di Luca Serianni

 

[L’e-book La letteratura è ossessione. Tredici voci per Michele Mari, appena uscito presso le edizioni Studium di Roma per le cure di Riccardo Donati, Andrea Gialloreto e Fabio Pierangeli, raccoglie interventi di studiosi italiani e stranieri che da tempo lavorano sull’opera dello scrittore milanese, a partire dall’amico e maestro Luca Serianni, alla cui memoria l’intero volume è idealmente dedicato. Ai contributi di Cortellessa, Coglitore, Donati, Gialloreto, Janusz, Pomilio, Peterle, Tieri, Borrelli, Santoro e Santurbano, che indagano il corpus autoriale dagli esordi di Di bestia in bestia sino al recente Le maestose rovine di Sferopoli, fa seguito una preziosa testimonianza di Irene Salvatori sull’incontro, da lei propiziato, tra lo scrittore e Witold Gombrowicz. La seconda parte del volume presenta materiali indispensabili per chi si interessi all’opera di uno dei maggiori scrittori italiani viventi: un dialogo condotto dai curatori con l’autore e sette interventi inediti di Mari, ideali Addenda alla silloge saggistica I demoni e la pasta sfoglia].

 

Il titolo che ho scelto per questo intervento richiede una precisazione preliminare. L’iperletterarietà è una condizione strutturale del Mari scrittore nella sua interezza: la sua distanza da quella «lingua della narrativa che appare inerte nei confronti di quella dell’uso»[2] è dichiarata più volte. In modo particolarmente esplicito in una testimonianza del 1997:

Oso affermare che in letteratura il concetto di lingua “d’uso” è letteralmente scandaloso. La letteratura non dovrebbe avere mai nulla a che fare con l’uso. Può ricorrere talvolta, o anche spesso, a forme d’uso, ma sempre seguendo leggi proprie per cui l’uso stesso – essendo assunto come ingrediente, come possibile ingrediente – diventa letterarietà o vi partecipa[3].

 

Si tratta di una scelta espressiva che ha il suo corrispettivo antropologico nell’ostentato (e certo, qui come abitualmente in Mari, anche autoironico e grottesco) disprezzo per la massa. Può trattarsi dei ragazzini che giocano in un giardinetto, nella prospettiva di un coetaneo sdegnosamente isolato («un bambino serio e solitario»), che muove dal particolare della pelle ingrigita sotto i ginocchi per leggervi «le imprese scomposte di una precoce virilità, l’iscrizione a precisa mafiucola, la disgustosa logica della strada»; delle loro madri, che «tengono, orrore, tengono i calcagni fuori dalle scarpe», intente a uno «scalcagnato chiacchiericcio» (TSI 47-48; il racconto s’intitola L’orrore dei giardinetti)[4]; l’ostentata distanza dai commilitoni (con esplicite dichiarazioni sulla propria percezione del prossimo: io sono «l’intolleranza fatta persona»; la «disgustosa gazzarra» delle reclute riunite in un cinema per essere informate sui compiti di vigilanza elettorale rappresenta «un bel fomite alla mia misantropia, che ebbe quel giorno un suo picco»: FA 100, 181); il proposito dell’«accorto viatore» di non entrare nello scompartimento vuoto di una carrozza ferroviaria per non correre il rischio di dover «subire la compagnia che il cieco caso gl’imponga» − «del neonato rigurgitoso e strillante, degli studenti bestiali, delle due amiche proprietarie di contigue butìc» − e dello spettatore che entra in un cinema immediatamente prima dello spettacolo, temendo i vicini, tra cui «due giovinastri (cosa ci fanno qui? non hanno un esame di perito elettrotecnico da preparare? Un lavoro, perdio, non lavorano?»)[5] e un terzetto costituito dalla «peggior sorta sia dato concepire: due maschi e una femmina, onde gara di arguzie fra i due per brillare al juicio di lei…» (EAC 168).

