di Emanuele Zinato
1. Stato dell’arte?
La teoria letteraria è una riflessione sui fondamenti, le ragioni e gli strumenti della critica. La critica, invece, è l’operazione di chi descrive, interpreta e valuta un’opera: comporta un agire comunicativo legittimato in qualche modo da un’istituzione culturale (scuola, università, editoria, giornalismo) e capace di conquistarsi un ascolto mediante la forza argomentativa dello stile.
Il senso comune attuale ritiene inutili e, in fin dei conti, illegittime, sia le parole della critica che quelle della teoria. L’attuale crisi di tutti gli studi letterari (storiografici, filologici, comparativi), si iscrive in una condizione più ampia: il tramonto dell’umanesimo e l’avvento del capitalismo cognitivo. A fine Novecento, del resto, il «programma critico, orientato sul modello della linguistica, che mirava alla fondazione di una scienza “forte” della letteratura»,[1] mostrava anch’esso nel momento del suo tramonto il proprio legame con il dominio della forma merce, sia pure in una fase precedente alla sua articolazione attuale:
A fronte della moltiplicazione all’infinito della produzione culturale, alla fungibilità dei suoi prodotti e alla loro sussunzione sotto il dominio della forma merce, la critica “scientifica” ha tentato di svolgere la stessa funzione di cattura, di addomesticamento e di umanizzazione che le scienze fisiche esercitano nei confronti dell’infinito naturale. Uno strumento di controllo, ma anche un regolatore omeostatico d’angoscia.[2]
Di quel programma strutturalista, a baricentro francese, oggi sembra non sia rimasto più nulla, se non alcune perduranti caricature affibbiate alla vecchia teoria percepita, appunto, come dogmatica e logocentrica. Del resto, con il termine Theory nel nuovo millennio ci si riferisce a tutt’altro: ai nuovi filoni degli Studies, originati tanto dalle rivendicazioni sessuali e etniche nei confronti del “canone occidentale” quanto dal bisogno di intercettare gli incontri fra domanda e offerta nel mercato internazionale della ricerca. Il fenomeno della rincorsa eclettica all’ appeal nei bandi e nei progetti da parte dell’odierna “università in scatola”[3], a ben guardare è stato preconizzato già a fine Novecento da Remo Ceserani in un breve apologo:
I “metodi” elaborati e offerti a modello nelle ondate successive dei movimenti critici della modernità, sono diventati degli strumenti o utilities, dei programmi di lavoro ad applicazione indifferenziata, distinti solo per l’etichetta, o la griffe brevettata. […] Non molto tempo fa, nella mensa di una università americana, mi è capitato di seguire la conversazione, a un tavolo vicino, di due studenti iscritti a un dottorato di critica letteraria: “devo fare”, diceva un giovane magro dall’aria intensa e nervosa a una sua compagna dolce e comprensiva, “un paper su Variations on a Summer Day di Wallace Stevens. Ho pensato di utilizzare un po’ di Bachtin, un po’ di Foucault, un po’ di Bourdieu. Cosa ne dici?”. I metodi della critica sono diventati un semplice strumento da applicare e rimescolare a seconda dei casi, del tutto casualmente.[4]
Il cosiddetto Cultural turn consiste, sul piano effettuale, in una serie di studi a regime generalista, contenutistico o ideologico (studi postcoloniali, etici, di genere, queer, visuali, ecocritici, ecc.) “ridotti a un’agenda tematica angusta: il potere, il bios, il genere, il desiderio e il godimento, il soggetto e le moltitudini, la coppia dominanti-dominati, il capitale e lo spettacolo”. [5]
Non si può più formulare dunque, come Northrop Frye nel 1957, una Anatomia della critica né tracciare, come vorrebbe la vulgata del “progettese” attuale, uno “stato dell’arte” di queste discipline. La loro mutazione è così profonda e pervasiva da rendere vuote di senso e mutate le stesse categorie che si impiegano per demistificarla: la crisi delle mediazioni, il modello dell’ “accumulazione flessibile”, la diffusione nell’ università-azienda delle nuove tecnologie digitali e comunicativo-relazionali in luogo delle vecchie scienze umane.
