di Gianluigi Simonetti
[Riceviamo e pubblichiamo la replica di Gianluigi Simonetti a due pezzi, di Andrea Cortellessa ed Emanuele Zinato, usciti nei giorni scorsi su LPLC].
1.
A distanza di pochi giorni, il 22 e il 27 marzo scorsi, sono apparsi su LPLC2 due interventi critici – rispettivamente di Andrea Cortellessa ed Emanuele Zinato – diversi per stile, contenuti e obiettivi, e secondo me anche per valore (molto bella l’intervista di Cortellessa, discutibile l’intervento di Zinato). Li accomuna tuttavia un tratto, marginale in sé, ma che non poteva non sorprendermi: la deformazione delle mie posizioni sulla letteratura italiana di oggi, insomma sull’ambito che in un mio saggio dell’ormai lontano 2018 chiamavo La letteratura circostante. La contrapposizione non è interessante, se non per le tre persone convolte (e forse neppure per loro); il tipo di deformazione sì, perché credo significhi qualcosa di più generale che preciserò dopo. Intanto, ricordo che quelle di Cortellessa e Zinato furono in effetti due delle tre o quattro voci che – alla sua uscita – accolsero il mio libro con qualche polemica. Mi piacerebbe poter dire che all’epoca accolsi il loro punto di vista col piacere e l’interesse che suscita un confronto con punti di vista stimolanti e alternativi. La verità però è un’altra e credo sia giusto premetterla: non ho mai condiviso la logica delle loro riserve, ho sempre avuto la sensazione di essere stato sostanzialmente frainteso, non ho replicato soltanto perché nella ricezione di un libro qualche equivoco mi sembrava – e mi sembra – fisiologico, e in fondo irrilevante. Oggi, a distanza di un lustro dalla Letteratura circostante, e dopo tanti anni passati a intervenire regolarmente e con una certa coerenza sulle scritture che si fanno oggi, quella deformazione e quel fraintendimento mi stupiscono ancora di più. Un po’ perché dopo tutto il lavoro che ho svolto nel frattempo (saggi, articoli, lezioni, interventi, riviste…) mi sembrano ancora più incongrui; ma soprattutto perché – ed è il fattore decisivo – intravedo finalmente e con chiarezza adesso un elemento che non coglievo cinque anni fa, e che va oltre quella che potrebbe sembrare una sterile polemica corporativa; un elemento istruttivo, di interesse pubblico, che con pubblica utilità si può discutere. Noto adesso chiaro e nitido il bisogno, in Cortellessa e Zinato, di aggredire quel che definirei uno spauracchio critico, fasullo ma funzionale alla loro identità di interpreti: un fantasma di contrapposizione che serve, non troppo paradossalmente, a un posizionamento loro. Un fantasma che oggi come allora mi trovo provvisoriamente a incarnare, che altri potranno interpretare in futuro (e altri hanno interpretato in passato), ma che al di là di ogni aleatoria personificazione merita di essere identificato e approfondito perché dice molto della situazione anche psicologica in cui una parte della critica cosiddetta “militante” italiana si trova oggi ad operare.
La situazione di cui parlo – evocata dallo stesso Cortellessa – è quella dell’ultimo giapponese, con riferimento al soldato nipponico che nel 1974, a trent’anni dalla fine della seconda guerra mondiale, rifiutava di credere che il conflitto fosse terminato e continuava armi in pugno a presidiare la giungla di un’isola delle Filippine. L’immagine, che Cortellessa sceglie per sé con lucida autocritica (o con snobismo superiore? Forse entrambe le cose), si adatta bene anche a Zinato (meno snob di Cortellessa, ma anche meno lucidamente autocritico).