 

L’iperletterarietà si declina in due modi molto diversi tra loro: da un lato l’espressionismo, e la sua dilatazione verso i regionalismi, il turpiloquio, la creatività lessicale; dall’altro, l’adesione al classicismo, in particolare quello sette-ottocentesco, che è un terreno di studio privilegiato dal Mari filologo. È abituale la compresenza dei due livelli nello stesso testo. In un romanzo del 1992 di cui non mi occuperò qui, La stiva e l’abisso, i due poli sono rappresentati nella contrapposizione tra la raffinata letterarietà del capitano e la materialità dell’equipaggio, in particolare del secondo di bordo, Menzio[6]. Un po’ diverso il caso di VER in cui l’italiano impeccabile del tredicenne Michelino e della diegesi si contrappone sistematicamente allo stretto dialetto di Felice – l’unico caso del genere nella narrativa di Mari – non in funzione socioculturalmente distanziante, ma semmai per marcare la difficoltà di comunicare un contenuto concreto tra il fin troppo istruito ragazzetto di città e l’analfabeta, oltretutto alterato nella sua integrità intellettuale.

 

La lingua di Mari è stata oggetto qualche anno fa di un lavoro particolarmente accurato da parte di Davide Serino, che ha sostenuto con me la sua tesi magistrale, dopo aver discusso la triennale proprio con Michele Mari, alla Statale di Milano[7]. Il rinvio a questo lavoro è implicito, anche di là dai casi in cui lo richiamerò esplicitamente.

Converrà fare emergere subito un aspetto centrale. Di norma le scelte linguistiche di Mari non consistono nell’adozione sistematica di una particolare chiave espressiva, ciò che avviene solo in numerati casi: nel romanesco «lievemente anacronicstico», perché «grammaticalmente non lontano da quello rappresentato nel Pasticciaccio»[8] del racconto Li fratelli mia di EAC, in cui l’io narrante è un immaginario fratello di Romolo e Remo[9], e nei tre brevissimi racconti che, subito dopo, chiudono la raccolta, con una tecnica che può ricordare la concentrazione di effetti speciali nei fuochi d’artificio. La sostenutezza, ai limiti del linguaggio poetico tradizionale, di I figli («Crebber, sposaronsi. Mai di figli nudrirono il desio, la parola v’accinsero o il pensiero»)[10]; il gioco di Il volto delle cose (quasi una poetica), in cui un bambino riceve un brutto voto dal maestro perché usa “TROPPI AGGETTIVI” e, nelle due pagine e mezzo di testo, ogni sostantivo è accompagnato ossessivamente da un aggettivo, quasi in un artificioso esercizio scolastico («il preoccupato bambino tirò fuori dalla gommosa bisaccia gli strumenti preziosi alla triste bisogna del terribile tema»); il racconto conclusivo, Forse perché, in cui una letterarietà colorita di melodramma («”Un regalo? No, mai, tel proibisco” “Or come, anche nel dì genetliaco persisti nel niego?”») è calata in breve dialogo nel quale solo l’ultima battuta è accompagnata da una didascalia, che conclude, non casualmente, questo racconto e l’intera raccolta: «”Forse perché sei morto anche tu” rispose, e con le dita mi sfiorò una spalla. Al suo tocco lieve, mi sfarinai tutto»)[11].

 

Ma l’abituale cifra espressiva di Mari è un’altra. Per riprendere le parole di Serino 2013, p. 4, consiste in «una centrifugazione abilissima tra i registri alti prediletti e gli influssi del polo più basso della lingua, in uno straniante incontro-scontro di aulicismi, popolarismi, latinismi, tratti fumettistici, grecismi, onomatopee, grafie preziose e fonetiche».

In questo mio saggio fondato sulle due raccolte di racconti, EAC e TSI, e su tre romanzi, FA, VER e LP – tutti in varia misura con dichiarate implicazioni autobiografiche – ho guardato a testi nei quali la tensione espressiva è, in apparenza, meno rilevata rispetto all’invenzione di un romanzo come La stiva e l’abisso[12] o allo sperimentalismo anche nell’impianto narrativo di Rosso Floyd. Se non m’inganno (e se la scelta non è troppo condizionata, come pure è inevitabile sia, parlando di letteratura contemporanea, da mie personali inclinazioni di lettura), rispetto a quella che guarda ai romanzi più sperimentali si tratta di una specola altrettanto utile per osservare da vicino alcuni tratti della personalità espressiva dell’autore.

