Romani 8, 22, in cui Paolo accomuna il dolore umano e quello delle altre creature nel tentativo di esistere (“sappiamo che fino ad ora tutta la creazione geme insieme ed è in travaglio”). Una perdita dolorosa per il giovanissimo celanese, che quel giorno ebbe il battesimo di fuoco delle lotte sociali, di cui solo più tardi ne avrebbe decifrato i simboli virulenti, partecipando attivamente alla vita culturale e politica degli anni Sessanta del ‘900. L’estro affabulatorio si combina in questo libro con il crudo racconto dei fatti. Il Fucino è stato, nella storia abruzzese tra le due guerre, l’emblema della tirannia e dello sfruttamento, una valle di lacrime, dove imperversava la dinastia dei Torlonia, fatta di miseria diffusa e di nobiltà ostentata ma decaduta, che si incarna però in una vicenda dai contorni foschi. Paris riesce a restituirci una cronaca piccata e al tempo stesso fiorita dell’eccidio, agitando i fantasmi di altre anime inquiete della terra marsicana (cobelligeranti e compassionevoli al tempo stesso): come Tommaso da Celano, primo biografo di Francesco d’Assisi e autore del Dies irae, il Silone de Una manciata di more e del mito dei Celestini, e il Giotto della sedicesima scena affrescata della Basilica di Assisi, chiamata La Morte del Cavaliere di Celano. Un luogo apocalittico, rivelativo, che racconta come il coraggio e la dignità nascano, seppure a fatica, dall’asservimento totale. Sì perché il Fucino parlava tutto dei Torlonia, di una dinastia al centro della scena, regolatrice della vita e della morte, dell’onore e del servigio, della fame e della sazietà. Protagonista negativo, Alessandro Torlonia, felicemente ribattezzato: il Gattopardo del Fucino.

Il libro presenta capitoletti scanditi da una prosa asciutta, secca, nervosa, concentrata sull’oggetto del discorso, in cui si alternano i ricordi personali alle scene corali. Le invettive che provengono dal profondo dell’anima sono assolute protagoniste, il sarcasmo riempie molte pagine del libro, somigliante ad una terapia del dolore che l’autore, nei panni di un paziente sul lettino dello psicoanalista, sente di dover praticare per la propria guarigione. Su Alessandro Torlonia non si usano mezzi termini, Paris è più che esplicito: «Il Gattopardo del Fucino si guardava bene, dopo la messa, di correre a divertirsi nei lussuosi bordelli della Capitale, come il nobile personaggio del romanzo di Tomasi di Lampedusa. Anche le prostitute d’alto bordo appartenevano alla plebaglia. Aveva orgasmi, si fa per dire, soltanto davanti al castelletto dei lingotti d’oro, chiusi in un caveau della sua banca, come Paperon dei Paperoni». La nobiltà taroccata dei Torlonia, come scrive Ignazio Silone nel romanzo Una manciata di more, usando l’appellativo “tarocchi” per i suoi appartenenti, è la convinzione di fondo della narrazione di Paris. Sotto la patina di finta lucentezza del potere nobiliare in crisi, che fu sostenuto dal fascismo e tollerato dalla DC, esisteva un mondo brulicante, di uomini e donne immiseriti, che lentamente, e dignitosamente, cercavano di scampare alle loro sfortune. Non sappiamo con certezza se nell’aprile del ’50 si assistette in piazza ad una autentica lotta di classe. Certo lo spiegamento politico, i giornali, l’attivismo delle opposizioni fu rapido e consistente. Luigi Pintor, allora inviato de L’Unità, scrisse un articolo molto diretto sull’accaduto (di cui Paris riporta ampi stralci). Il giornale uscì con una edizione straordinaria il 2 maggio.

Il libro consta di numerosi riferimenti ai particolari linguistici, ai detti proverbiali, ai dialettismi, alle manfrine giovanili, ai morti di fame chiamati “Ciarluttò” (con il chiaro riferimento a Charlot, sempre popolarissimo nei ceti popolari ma adoperato dalla gente del posto in senso spregiativo), ai pigalotti nullafacenti, al picchio trovato in un nido (“piccamurro” per i celanesi), ai mazzamurelli (folletti); non per questo ci sentiamo di definirlo un itinerario di ricerca delle radici mossa dalla nostalgia per il passato. La commozione dell’animo, che pur si sente in queste pagine (e che tende a costituire una piccola epopea da “vita, morte e miracoli”, per intenderci), è accompagnata spesso dal rimorso e dall’umore esacerbato per le troppe ingiustizie subite dal popolo marsicano, e mai sanate, aggravate dall’emigrazione nell’urbe capitolina, dove, trasferitosi con la famiglia, Paris troverà altri grattacapi e altre occasioni di educazione sentimentale e politica. Dalla Marsica dei baraccati e dei braccianti fino alla Roma del sottoproletariato e delle borgate, pur lette con l’occhio del giovane immigrato che si forma sui libri e frequenta i luoghi di ritrovo della nascente contestazione giovanile, cui segue il lavoro di redattore (per Nuovi Argomenti di Pasolini e Moravia) e di docente universitario. Si pensi solo alla figura strabica di Giuseppe detto Tiresia, un co-protagonista che impersona una via di mezzo tra il guru informatico zen e il simpatizzante di Potere Operaio, e che funziona da cassa di risonanza di tutte le nevrosi estremistiche della fine degli anni Sessanta. Malauguratamente, secondo il pensiero di Renzo Paris, quelle lotte devianti saranno causa del declino delle giuste istanze del ’68, presto naufragate nel terrorismo (Paris non aveva esordito nel 1973 con Cani sciolti, una cronaca romanzata che anticipa la crisi giovanile fatta di rabbia e insoddisfazione?). Non è quello che è accaduto ‒ è il riso amaro dell’autore ‒ con l’attuazione del piano della P2 di Licio Gelli, cioè con la fine della cultura di sinistra e il ritorno delle élites al potere?