Diciamo subito che io non ho personalmente nulla contro questa figura dello spirito che è l’ultimo giapponese; in tutta franchezza non capisco a cosa Cortellessa si riferisca quando mi accusa di sarcasmo (ogni volta che lo cito nella Letteratura circostante lo faccio senza ombra di derisione; non so cosa lo spinga a identificarsi in luoghi del testo in cui non c’è e che difatti non si riferiscono affatto a lui). In generale ho grande rispetto per ogni forma di ostinazione resistente – anche se nostalgia e indignazione sono sentimenti che non mi appartengono – e su molti aspetti concordo con gli interventi dei miei interlocutori. In particolare, condivido la diffidenza di Cortellessa verso i processi di disintermediazione circostanti e non mi convince, come non convince lui, la deriva “democratica” – in realtà social – della nostra cultura (allo stesso modo convengo con Zinato sulla critica al “progettese”, alla «neolingua tecnodidattica», alle brutte pieghe prese dal Critical Turn). Infine, e con la solita franchezza, non mi spiace del tutto l’idea di condensare un fantasma di contrapposizione, specie dove se ne approfondissero le ragioni soggiacenti, la molla interna. Penso però che il momento sia giunto per chiarire seriamente e con razionalità che il nemico che circonda la giungla e minaccia la trincea – nell’isola in cui Cortellessa e Zinato si sono asserragliati – semplicemente non sono io, perché non sono mie molte delle posizioni che con ostinazione resistente (appunto) continuano ad attribuirmi. Ammesso poi che tale nemico, nella critica letteraria, esista davvero – fuori naturalmente dal «regime capitalistico», dal «liberismo economico» e dal «capitalismo cognitivo» che, genericamente evocati dai miei interlocutori, sono sempre i responsabili generici di tutti i nostri scontenti. Di tutti, e quindi di nessuno.
2.
Vediamo allora cosa farebbe di me il nemico, agli occhi di questi due ultimi giapponesi. Per Cortellessa, colpevole è il mio «assecondare l’andazzo» della narrativa italiana di questi anni:
A me sembra altrettanto triste che gli intellettuali più intelligenti della mia generazione (Simonetti è un po’ più giovane ma di pochi anni) sostanzialmente accettino e in alcuni casi incoraggino questo andazzo.
Dove «l’andazzo» sarebbe costituito dai «ritmi del cambiamento, dalle metamorfosi sociali, dai nuovi pubblici, dalle nuove parole d’ordine, dai nuovi linguaggi eccetera» della scena letteraria contemporanea. Tutte queste cose, è vero, La letteratura circostante ha provato a descriverle, nel 2018. Ma da quando descrivere un fenomeno significa accettarlo o addirittura incoraggiarlo? E dove esattamente La letteratura circostante promuove, caldeggia, sostiene questo cambiamento in quanto cambiamento? La risposta è semplice: da nessuna parte. Al massimo difende, con ragioni stilistiche credo buone, alcune singole opere che di questo cambiamento fanno parte: ma è comunque molto raro, perché assai più spesso le nuove dominanti formali sono oggetto di verifiche severe. Al limite sarebbe più sensato rimproverarmi il contrario, cioè un radicamento eccessivo nel Novecento, dato che in concreto, e sarebbe facile verificarlo, quasi tutti i miei scrittori preferiti hanno più di sessant’anni: cosa che forse meriterebbe di essere, più che biasimata, (psico)analizzata, e magari compatita.
La verità, comunque, è tutt’altra: il mio libro non accetta, non incoraggia, semplicemente racconta un paesaggio letterario in cui alcune forme (perlopiù legate all’estetica veloce, orizzontale, frammentaria e ibrida del flusso mediatico) prevalgono su altre (perlopiù legate alla lentezza e alla densità alla tradizione umanistica); e in cui la fortuna commerciale e spesso la ricezione critica delle opere stesse non dipendono più dalle categorie della società letteraria novecentesca, ma si stabiliscono a maggioranza, nell’arena dei media di massa e sociali, con parametri e regole d’ingaggio molto diversi rispetto al passato. Tutto questo produce una situazione in cui il bello, il brutto e il mediocre sono sempre più mescolati; nel caos acquista sempre più visibilità e successo (non solo commerciale ma anche critico) proprio il mediocre, il midcult, il «nobile intrattenimento»: cioè l’arte più adatta a prosperare nella confusione dei valori e nel rimescolamento del pubblico, la più democratica se vogliamo, certamente la più mediocre e media. La metafora del Junkspace, coniata da Guido Mazzoni via Rem Koolhaas, aveva questo significato, sintesi esatta di un paesaggio composito in cui la moneta cattiva scaccia spesso quella buona – non era certo un elogio della spazzatura. E del resto, come scriveva lo stesso Mazzoni, nella Letteratura circostante «si capisce piuttosto bene che giudizio Simonetti dia dei testi di cui parla (…) non è indulgente coi testi che si pubblicano oggi».
