di Alberto Casadei

 

[Esce oggi per Il Saggiatore La suprema inchiesta, un romanzo di Alberto Casadei. Ne pubblichiamo in anteprima un estratto (il cap. 18 della seconda parte, intitolata Le consapevolezze primarie)].

 

18

 

Procedono, come ogni cosa. Sono solo quelle orme, rimaste fisse come una piccola deformazione nella materia lavica, nella sostanza degli elementi, nel permanere incorporeo.

Sono tre, sono cinque, sono un gruppo numeroso. Giovanna [una bambina di dieci anni] non lo può sapere, si deve limitare a immaginarsi il cammino di quegli australopitechi afarenses che l’hanno preceduta sulla terra tre milioni e mezzo di anni fa, in mezzo agli esseri animati della Tanzania, moltissimi dei quali poi estinti, e comunque nati, anche loro, per procedere.

 

Ma perché proprio quelle orme e non centinaia e centinaia e centinaia di miliardi di altre? Lei se lo chiede, anche se non dovrebbe: tante domande non hanno risposta, lo ha capito, e questa è così. Eppure in quell’ammasso di creta di sicuro sono passati corpi in qualche modo simili a quelli umani di adesso. E dove andavano?

Un’altra domanda inutile. La genera il desiderio di conoscere la loro piccola vicenda, insignificante nell’economia dell’universo e tuttavia rimasta lì, impressa in quel poco di materia vulcanica fluida, a sua volta presto ricoperta e preservata, con quelle tracce e quegli indizi ingurgitati, nascosti, salvi perché una bambina li osservasse durante la notte fra il 9 e il 10 agosto 2011, mentre attendeva che passasse qualche stella di San Lorenzo.

 

Il cielo attuale è però offuscato dalle luci terrene, chissà in che forma lo vedevano quei cinque rappresentanti di una specie che tentiamo di ricostruire al computer ma dal vero ci farebbe un po’ paura, come ogni entità simile a noi solo trasversalmente… Ma Giovanna ora si identifica con la più piccola del gruppo, mette i suoi piedi là dove vede l’orma di quelli del padre o della madre, però a volte non ci riesce e così ne imprime pure qualcuna delle sue, irregolari.

Si dirigono alla zona boschiva dove possono trovare l’acqua, il padre si volta e emette un gorgoglio profondo da dentro la gola. Tutti loro riconoscono il segnale e sanno dove devono andare, alla maniera dei maestosi elefanti dietro la matriarca: però quelli come lei sono piccolissimi in confronto, stanno lontani, dovranno salire sui rami alti di una pianta ospitale, non ha nome, sarà ‘acacia’ soltanto tra centinaia di migliaia di anni.

 

E ora che stanno entrando in quel luogo abbastanza oscuro, specie dopo aver attraversato distese pianeggianti battute senza remissione dal dio della luce, lei, esserino di materia fragile, sente che ci sono odori salutari, sembra puzza di marcio ma è carne di animali da ingerire, avanza benché faticoso per le sue gambette, non ci sono sentieri, solo materie nere e viscide, lombrichi, vermi biancastri, carogne, ma lì deve stare, seguendo il padre-capo-unica difesa.

Vede che lui afferra il corpo di una gazzella, lo solleva per mostrarlo, lo posa e prende una pietra acuminata, squarcia il ventre, escono minugia tristo sacco merda. A lei non importa perché potrà avere un pezzo della sua carne, da strappare da sminuzzare, ecco, la divora la ingoia, e lo stesso fanno i suoi genitori e i suoi fratelli, per vivere è necessario e lei vivrà un altro giorno, forse, o a caso morirà come tanti che le erano solo ieri vicini.

 

Sa che la morte è inevitabile, da materia a materia, ma per rinviarla lei si sta nutrendo, acquisisce altre proteine, forse il fegato della gazzella le darà la forza di resistere, di correre velocissima se sarà inseguita: altrimenti la fuga è impossibile quando sei attaccata dagli animali coi denti acuti e dalla corsa rapida, non hanno nome, saranno leoni o pantere o loro simili, nemici potenti. Vivere è questo, mangiarfuggire.

Dormire, anche, in alto, arrampicandosi come fanno adesso, sia pure incerti rispetto ad altri primati, da un lato perdi, dall’altro acquisti, Giovanna lo sa, nessuna specie è perfetta, ognuna tenta di appropriarsi di un suo pezzo di ambiente, con quello che trova e poi magari non trova più e ricerca, ostinatamente, arrivando al vulcano che si chiamerà Sadiman, alla distesa che si chiamerà Laetoli, arrivando lì per sbranare la gazzella morta da poco, e poi salire più in alto delle piante minori e degli arbusti, sisal o euforbie o quelle lì, ecco, sta salendo sui rami resistenti, perché nella notte oscura devi dormire.

 

Qui intorno ci sono i suoi, si sente più tranquilla però a poca distanza, su un albero ancora più grande di questo dove si trova, intravvede un altro gruppo di afarenses. Potrebbero aggredire, il padre si avvicina cautamente, è solo istinto, attacco-difesa o viceversa, ma prevederlo sarà utile, impareranno anche da questo… Tutto bene, silenzio, solo la notte avvolge, appena rischiarata dalla sfera enorme e pallida, di cui non le importa cosa fa in cielo, accetta che appaia e poi scompaia, non è altro che il luminare minore, distantissimo dal suo piccolo spazio.

Si sveglia per un rumore. In basso, sotto l’albero, c’è suo padre in piedi davanti a una femmina simile a sua madre, distesa. Sente il suo ansimare, vede che con la mano tocca la sua appendice, dritta e non penzolante, ora si abbassa, veloce e violento, la femmina emette l’urlo del pericolo o del male imminente, a Giovanna pare di sentirlo, il padre si è abbattuto sulla femmina, deve chiudere gli occhi.

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