di Luca Cristiano
In un articolo intitolato L’Europa abbandonata a sé stessa – ovvero viaggio di palo in frasca, la cui traduzione in italiano si può trovare nell’antologia Sulla stupidità e altri scritti (Mondadori 1986), Robert Musil contesta, sarcasticamente ma solo fino a un certo punto, la presunta necessità della distanza storica ai fini di una ricostruzione oggettiva degli eventi:
Ecco dunque la storia universale vista da vicino: non si vede un bel niente.
Per forza, si obietterà, siamo troppo vicini. Ma questa è una metafora. Tratta dal senso della vista: si può essere tanto vicini a una cosa da non poterla abbracciare con lo sguardo. Ma si può essere tanto vicini a una conoscenza da non poterla comprendere? La metafora non sta in piedi. Per formarci un giudizio sul presente, e sul più recente passato, dovremmo pur saperne abbastanza; e ne sappiamo, comunque, più di quanto ne sapranno i tempi a venire. La metafora ha anche un’altra radice: siamo ancora troppo partecipi. Ma se non lo siamo stati affatto!
Ecco in che cosa consiste la famosa ‘distanza storica’: su cento fatti, novantacinque sono andati perduti, ragione per cui i superstiti possiamo ordinarli a nostro piacimento. (p.105)
Questo passaggio può facilmente essere messo in risonanza con il noto aforisma di Simone Weil, secondo cui la storia non è altro che una compilazione delle deposizioni fatte dagli assassini circa le loro vittime e sé stessi. Anche perché la decostruzione di Musil condivide con quella di Weil la denuncia di una riduzione al silenzio della maggioranza dei testimoni e la manipolazione dei referti che sopravvivono. Questo vale tanto per gli uomini quanto per i testi. Il modo in cui il cristianesimo ha riscritto il passato come radice figurale del suo trionfo è solo un esempio più evidente di tanti altri di una meccanica della rimozione e della riscrittura attiva su moltissimi piani e secondo un amplissimo spettro di modalità censorie e distorsioni strumentali. La storia si presenta, come la vita per Flaubert, insufficiente quando non inaccettabile.
Anche su questi paradossi e su una simile tensione verso l’anomia si giocano le potenzialità della narrazione, del mito, della poesia (oltre che, per restare alla metafora visiva individuata da Musil, sull’andare molto vicino o anche ‘dentro’ ciò che si racconta). Si tratta di uno spazio di virtualità che si riapre di continuo. Il romanzo moderno, in particolare e secondo una lunga tradizione critica, si è fondato (anche) su questa dinamica. Riarticolando la pura plasticità che più o meno pacificamente la teoria gli ha riconosciuto, infatti, il romanzo si è più volte preso la briga di agire contro l’impressione di oggettività e completezza delle ricostruzioni storiografiche. Il novero delle sue possibilità è così ampio da apparire illimitato: si possono inventare dettagli plausibili che sfuggono alle necessità ricostruttive della documentazione, proiettare evidenze fattuali su sfondi fantasiosi, mobilitare il modo epico, drammatizzare, ricorrere all’ucronia. L’elenco potrebbe continuare a lungo, muovendosi sul ben noto asse aristotelico che va da ciò che è stato a ciò che potrebbe essere.
Per avvicinarci da questa prospettiva alla Trama di Elena (Ponte alle Grazie, 2023), può essere utile rilevare che tra i modi di trarre senso dall’interferenza tra storia e immaginazione, la riscrittura del mito occupa un posto di rilievo. È in questo spazio che si colloca l’autobiografia della donna più bella di tutti i tempi scritta da Francesca Sensini e uscita per Ponte alle Grazie a metà febbraio.
Una prima indicazione utile al lettore, a questo proposito, può forse darsi dicendo cosa questo libro non è. Il racconto in prima persona che Elena fa della sua vita non si presenta come l’ennesima attualizzazione del mito. Anche perché il libro di Sensini fa sentire a ogni pagina come sia mosso dalla consapevolezza che attualizzare il mito è una contraddizione in termini (tale consapevolezza può classificarsi come primo merito della Trama di Elena). Elena, per esempio, dedica una sequenza di quattro capitoli ai suoi amori con Teseo, Menelao, Paride e Achille e tratta questi personaggi secondo il loro statuto, senza farne proiezioni di altrettanti tipi contemporanei ma rilevandone la persistenza nel contemporaneo. Così sono trattati, successivamente, temi e archetipi come la discordia, la “maledizione della bellezza”, la guerra: “non mi piace molto entrare nelle fantasie degli altri. E neanche nei loro sentimenti. Sono dati di difficile gestione […] perché volatili, per quanto si voglia cospargere di eternità ogni ostensione del nostro cuore” (144).
Evitando programmaticamente di appiattire Elena sul presente, Sensini coglie tuttavia almeno tre nodi attraverso i quali il suo racconto può ricollegarsi alla nube di discorsi in cui siamo immersi: la presa di parola da parte di una donna del mito a confronto con la (tarda e lenta) incrinatura del dominio maschile dei nostri giorni, l’interazione tra desiderio e libertà in un momento in cui pornografia e neopuritanesimo stringono schizofrenicamente dai due lati la rappresentazione del corpo considerato nel momento della sua radianza erotica e, infine, la rivendicazione implicita di alcuni modi conoscitivi che derivano direttamente dalla letteratura. Ammesso che si presupponga che la letteratura rappresenti ancora una possibilità di emanciparsi dalla proliferazione delle narrazioni (intendendo questo termine nel suo senso deteriore).