2. Ratatouille: un apologo allegorico
Per abbozzare una verifica, apparentemente semiseria, del campo disciplinare in questione, disponiamo della figura del critico gastronomico Anton Ego nel fortunatissimo film di animazione Ratatouille (2007) prodotto dalla Pixar e diretto da Brad Bird e da Jan Pinkava. La vicenda, che si svolge in Francia nei medesimi anni in cui trionfava lo strutturalismo, è permeabile a una lettura dei temi culinari come allegoria del campo letterario: il protagonista Rémy è un giovane ratto che dalla provincia si inurba a Parigi, come nella grande tradizione del romanzo balzacchiano, ma le sue Illusioni perdute riguardano i sapori della cucina anziché le delizie del successo librario. Anziché vivere di spazzatura come gli altri topi, sogna di diventare un grande chef prendendo a modello Gusteau, il cuoco che in televisione, con il motto democratico Chiunque può cucinare, consiglia a tutti gli aspiranti artisti di non arrendersi mai. Alla fine della vicenda entra in scena il critico, temutissimo dai ristoratori, con una funzione tutt’altro che marginale. Questo personaggio condensa, potenzia, conferma e al contempo sovverte l’intera serie di luoghi comuni sulla produzione culturale e sulla funzione della critica: Ego è elitario, – l’esatto opposto di Gusteau, – ed è mortifero, eccentrico, egotico e così potente che con una sola sua recensione può decretare il fallimento o la fortuna di un ristorante. Scrive infatti continue stroncature perché lo snobismo funebre del suo gusto capricciosamente individuale non può risultare mai davvero soddisfatto da una pietanza: entrando nel ristorante di Gusteau il critico esige sadicamente che gli sia servita “una prospettiva” ma quando il topolino Rémy gli fa assaggiare la sua ratatouille, un piatto povero ma preparato con genio, Ego viene proustianamente trasportato nel tempo perduto in cui da piccolo la mamma gli preparava quello stesso cibo per farlo felice. L’epifania gustativa muta per sempre Ego, che dismette il suo intellettualismo algido e il suo stesso mestiere aristocratico, pronunciando un solenne monologo autocritico: “c’è più dignità in un’opera d’arte mediocre che in una mia stroncatura (…). Non tutti possono diventare dei grandi artisti, ma un grande artista può celarsi in chiunque”.
La parabola proustiana di Ego sembra, in apparenza, confermare il luogo comune dominante sull’inutilità della critica nel mondo del fai da te culturale; sovverte invece l’altro luogo comune egemone: quello dell’indistinguibilità, nell’epoca ipermoderna, fra spazzatura culturale e prodotti ad alta formalizzazione estetica. La prima tesi è stata espressa con euforia da Alessandro Baricco e riguarda la presunta “insurrezione” digitale di google e di tripadvisor che rende vana ogni mediazione “novecentesca” nella scelta di uno spettacolo, di un libro, di un ristorante, di un luogo di vacanza[6]. La seconda tesi è stata argomentata come ineluttabile da Gianluigi Simonetti: se oggi a «decidere il successo di un’opera (…)non è più il responso critico, o il rispetto degli altri scrittori, ma in buona misura il successo commerciale e la risonanza mediatica»,[7] la critica letteraria, allora, deve cambiare la propria postura e limitarsi a descrivere il “circostante” in cui, per restare nell’orticello periferico italiano, hanno più rilevanza i romanzi di Mazzantini, Volo, Moccia, D’Avenia o Melissa P. di quelli di Pecoraro, Falco, Trevisan, Sarchi, Siti, Pariani o Vasta. La letteratura di oggi, secondo alcuni critici dell’estremo contemporaneo, corrisponderebbe insomma al junkspace dell’urbanista olandese Rem Koolhaas[8], lo spazio-spazzatura urbano, ingovernabile, privo di qualità architettoniche e di determinazioni formale, ma carico di utilità economiche, dilatabile all’infinito.