 

Quando si parla di “iperletterarietà” si pensa, in primo luogo al lessico, che è l’indice più evidente di marcatezza aulica. È un rilievo che si può fare, come si dice, ad apertura di libro.

 Ecco l’incipit di VER: «Dimidiata da un colpo preciso di vanga, la lumaca si contorceva ancora un attimo: poi stava. Tutto il vischioso lucore […]». Dimidiare è un raro latinismo di diffusione settecentesca, lucore è preziosismo caro, oltre che ai poeti, anche alla prosa d’arte del Novecento (esempi da Barilli, Bacchelli, Bonsanti e da altri nel Battaglia), stare nel senso di ‘stare fermo’, come nel manzoniano «Batte sul fondo e sta», è un latinismo semantico. Tutte e tre le forme sono messe al servizio di una descrizione umile, creando un effetto di dissonanza, anche se il tema delle lumache sarà centrale nelle allucinate percezioni del protagonista.

 

L’attenzione al vocabolario implica anche la ricchezza delle famiglie lessicali semanticamente omogenee. Ciò vale, in particolare, nei momenti espressivi più marcati. In LP 37 si introduce il ritratto di Velia, donna di servizio dei nonni in campagna, «straordinariamente lercia» (come si anticipa in LP 8 nota 2), un ritratto imperniato su una famiglia lessicale che fa leva sull’idea di “sporco” (ma proprio sporco e corradicali qui mancano all’appello): sudiciume, nerume lasciato nella superficie delle uova sode dalle sue unghie, lerceria, crassume depositato sul cuscino. Ancora in LP il rapporto carnale tra i genitori dal quale sarebbe stato concepito chi dice io è indicato, ossessivamente, con una serie di espressioni distanzianti: «quell’amplesso fatale» 4, «l’increscioso viluppo primaverile» 4, «l’abominevole coito» 6, «l’incongruo amplesso» 48 e 82, «raptus» 47 e 63.

 

Ma non c’è solo il lessico stricto sensu, cioè quello costituito da unità isolate. La formazione delle parole va da un minimo a un massimo di scarto in direzione preziosa. Il minimo può essere rappresentato dall’occasionale ricorso a verbi non prefissati rispetto a quelli correnti, come giallire ‘ingiallire’ («certe icone giallite» EAC 60), secondo una procedura già praticata da Pietro Giordani, un precedente che credo non dispiacerebbe a Mari[13].

Il massimo è rappresentato da composti con formanti dotti, che non esistono, ma soprattutto non possono esistere per il carattere fortemente idiosincratico del referente:

 

 extragredito antonimo di ‘progredito’ LP, 54 («quale mai regressione, infatti, se non si è mai extragrediti?»);

laculoquente LP 44 ‘parlante di una varietà regionale propria dell’entroterra varesotto sulle rive del lago Maggiore’ («La mia lavorante, popolana nonché volgarotta! Illetterata, ignorante, laculoquente, stupidella non poco, un’ochetta, cun quei sòkkol»);

misenabismo, da mise en abîme LP 57 («Di grado in grado nel misenabismo, così, il titolare della finzione, a eccitarsi, tematizza la propria eccitazione»).

monomestrico ‘della durata di un mese’ FA 194 («situava me in monomestrica acie»);

patopedagogico LP 98, a proposito della madre, abitualmente triste, e dei suoi riflessi sul figlio («Zitta zitta, semplicemente patendo, mia madre otteneva risultati patopedagogici che mio padre nemmeno si sognava»);

polinonimo ‘dai molti nomi’ LP 25, detto di una cameriera vagheggiata dall’io narrante adolescente, di cui a lungo si ignora il nome (e che sarà chiamata nel corso del romanzo con i nomi, assegnati sulla base della prevedibilità legata al suo infimo stato sociale, di Donatella – Ivana – Loretta: «Non ne seppi mai il nome, sicché dominava le mie fantasie da anonima o polinonima»);

pornotropo ‘vettore di lubricità’ LP 29, detto di qualsiasi percezione della donna che esuli dall’immagine della donna dello Stilnovo, il tema che comincia ad assorbire sempre più esclusivamente i suoi interessi;

preciduo ‘precedente’ FA 96 e 200 («il quarto, consorte di studi e di città del preciduo, risponde al nome di Furio Barbin», «travagliammo molto più del giorno preciduo»);

urbigeno ‘proveniente da Roma’ FA 213, detto con disprezzo di una recluta appartenente a «una ristretta comunità di Romani»;