3.
A partire dall’analisi delle figure letterarie più comuni degli ultimi decenni, La letteratura circostante descrive e analizza una fase che è la nostra. La racconta così semplicemente perché è così, che piaccia o no a Zinato e Cortellessa (o a chiunque altro, se è per questo); e infatti perfino Zinato e Cortellessa devono ammettere, lamentandosene, che è così. Ma in nessun caso il mio libro partecipa entusiasticamente a questa stagione, in nessun caso la appoggia come trasformazione culturale ed estetica. Al contrario, è del tutto evidente (e infatti è stato notato, per esempio da Pierluigi Pellini) che se c’è un tipo di letteratura che dal mio libro esce male – e che in effetti io personalmente faccio fatica a sopportare – è proprio il «nobile intrattenimento»: cioè il cuore del circostante. Il bello è che di solito gli addetti ai lavori mi rimproverano l’opposto di quello che da anni mi rimproverano Zinato e Cortellessa: di essere troppo polemico verso la letteratura media e di consumo; troppo critico, non certo troppo solidale. E mentre in effetti non mi riconosco affatto nei panni di un lettore che «avalla l’andazzo», forse ha ragione chi mi accusa di essere troppo esigente verso la letteratura in generale; o di esserlo diventato, invecchiando, e cioè peggiorando.
Una cosa è certa: in nessun caso La letteratura circostante sostiene che – in una situazione pur tanto mutata rispetto al Novecento – non sia sempre possibile distinguere il bello dal mediocre e dal brutto. Al contrario: non solo non lo nega, ma addirittura lo fa, continuamente, e non sulla base di astratti e idiosincratici giudizi di valore, o petizioni di principio, o alleanze di poetica (o di cordata), ma concretamente, analisi per analisi, testo per testo, e di volta in volta, dandosi la pena di leggere opere che per molti colleghi sono brutte a prescindere. E che spesso (non sempre) sono brutte davvero: senza però che nessuno provi a capire, e spiegare, perché.
È vero che La letteratura circostante aveva uno scopo principalmente descrittivo: non giudicante, non normativo, non canonico – sulla scia di alcune cose di Daniele Giglioli e Raffaele Donnarumma, ma senza il loro ricorso a categorie extraletterarie. Ed è vero che non credevo, e non credo, che la critica possa cambiare il mondo (il «neoliberismo», il «capitalismo cognitivo») a colpi di giudizi di valore. In realtà – come ammettono a malincuore gli stessi Cortellessa e Zinato – la vecchia critica letteraria non riesce più nemmeno a cambiare il destino editoriale di una singola opera, bella mediocre o brutta che sia, tale è l’irrilevanza sociale in cui giace in quanto critica, vecchia e letteraria (e non senza responsabilità anche proprie). Ma è totalmente inesatto quanto Zinato pretende di farmi dire, e cioè che io consideri indistinguibile «ciò che è avariato da ciò che è raffinato» (che poi io lo faccia «per conscio o inconscio opportunismo mediatico» non solo è falso, per la falsità dell’assunto stesso, ma anche palesemente pretestuoso, considerato che parliamo di un libro-mattone di taglio e destinazione accademica lungo quasi cinquecento pagine). Del resto, come fa Zinato a farmi dire ciò che non ho detto? Così:
Se oggi a «decidere il successo di un’opera (…)non è più il responso critico, o il rispetto degli altri scrittori, ma in buona misura il successo commerciale e la risonanza mediatica», la critica letteraria, allora, deve cambiare la propria postura e limitarsi a descrivere il “circostante” in cui, per restare nell’orticello periferico italiano, hanno più rilevanza i romanzi di Mazzantini, Volo, Moccia, D’Avenia o Melissa P. di quelli di Pecoraro, Falco, Trevisan, Sarchi, Siti, Pariani o Vasta.