Visto come una parabola della produzione estetica, Ratatouille può aiutare a svelare il paradosso della critica e della teoria nella situazione odierna. Nel film, l’intreccio sapiente di costanti tematiche o di “figure dell’invenzione”[9] si fonda sull’accostamento di due campi normalmente percepiti come opposti: i topi e il cibo. L’animale più lontano dal comune senso di pulizia viene qui accostato all’alta cucina: se l’emblema stesso della sporcizia e della fogna può diventare un artista produttore di raffinate ricette, il critico gastronomico non può che dismettere la sua funzione di giudice e mediatore e limitarsi come gli altri a fruire del piacere della buona tavola. La formalizzazione (estetica e gastronomica) nel film resta in tal modo il valore dirimente: il talento artigianale di Remy e il piacere culinario che ne deriva sono opposti sia al junkfood, l’ alimentazione industriale preconfezionata, che agli scarti avariati di cui si nutrono i topi.
Per quali ragioni, allora, mentre nel campo della cucina nessuno sosterrebbe che i buoni ingredienti e la loro messa in forma siano eguagliabili agli snack o alla spazzatura, in campo letterario il critico può viceversa ripristinare la propria voce e la perduta legittimità dichiarando indistinguibile la paccottiglia dalle opere di valore?
3. La resistenza didattica della critica e della teoria
Le gerarchie culturali si sono riassestate rendendo irrilevante il ruolo dei critici, a cui nel corso dei secoli il mondo occidentale aveva attribuito la responsabilità della selezione in base a criteri di gusto e di valore: da tempo ormai è evidente che non sono loro a stabilire i criteri o a creare le gerarchie ma il mercato culturale che si governa da sé, come nel mito originario del liberismo economico. La mescolanza dei generi, la contaminazione tra l’alto e il basso dell’immaginario e delle relative scritture, esitano ogni giorno in una immane quantità di oggetti culturali omogenei: se tutto è Midcult nulla più lo è, o viceversa.
Il critico letterario è parte del mercato di cui si limita a percepire e a descrivere la spettacolare velocità e esorbitanza: può farsene complice divenendo un comunicatore pubblicitario nelle “terze missioni” accademico-aziendali oppure può rifugiarsi negli anfratti, sempre più limitati, che le università ancora concedono agli specialismi filologici e eruditi. Una parte della critica odierna, dunque, sorda al paradosso di Ratatouille, dichiara indistinguibile ciò che è avariato da ciò che è raffinato per conscio o inconscio opportunismo mediatico. Ne è un sintomo, a ben guardare, la stessa eccessiva fortuna del concetto-termine ibrido/ibridazione diffusamente applicato a ogni opera:
Anche l’ibridazione, come la velocità, è una caratteristica della comunicazione di massa; anche l’ibridazione, come la velocità, rappresenta una forma di adeguamento della parola scritta alle abitudini e ai gusti di una civiltà dell’immagine. Anche l’ibridazione, come la velocità, prova a surrogare i limiti spettacolari della letteratura “solo scritta” cui ci aveva abituato la cultura moderna.[10]
Tra l’opportunismo mediatico e l’arroccamento specialistico c’è probabilmente una terza via: provare, volta per volta, a distinguere in un’opera un contenuto di verità dall’opacità della merce che la contiene. Inventare le pratiche per non eludere e non rimuovere il lavoro primordiale della critica, vale a dire “distinguere” fra spazzatura e buona cucina, fra qualità individuale e media generale, e marcare una differenza strutturale e una gerarchia qualitativa.
La buona letteratura italiana di oggi, solo per fare un esempio, non è indistinguibile dal ciarpame urbanistico del junkspace; piuttosto, quando lo elegge a tema, lo trasfigura con gradi stilistici diversi di empatia e di furore:
Siamo circondati da case color cremino, da condomini color nocciolina, da residence giallini e marroncini. Mai giallo, giallino. Mai verde, verdino. Mai celeste, celestino. Mai una casa, sempre e solo casette. [ … ] camminare per una qualsiasi di questa zone residenziali industriali o artigianali, significa infilarsi in una pattumiera urbanistico-architettonica in scala uno a uno[11].
I veri banchi di prova della tenuta del discorso critico sembrano essere i soli momenti in cui questo può ancora farsi discorso pubblico: soprattutto la didattica, a scuola e all’università. L’atto critico-didattico è in sé utopico perché prevede che insegnanti e studenti, pur nell’assenza di un lessico comune, condividano le medesime procedure interpretative; che esplorino cioè le omologie e le opposizioni fra le opere e il mondo, riutilizzando con consapevolezza i concetti-guida più elementari della teoria: autore, lettore, temi, generi, forme, storia, valore.[12] Le risorse della critica, del resto, sono di per sé pedagogiche: la sua funzione più rilevante è una guida al buon uso dell’immaginario.