Potrà sembrare strano: il ritorno a casa ‒ senza con questo entrare nella facile mitologia del nostos omerico ‒ non riconcilia con la memoria dell’infanzia. Oggi, dai caseggiati dove un tempo abitava la famiglia Paris si fa avanti una popolazione di nuovi immigrati di cui è difficile stabilire la provenienza. Tra quelle palazzine familiari e quelle strade malmesse, dove un tempo risuonavano le voci delle popolane, si rincorrevano i bambini, si vedeva passare l’asinello con la soma sul dorso e i vetturali diretti ai mercati, o il padre a vendere l’ova lontano da casa, sente l’eco dei gerghi stranieri. Ma la musica non è cambiata. Povertà e solitudine, precarietà e emarginazione, abitano sempre in quelle contrade. Con l’aggravante sovrappeso della generale indifferenza degli autoctoni e di chi guida la compagine pubblica. Si vede proprio che la storia insegna poco o nulla.

Che senso può avere oggi inserire i propri ricordi personali all’interno di una vicenda più ampia che rischia di riaprire amaramente la vecchia ferita dell’aprile 1950, e non ancora rimarginata (degna della fosca novella La morte del Duca d’Ofena di D’Annunzio)? Che obbliga l’autore a riportare a galla storie di manovalanza e squadrismo fascista, di scioperi alla rovescia e di cronache da libro Cuore, di parlate gergali e di “vile agguato”, in riferimento al crimine delle guardie dei Torlonia non sanzionato dal ministro Scelba? Non si tratta di uno stile disadorno, voluto con l’intenzione di riproporre una letteratura realistica che tutti dicono di rifiutare? Pensiamo di no. Si tratta, al contrario, della possibilità di sperimentare una scrittura a più dimensioni: memoriale, fattuale, politica, biografica. Essa prevede certo dei salti, delle fratture nella durata e nell’intensità linguistica, condizionata da interruzioni che ‒ è ovvio ‒ comportano delle dissimmetrie incompatibili con la scorrevolezza di tanta letteratura recente pensata a tavolino. Uno di questi modelli potrebbe essere il citato Luigi Pintor, autore di Servabo e de Il nespolo, memorie personali che sono il risultato di un periodare corto e concentrato, essenziale, che scandisce il passare del tempo attraverso ripetuti pensieri riflessi, martellanti, con poche annotazioni esterne e aggettivazioni superflue. Letterario ma al tempo stesso anti-letterario. Storia corale prima ancora di essere una storia individuale.

Se volessimo fare un confronto con due degli esempi migliori della nostra letteratura contemporanea, Michele Mari e Emanuele Trevi, avremo di che dire. Fermo restando l’assoluto valore dei due scrittori, la strada intrapresa da Paris è decisamente diversa. Ad esempio Mari, in Leggenda privata del 2017, sceglie la via del fantastico horror, con il frequente ricorso al gioco divertito di parole intonate alla frivolezza, e lo sfoggio di una lingua ricercata e preziosa. Questa tendenza è ben presente fin da La stiva e l’abisso, del 1991, in cui i viaggi, il mare e la tragedia umana sono sublimati dallo stile fantastico della narrazione. Anche Emanuele Trevi, in Due vite del 2021 (o nel più datato Musica distante), riempie lo spaccato biografico di due storie parallele con una sfarzosa veste letteraria, fatta di citazioni a largo giro. Di certo gli insegnamenti del Contini dell’antologia Italia magica, e di Sergio Solmi, autore dei Saggi sul fantastico, hanno ancora un largo seguito tra gli impazienti estimatori delle patrie lettere. Pensiamo solo al successo de Il doge di Aldo Palazzeschi del 1967.

La letteratura odierna maggiore sembra aver rinunciato al colloquiale-naturalistico e all’impegnato-realistico, preferendo le opportunità offerte dal genere surreale, magico e sadico, decisamente più redditizio. Il culturalismo è il suo peccato mortale. Mentre Mari sceglie il percorso dell’artista di genio alle prese con il nevrotico-esistenziale, Trevi si rifugia nella scrittura sacerdotale-cardinalizia, cervellotica e auto-celebrativa. Renzo Paris preferisce un percorso del tutto diverso. Siamo grati a lui per questa scelta in controtendenza. Capita di rileggere, in uno dei capitoletti de Il picchio rosso, la domanda di Farinata rivolta a Dante nel X dell’Inferno: “Chi fuor li maggior tui?”, che sta lì a ricordare come la sorte degli uomini è ancora appesa al destino sociale e politico, al ruolo centrale detenuto dalle genealogie alte, come si usa dire. Al contrario, coloro che sono accomunati dalla solidarietà del dolore, dal ricordo delle disgrazie, condannati dalla loro genealogia bassa a patire più degli altri, e che non posseggono neanche solide convinzioni e libertà di scelta, riescono pur sempre a scrivere storie ricche di dignità non solo simbolica. Non siamo fermi al piagnisteo. Il meglio che la nostra letteratura è riuscita ad esprimere nella seconda metà del secolo scorso rimane pur sempre quello di cui non si può parlare, perché di quello si deve tacere.

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