di Alberto Laiseca
[E’ uscito in questi giorni per le edizioni Wojtek Per favore, plagiatemi!, un testo ibrido, tra saggio, manifesto, romanzo, dello scrittore argentino Alberto Laiseca (traduzione di Loris Tassi, a cura di Federica Arnoldi, Luca Mignola e Alfredo Zucchi). Ne presentiamo qui un estratto]
Il plagio è la distillazione dell’artista. L’opera del plagiario l’alambicco.
La distanza più breve tra due opere d’arte è il plagio. Perché è inconcepibile che due parti perfette di una macchina non compongano un insieme discontinuo e al tempo stesso perfetto.
Agli studenti di plagio
Il movimento estetico plagiario attuale deve procedere alla sistematizzazione delle forme plagiarie pure. Chiunque può creare. Plagiare è per gli eletti.
Tutti i saggi e le conferenze sul plagio degni di lode devono contenere diversi plagi. Per questo plagiando la famosa conferenza di Oscar Wilde “Agli studenti d’arte” vi dico: Nella conferenza che oggi ho l’onore di tenere non intendo proporvi una teoria filosofica sul plagio (lascerò questo compito ai creatori oziosi), ma solo spiegarvi come fare plagi. Fin qui il saccheggio letterario; adesso continuo senza ricorrere alla spinta di alcun motore.
Se riuscissimo a inventare uno stile potremmo plagiare a nostro piacimento: perché quando c’è lo stile, allora le idee e perfino le immagini vecchie si presentano in forma nuova e le nuove, qualora ce ne fossero, lo sarebbero due volte.
Temendo la critica, l’artista che non ha ancora una solida personalità estetica tende all’irreggimentazione o alla fuga. Gli capita la stessa cosa che succede all’adolescente, che assume una particolare posa perché gli manca la giusta formazione, e adotta il primo modello che gli capita a tiro. Basta che qualcuno faccia un commentino ironico, ed ecco che subito batte in ritirata lasciandosi dietro tutti gli attrezzi, le salmerie, gli emblemi e perfino le calzature. Ma noi, i firmatari del manifesto del plagio sistematico e progressivo, abbiamo l’obbligo di agire con più magnificenza. Naturalmente, quando parlo di magnificenza, intendo significare che la nostra sarà l’imitazione della magnificenza, che la nostra codardia sarà l’imitazione della codardia, che il nostro eroismo sarà in ogni momento l’imitazione del valore.
Un uomo sta scrivendo seduto a un tavolo. Entra un amico e gli chiede:
«Che stai facendo?».
«Plagiando».
«Bah! E che importanza può avere?».
«Che importanza? Lascia che ti spieghi, compagno tecnocrate: plagiare senza farsi scoprire presuppone poco meno di una meccanica quantistica d’avanguardia. Perché i plagi molto, molto sottili possono essere spiegati facendo ricorso alla meccanica classica solo quando si tratta di grandi numeri, la qual cosa è imperfetta. Ma…».
«Smettila di delirare. Cosa stai plagiando?».
«… ma nell’intimo dell’atomo (non mi interrompere, non essere maleducato); ma nell’intimo plagiario dell’atomo, ossia quando si ha a che fare con gli infinitesimali numeri quantici… Sto plagiando la teoria dei quanti di Planck».
«Ah».
Ed ecco qui ciò che scrive il sistematizzato:
Il plagiario non si limita affatto a deformare le immagini e a ridistribuirle (se facesse una cosa del genere non sarebbe altro che un volgare artigiano). Al contrario: è costretto a compiere tutta una ridistribuzione quantistica delle immagini plagiate. Ovvero ad assegnare a ognuna un livello energetico e un numero. È la cosiddetta quanto-plagiazione dell’atomo di arte.
La nuova meccanica plagiaria dovrà prestare specialissima, specialissima attenzione all’esistenza del minimo plagiario d’azione. Ovvero il quanto d’azione, che come tutti sanno è l’integrale curvilineo relativo alla traiettoria della quantità di movimento di un’intera vita dedicata a svaligiare gli altri senza farsi beccare. Rifiutate invece una volta per tutte la vecchia immagine dell’autore che si prostituisce nella meccanica classica della copia, perché ora vedrete qualcuno che crea a partire dal meraviglioso, meraviglioso plagio, facendo germogliare escrescenze mostruose sulle braccia, sulle gambe e sui tronchi mutilati, e sfuggendo così, con un solo tratto di penna, a quella miserrima, miserrima manifestazione di creazione meccanica alla quale gli artisti creatori ci hanno abituato.
Molti artisti non osano citare un libro, un passaggio o un’idea che si avvicini alla loro opera in qualche punto. Non vogliono ammettere l’esistenza di predecessori, a volte nemmeno di fronte a loro stessi. Temono di essere considerati poco originali o semplici imitatori. Generalmente un autore non parla di plagio, così come le persone sane non parlano di cancro: non perché si sentano particolarmente forti, ma proprio perché non ignorano che l’essere umano è predisposto a morire (ci sono precedenti in famiglia). La morte è trasmissibile. Siamo di vetro, diceva il dottor Vidriera.
Cercare di scovare plagi dentro di noi e combatterli è pericoloso: può portare all’autodistruzione. Ma di questo devono preoccuparsi i creatori. Noi abbiamo altri problemi: sistematizzare tutti i meccanismi plagiari che scopriamo dentro le nostre trasformiste persone (il plagio è una forma di trasformismo); non permettere che i suddetti meccanismi muoiano: coltivarli come un fiore sacro (detto tra noi, sto plagiando un titolo di Henry Rider Haggard).
Così dunque propongo la firma di un Manifesto – segreto, fin d’ora – sul plagio sistematico e progressivo.
È ovvio che quando un autore stimato è ossessionato dal plagio ha solo due strade davanti a sé. La prima: smettere di scrivere. La seconda: scrivere sull’argomento nel modo più delirante che ci sia, con la speranza di raggiungere l’equilibrio. Ma dinanzi a noi, plagiatori dichiarati, c’è una terza possibilità: accogliere il plagio a braccia aperte. Non tentare di allontanarlo: favorire la sua propagazione sistematica fino a trasformarlo in una forza motrice totale. Amare il plagio.