La prima parte del paragrafo, con citazione letterale e virgolettata, la sottoscrivo, ed è vera. La seconda parte, non virgolettata e perifrastica, è falsa e non la sottoscrivo affatto. Da nessuna parte sostengo che (virgolettiamo Zinato…) «hanno più rilevanza i romanzi di Mazzantini, Volo, Moccia, D’Avenia o Melissa P. di quelli di Pecoraro, Falco, Trevisan, Sarchi, Siti, Pariani o Vasta». Semplicemente nel libro descrivo e analizzo i romanzi di Siti, Vasta, Pecoraro (eccetera) insieme a quelli di Mazzantini, Volo, Moccia, eccetera – perché questo e altro convive nel circostante e ne fa l’identità, perché dal punto di vista sociale l’intrattenimento è centro e sintomo e la qualità è nicchia ed eccezione, perché se si disegna una mappa è assurdo pensare di eliminare dal paesaggio quel che non ci piace (e che tra l’altro occupa quasi tutto l’orizzonte e condiziona pesantemente il clima in cui viviamo). Che non si tratti di fissare canoni, né di assimilare tutto a tutto, ma di leggere insieme e approfonditamente cose molto differenti è detto in modo estremamente chiaro nella terza pagina del saggio; ma questa pagina Zinato decide di ignorarla:
Caratteristica di questo libro è quella di unire allo studio della letteratura in senso forte, ad alta temperatura culturale ed emotiva, un interesse particolare per quella letteratura che definirei tiepida, sempre più diffusa e ingombrante socialmente, sempre più popolare, il cui principale obiettivo non è conoscere (e spiazzare), ma intrattenere (e distrarre). Valutare l’una e l’altra, e l’una nell’altra, non intende mettere tutto sullo stesso piano, con la scusa del discorso critico; serve invece a delineare un profilo il più possibile esauriente del paesaggio letterario italiano. Serve a guardarlo per intero.
Zinato e Cortellessa sono critici dai gusti diversissimi – il primo innamorato di una letteratura impegnata se non addirittura pedagogica, il secondo tentato dalle avanguardie più formalistiche – eppure rimuovere la mediocrità e la bruttezza, cioè un buon novanta per cento della nostra editoria di narrativa, è cosa che entrambi amano fare; un po’ come l’ultimo giapponese rimuove la fine della guerra e la sconfitta del Giappone. E forse per motivi non tanto differenti. Liberissimi di procedere così, ci si può benissimo concentrare su quel che si crede siano la bellezza e il valore se non ci si illude che formino tutta la realtà (e se si è molto abili e sicuri nell’identificarle…). Anzi, no: dopotutto anche illudersi è lecito, oltre che appagante. Ma solo una gigantesca ingenuità o una certa malafede possono indurre a pensare che leggere delle opere diverse per ambizione formale, livello stilistico ed esemplarità sociologica all’interno di uno stesso saggio e con gli stessi metodi di analisi, sottolineando più volte che sono diverse, significhi metterle sullo stesso piano nel giudizio di valore e sdoganarle in blocco. Del resto basta leggerle, queste benedette analisi, per capire che Mazzantini, Volo, Moccia, D’Avenia eccetera non vengono affatto accresciuti dal merito del mio esercizio critico. E che invece succede esattamente il contrario.
Ingenuità o malafede, dicevamo. Visto che né Cortellessa né Zinato mi paiono lettori ingenui, penso dovrebbero avere l’onestà intellettuale di ammettere che leggendo La letteratura circostante si capisce benissimo e senza possibilità di errore che per me i romanzi di (poniamo) Moccia o di Volo, ma anche quelli di (poniamo) Scurati o Avallone, non vanno messi sullo stesso piano di valore di quelli di (poniamo) Pecoraro o Vasta, perché non hanno lo stesso valore, anche se sono – e lo sono oggettivamente – più socialmente visibili, altrettanto utili all’analisi e non meno sintomatici di quelli. Penso solo che gli uni e gli altri meritino di essere letti e compresi, esteticamente e sociologicamente, senza pregiudizi e senza sconti: che è una cosa completamente diversa (e anzi di fatto opposta, perché implica una verifica) rispetto all’avallarli. Addirittura c’è un capitolo del mio libro – il terzo, di quarantadue pagine – che didatticamente mette in ordine crescente di spessore estetico le opere che analizza: dalla narrativa di consumo a quella più ambiziosa conoscitivamente, passando per il nobile intrattenimento. Dal brutto al mediocre e dal mediocre al bello: più chiaro di così si muore. E infatti chi doveva o voleva capire ha capito: come anche per gli articoli che scrivo sui giornali, molti autori e editori coinvolti si sono risentiti non certo per l’assenza, al contrario per l’eccessiva presenza (magari in filigrana) di valutazioni critiche. Ma niente è sufficientemente chiaro per chi non vuol capire.