In seconda istanza è bene specificare che La trama di Elena non è un saggio, anche se le note alla fine del romanzo offrono al lettore interessato coordinate bibliografiche sufficienti a impostare una ricerca di tipo critico-filologico. Questo libro non è neanche una delle tante operazioni di attualizzazione un po’ furbesca (o, peggio, baricchiana) del mito, che spesso banalizzano i caratteri del classico per farli aderire alle piccole oscillazioni egotiche e sociologiche del contemporaneo. Siamo in un regime che contempla piuttosto l’epicità che la serietà del quotidiano, secondo un criterio che potremmo definire di contro-attualizzazione: questa Elena non viene a raccontarci quanto lei ci assomigli, che è come noi. Piuttosto ci induce ad articolare il nostro sguardo dalla sua prospettiva e attraverso quest’ultima osservare i nostri tradimenti e l’abbacinamento che ci coglie di fronte alla bellezza e a percepire le figure del mito senza diminuirle. È anche a partire da questa impostazione che Elena mette in sequenza quelle “continue fini del mondo” che sono per lei, “all’ordine del giorno da tremila anni” (p.25) .
Operati questi spostamenti, di per sé significativi, la voce narrante stabilisce immediatamente, senza doverlo giustificare, un secondo presupposto: per tutta la durata del suo racconto dovremo fare i conti con una domanda su quanto ci sia di illusorio nel nostro vederci contingenti. È una domanda provocatoria, controintuitiva e persino antimoderna e antirazionale, ma è anche una domanda che ci mette in contatto con il paradosso pasoliniano per cui solo chi è mitico è realistico e solo chi è realistico è mitico.
Il patto narrativo sul quale si basa questo romanzo si regge dunque sulla suggestione che Elena non abbia affatto smesso di imperversare nel nostro mondo (a un certo punto guarda il suo riflesso in un’opera d’arte contemporanea che ritrae, disegnato su uno specchio, il contorno, solo quello, del viso di Marilyn Monroe). Il testo non chiede di sospendere l’incredulità gradualmente, ma inizia presupponendo questa credenza attraverso la prima persona singolare e la forma appellativa del discorso: “Mi chiamo Elena e sono la regina di Sparta. Avrete certamente sentito parlare di me. Sono la donna più bella del mondo”(p.7).
Non siamo di fronte a una semplice riscrittura del mito, ma a un testo che usa i mezzi del romanzo per restituire alla sua protagonista e narratrice un diritto che le parrebbe negato quasi per statuto, quello di raccontare sé stessa. Grazie a questa invenzione, il modo romanzesco allude alle novantacinque parti su cento che, secondo la provocazione di Musil, vanno perdute, ma il gioco si complica ulteriormente se si considera che qui, a parlare, non è un personaggio storico, ma la figura centrale di un mito:
Non so dire esattamente quando sono nata. La dimensione del prima e del poi non mi appartiene. A un certo punto qualcuno mi ha nominata, mi ha rivolto una preghiera, ha scolpito nel marmo una testa di donna insuperabile, ha dipinto su un cratere una figurina rossa di compiuta seduttrice e io sono stata. (p.8)
Cos’è, allora, questo libro raccontato direttamente da colei che chiede di essere ricordata come regina di Sparta, ma il cui nome viene quasi automaticamente associato alla città che di cui avrebbe causato la rovina? Si tratta, come accennavo sopra, propriamente e in qualche misura yourcenianamente, di un romanzo. Per alcuni tratti la grana e il tono della voce che racconta fanno pensare alle Memorie, ma Elena non è un personaggio storico. Questa differenza sostanziale tra Elena e Adriano finisce per rivelarsi, più che nelle peculiarità dei narratori e nei dati di fatto su cui queste ultime si basano, nel loro rapporto con l’eternità che, a sua volta, deriva dai modi in cui le due autrici decidono di mettere a frutto la differenza di statuto dei due protagonisti che raccontano: mentre per Adriano l’eternità e l’assoluto (o le loro negazioni) sono un punto di fuga continuamente vagheggiato, magnetico, attrattivo per forza di finalismo; per Elena, invece, eternità e assolutezza sono premesse quasi banali. Elena si sbarazza della sfida storiografica con una scrollata di spalle. La finzione autobiografica e l’euristica si innestano nella voce dell’imperatore a partire dalla sua consistenza di personaggio storico, mentre la voce che Sensini articola a partire dal punto di enunciazione in cui trasforma Elena coincide con la necessità del mito, che è irriducibile alla contingenza. È decisivo che sia proprio lei a darsi forma nell’atto affabulatorio e riflessivo, perché questo solo dato rivoluziona il suo statuto: di Elena è scontato che si dica qualcosa, non che dica la sua; Elena è, quasi per antonomasia, la donna ‘parlata’ (per non dire chiacchierata) e non parlante. Che Sensini abbia le idee chiare sulla questione, si desume dall’allusione a Virginia Woolf nel titolo del primo capitolo, che significativamente modifica una delle più note formule della cultura novecentesca in Una stanza tutta per me.
È in già in virtù di scarti come questo che Elena di Sparta dice qualcosa di noi, per il solo fatto che è proprio lei a dire qualcosa a noi.