E’ fin troppo evidente come la “ragione didattica” egemone non possieda più nemmeno il lessico per dare cittadinanza, fra le proprie tabellari “competenze”, a queste esperienze plurali e conflittuali.[13] Oltre alla retorica della valutazione e dell’eccellenza, è soprattutto la neolingua tecnodidattica a distruggere lo spazio residuo del critico-docente: le skills e le procedure da problem solving divenute il modello delle riforme, dissolvono i contenuti stessi e la funzione di mediazione dei docenti. E il memetelling digitale imposto dall’odierno Piano Scuola 4.0 prefigura il nuovo frullatore ludico dell’insegnamento-spazzatura del futuro. E tuttavia, la critica come didattica, può continuare sotto banco a porsi il compito di insegnare a distinguere le ragioni problematiche e ambigue dell’invenzione letteraria, ponendo la lettura dei testi, per frammenti e in un sistema culturale fieramente ostile, in una situazione pedagogica.
Come ha scritto Francesco Orlando, ciascuno di noi in quanto essere umano è abitato da due diverse logiche, inseparabili: la logica che sa rispettare il principio di non-contraddizione (quella che usiamo da grandi e da svegli, che domina il mondo dalle rivoluzioni industriali in poi), e l’altra logica che tende a generalizzare le somiglianze, da cui si affranca a fatica il bambino, che persiste nei sogni o nei sintomi o nei motti di spirito[14]. La letteratura come formazione di compromesso fra queste due logiche, se mediata dalla voce del docente, può ancora aiutare gli studenti a dare senso a questo intreccio conflittuale nelle proprie vite e nelle proprie menti, verificandolo e riconoscendolo in semiclandestinità, in “contrattempo”[15], nella concretezza delle opere.
[Una versione più ampia di questo articolo uscirà sulla rivista Filigrane]
Note
[1] M. Lavagetto, Introduzione, in Id. (a cura di), Il testo letterario. Istruzioni per l’uso, Roma-Bari, Laterza, 1997, p. xi.
[2] D. Giglioli, Oltre la critica, in XXI secolo, vol. 2: Comunicare e rappresentare, Istituto della Enciclopedia Italiana, 2009 (http://www.treccani.it/enciclopedia/oltre-la-critica_(XXI-Secolo)/)
[3] F. Bertoni, Universitaly. L’università in scatola, Laterza, Bari-Roma, 2016.
[4] R. Ceserani, Guida allo studio della letteratura, Roma-Bari, Laterza, 1999, pp. xix-xx.
[5] B. Carnevali, Contro la Theory. Una provocazione, «Le parole e le cose», 16 set. 2016 https://www.leparoleelecose.it/?p=24320
[6] A. Baricco, The Game, Einaudi, Torino, 2018
[7] G. Simonetti, La letteratura circostante. Narrativa e poesia nell’Italia contemporanea, Bologna, il Mulino, 2018
[8] R. Koolhaas, Junkspace. Per un ripensamento radicale dello spazio urbano, Quodlibet, Macerata, 2006. L’analogia è stata sostenuta da Guido Mazzoni, in La letteratura nell’età dello svago, “La Repubblica”, 7 aprile 2018.
[9] V. Sturli, Figure dell’invenzione. Per una teoria della critica tematica in Francesco Orlando, Quodlibet, Macerata, 2020.
[10] G. Simonetti, La letteratura circostante. Narrativa e poesia nell’Italia contemporanea, Bologna, il Mulino, 2018, p. 26.
[11] V. Trevisan, I quindicimila passi, Einaudi, Torino, 2002, p. 82.
[12] R. Luperini, Insegnare letteratura oggi, Manni, Lecce, 2005.
[13] M. Conte, Didattica minima. Anacronismi della scuola rinnovata, Libreriauniversitaria.it, Padova, 2017.
[14] F. Orlando, A che cosa serve la letteratura? in Per Francesco Orlando. Testimonianze e ricordi, a cura di Davide Ragone, ETS, Pisa, 2012, pp. 9-12.
[15] G.L. Beccaria, In contrattempo. Un elogio della lentezza, Einaudi, Torino, 2022.