Per quali ragioni, allora, mentre nel campo della cucina nessuno sosterrebbe che i buoni ingredienti e la loro messa in forma siano eguagliabili agli snack o alla spazzatura, in campo letterario il critico può viceversa ripristinare la propria voce e la perduta legittimità dichiarando indistinguibile la paccottiglia dalle opere di valore?
Anche in questo caso la risposta è semplice: per nessuna ragione. E infatti nessuno lo ha mai detto. Nessuno sostiene che la paccottiglia sia indistinguibile dalle opere di valore: qui Zinato, da ultimo giapponese, si fabbrica a suo uso e consumo un nemico che nella realtà non esiste. E che non solo non esiste più, ma che addirittura non è esistito mai. Si figuri Zinato che io penso esattamente l’opposto: ritengo che distinguere la paccottiglia dal valore sia talmente facile (almeno per chi ha un minimo di orecchio e familiarità con la letteratura) da risultare quasi inutile; e che comunque molto più utile di giudicare (e militare) sia capire. Capire, per esempio, che parlare di ibridazione o di velocità come di dominanti formali non significa esserne apologeti; perché di fatto velocità e ibridazione possono mettersi al servizio di opere belle, mediocri o brutte, scritte da autori giovani, maturi o anziani, di sesso maschile o femminile o non-binary. E che solo prendersi la pena di leggere tutte – si fa per dire – queste opere potrà permetterci di farci un’idea completa ed affidabile della situazione. Ecco perché questa pagina della Letteratura circostante, che Zinato cita bizzarramente come esempio di «opportunismo mediatico», non ha oggettivamente nulla di valutativo, di solidale, di partecipe ai media, e quindi di opportunistico; prende atto di una situazione, fa un bagno di realtà, e basta (sullo sfondo, in altre pagine del libro, la mia netta preferenza proprio per quella letteratura «solo scritta» di cui qui si testimonia il possibile tramonto):
Anche l’ibridazione, come la velocità, è una caratteristica della comunicazione di massa; anche l’ibridazione, come la velocità, rappresenta una forma di adeguamento della parola scritta alle abitudini e ai gusti di una civiltà dell’immagine. Anche l’ibridazione, come la velocità, prova a surrogare i limiti spettacolari della letteratura “solo scritta” cui ci aveva abituato la cultura moderna.
Il fatto è che per Zinato, e credo anche per Cortellessa, «il lavoro primordiale della critica» consiste nel «distinguere» fra spazzatura e buona cucina, fra qualità individuale e media generale, e marcare una differenza strutturale e una gerarchia qualitativa. Per me invece non è così. Io credo che «il lavoro primordiale della critica» consista nel capire il senso e il funzionamento delle opere e il loro rapporto con tutto il resto, senza scorciatoie ideologiche e senza conformismi intellettuali; e che giudicare sia utile, opportuno, necessario a volte, ma che venga comunque dopo. Se questo basta a fare di me un nemico, sia; mi accontento di non passare per un apostolo del circostante solo perché ho cercato di descriverlo fedelmente.
4.
E a proposito, in conclusione: è servito a qualcosa, questo esercizio, oppure no? Formulerei due ipotesi, per finire.
a) Nel caso della Letteratura circostante, penso che prendersi la briga di leggere attentamente più o meno tutto quello c’è nel nostro campo letterario (campionando ad altezze diverse del blasone culturale) sia stato molto utile a capire che posto hanno realmente il brutto, il mediocre e il bello nella nostra congiuntura artistica. Utile a capire come sono fatti in concreto il bello e il brutto; a capire (a volte con perplessità, a volte con ironia, mai con accondiscendenza) quanto ci stiamo abituando alla mediocrità. Utile anche a verificare quanto spesso opere che siamo abituati ad accogliere incartate nel packaging della ‘qualità’ costituiscano a una indagine più approfondita merci scadenti o difettate. Si dà anche il caso di presunti Ratatouille, di solito ideologicamente dalla parte giusta, che all’atto pratico cucinano solenni e immangiabili schifezze: se ne sono accorti Zinato e Cortellessa? Allargarsi al circostante potrebbe costituire un esercizio di collaudo che non farebbe male a chi, come Zinato e a Cortellessa, è abituato a «riconoscere i suoi», e a parlare solo di quello che sembra sia la ‘qualità’ (col vantaggio indubbio di non doversi esporre, o molto meno, a leggere chi è escluso dal consesso). Forse un’occhiata al circostante avrebbe aiutato Cortellessa, per esempio, a non fare di un bluff come Franco Arminio un campione del Valore (cosa che non solo palesemente non è, ma che a mio avviso non è stato mai). Avrebbe per esempio aiutato Zinato a non mettere (lui sì) sullo stesso piano romanzi di livello molto diverso come quelli di Siti e Trevisan da una parte e quelli di Sarchi e Pariani dall’altra…
b) Nel caso del libro che ho appena terminato – s’intitola Caccia allo strega. Anatomia di un premio letterario, ed uscirà il 21 aprile per nottetempo – sarà più difficile che si ripeta lo stesso malinteso di cinque anni fa. Anche stavolta si tratta per me di leggere e analizzare romanzi di valore e livello dichiaratamente diseguale – alcuni belli, altri mediocri, altri ancora brutti – cercando di capire di quali forme sono fatti i libri che siamo pronti a considerare ‘di successo’. Ma la natura del saggio, il taglio del corpus e il desiderio stesso di non essere frainteso credo mi abbiano spinto a valutazioni più esplicite, o meno apparentemente asettiche. Non so se criticamente sarà un passo avanti o indietro, ma sento che in ogni caso lo sforzo di chiarezza risulterà insufficiente: ci sarà sempre qualcuno disposto a vedere nell’analisi stilistica rigorosa di un’opera non rigorosa e stilisticamente debole una forma illegittima di complicità intellettuale con il Capitalismo o con l’Andazzo. Queste stesse righe che mi appresto a concludere in fondo le ho scritte, forse inutilmente, in deroga a una mia antica convinzione pedagogica, che suona più o meno così: chi vuole capire, capisce; a chi non vuole capire, è inutile starglielo a spiegare.
[Immagine: Yamamoto Masao, A Box of Ku #554].
Buongiorno,
ho letto con interesse l’articolo di replica, che sfrutta una possibilità di pubblicazione e quindi di discussione impensabile almeno fino alla metà degli anni ‘90 del secolo passato.
Aggiungerei per parte mia alcune brevi considerazioni, credo pertinenti.
Ha sempre causato stupore in me, dopo un attento e impegnativo studio dei testi entrati nel canone letterario, come veniva e presumo venga richiesto per superare anche solo un esame universitario di Letteratura italiana, la constatazione che segue di Bruno Migliorini (Storia della lingua italiana, Bompiani, Milano, 1994, pag. 603): “L’unità politica porta con sé una più intensa circolazione d’idee, di cose, di parole. […] Per ciò che concerne la lingua, le classi inferiori nella vita quotidiana si servono dei dialetti, e sono ancora scarsamente pratiche della lingua nazionale. […] Notevoli ma non ancora sufficienti, sono i progressi dell’istruzione elementare: l’obbligo dell’istruzione di tutti i fanciulli di oltre sei anni è sancito dalla legge Coppino nel 1887 e affidato ai comuni: così gli analfabeti, che nel 1861 erano il 78% sono ridotti a meno del 50% nel 1910”.
Ciò che è circostante, in questo caso alla letteratura e alle discussioni letterarie, fino all’unità d’Italia, è l’analfabetismo. Molto semplicemente l’incapacità di leggere e scrivere alfabeticamente.
I processi di acculturazione e trasmissione culturale avvenivano per la maggioranza della popolazione altrimenti.
Quindi per chi scriveva un autore poi entrato nel canone letterario, per chi hanno scritto la maggioranza degli autori che oggi fanno parte della nostra storia?
Per una ristrettissima cerchia di lettori.
Credo che questo vada riconosciuto, descritto e insegnato, a premessa di tutto il resto. Ancor di più nel caso della critica militante e dei giudizi di valore.
Sono poi certamente d’accordo con chi sostiene che la funzione della scrittura e il ruolo dello scrittore siano profondamente cambiati con “l’avvento dello spirito laico”, per citare Bénichou.
Tuttavia, per venire in breve all’oggi, vista la mole dei messaggi scritti e letti, ancora dati statistici alla mano, mi pare che la funzione della scrittura stia di nuovo cambiando e, di riflesso, quella della letteratura.
E mi pare anche che al lettore e ai suoi modi di leggere ci si debba interessare molto di più che in passato: ad esempio, legge in silenzio, solo con gli occhi e per sé come ha imparato a fare dopo l’invenzione della stampa (Petrucci) oppure ad alta voce, pubblicamente e per gli altri, come faceva in genere uno schiavo quando la scrittura di tipo alfabetico cominciò ad usarsi più estesamente (Svenbro).
E finalmente ci si debba interessare all’uso dei testi letterari, anche e soprattutto di quelli entrati nel canone.
Del resto, è istruttivo il caso qui in questione di chi “pretende far dire” ciò che non è stato inteso.
Valore d’uso e non di scambio.
Buona giornata
A costo di andare fuori tema, voglio dire qualcosa anche io: “ Domenica 8 giugno 2008 – « Come diceva Mallarmé: il mondo è destinato a finire in un libro. », dice Andrea Cortellessa. Ammesso che lo voglia, dico io. Che conosco il mondo e so che, soprattutto, vuole continuare. (Con molti altri, il giovane italianista è a Monfalcone, per un festival di letteratura, in occasione dei cento anni della fondazione dei famosi Cantieri Navali. Dice che la nave si associa, da sempre, al viaggio, e il viaggio è un tema centrale della letteratura. Comunque, anche lui, è uno che viaggia parecchio, anche troppo, direi. Letteratura di viaggio o viaggio della letteratura?) [*] [*] Scritto una domenica mattina, sul vasto, arioso piazzale del Centro Commerciale « Porta di Roma » – « il più grande d’Europa » -, fra i monumentali ingressi di Leroy Merlin e Ikea, ai piedi della scalinata – mobile – che conduce a Decathlon, a Auchan, nonché alle altre decine di punti vendita, ma, soprattutto, alle audacemente sbilenche torri della Cinecité – 14 sale cinematografiche -, e a « quant’altro » – perché un « quant’altro » in un posto così non può non esserci. “. E così l’ho detto. Tanto io non sono né uno scrittore né un critico, sono solo un vecchio borbottone…
“Forse un’occhiata al circostante avrebbe aiutato Cortellessa, per esempio, a non fare di un bluff come Franco Arminio un campione del Valore (cosa che non solo palesemente non è, ma che a mio avviso non è stato mai). Avrebbe per esempio aiutato Zinato a non mettere (lui sì) sullo stesso piano romanzi di livello molto diverso come quelli di Siti e Trevisan da una parte e quelli di Sarchi e Pariani dall’altra…” (Simonetti)
Un bacio in fronte.
Da quando la letteratura si compra e si vende, cioè col romanzo, il ‘circostante’ c’è sempre stato; Franco Moretti ha studiato quello dell’Inghilterra vittoriana e Gianluigi Simonetti quello dell’Italia di oggi. Hanno fatto la cosa giusta. Dovrebbe esserci però un tempo per studiare tutto e un tempo per promuovere il meglio, cosa molto più difficile oggi, col frastuono infinito di televisione e internet; però bisogna. Pensateci, per favore.
Buongiorno, non provengo dall’ambito letterario e la mia formazione é prevalentemente scientifica/medica. Ho letto molto, di tutto, prima che la professione fagocitasse il tempo ‘libero’, e solo da pochi mesi ho ripreso la buona vecchia abitudine di leggere. Sto leggendo La letteratura circostante di Gianluigi Simonetti ed approfitto di questo spazio per ringraziarlo, dato che trovo il suo volume estremamente utile a chiarire certe mie perplessità (che erano insorte dopo la lettura di alcuni autori italiani molto famosi o molto pubblicizzati), nonché a fornirmi strumenti per leggere in modo più consapevole. Grazie.