 

L’influsso del latino − che si traduce in FA in una vera orgia di prelievi diretti, esplicito correlativo del distacco «tra la cultura ipertrofica della recluta Mari ed il carnale inferno della naia»[14] − è pervasivo e attinge anche la grammatica. Ricorrenti sono i superlativi di foggia latineggiante, abbiano o no un effettivo modello nella lingua classica; ancora una volta la procedura si concentra in FA: friabillimo 35 (in un contesto che assembra, accanto all’iperlatinismo, parole familiari o regionali come tiraccoso e tollina: «sceglierai fra brioches tiraccose e friabillime gallette più tollina di marmellata»), gracillimo 101, fragillimo 125, teterrimo 190 («lessi dall’inizio alla fine il teterrimo Woyzeck»), magherrimo 234 («un microscopico gattino bianco, lercissimo, magherrimo, fradicio, malato, miagolante di disperazione»).

 

Alcune scelte linguistiche non sono legate a una specifica funzionalità espressiva e sembrano rispondere al solo intento di creare uno sfondo genericamente distante dall’aborrita lingua d’uso. Così, senza indugiare troppo su questo aspetto, l’accusativo di relazione, frequente in tutta la produzione di Mari[15], i participi assoluti (un solo esempio, da EAC, p. 17: «di colpo se ne accorsero tutti, si fermarono come pietrificati, bloccate le membra in viluppo»), le epitropi («Di carte pochi mazzi e sugnosi» FA 133, «l’urbana posa e civile» FA 228, «sgombra la mente e affiilata» LP 79), gli arcaismi nella coniugazione verbale (fûr EAC 74, femmo FA 148, furno FA 182; qui anche, dato il contesto complessivo, ebbimo FA 160, 201, che in altri scrittori potrebbe essere rubricato come popolarismo), le apocopi di sostantivi, del tipo che Manzoni, probabilmente per malintesa imitazione del fiorentino vivo, introdusse nella revisione dei Promessi Sposi, senza poi ribadirla nella lingua degli scritti successivi[16] («con affezion maniacale» TSI 21, «l’orrenda innominabil “gimcana”» TSI 48, «all’ispirazion del momento» EAC 74, «un mammellon collinare» EAC 93). Un toscanismo, adibito però da Mari per il suo statuto letterario[17], è l’aggettivo dimolto («all’acquisto di mangime dimolto» EAC 50, «rende le amicizie del C.A.R. dimolto più intense» FA 99, «un pittore inglese dimolto gentile» LP 90).

 

Più interessante soffermarsi sui momenti in cui l’impennata arcaizzante o comunque fortemente letteraria è legata ai contenuti. A proposito di un romanzo del 1989, Di bestia in bestia, Serino 2013, 31 ha notato che l’alessandrinismo si accentua quanto più il contesto è osceno o scatologico. È una caratteristica tipica di Mari, che si coglie anche in testi come EAC in cui, non fosse che per la varietà delle situazioni rappresentate nei diciotto racconti, il tasso di sperimentalismo inevitabilmente si attenua[18]. Vediamo da vicino il passo di un racconto, In virtù della mostruosa intensità, in cui chi racconta è il possibile acquirente di un appartamento che l’agenzia ha messo in vendita; l’appartamento ha ancora i mobili degli inquilini precedenti e questo esaspera l’io narrante, che ha già in partenza un pregiudizio sfavorevole:

Tuttavia il peggio doveva venire. Entravo in bagno, e osservando il cesso immaginavo – oh non volevo, ma era catena fortiore d’idee – immaginavo dunque la quantità complessiva di escrementizia matesi che dovea aver ricevuto negli anni: la vedevo, suggestiva montagna bruna, fumigante, animata da piccoli smottamenti, da discrete slavine che ne diceano i più che chtonî chimismi: talché arretravo sgomento, tapinando fino alla stanza da letto: trito talamo antiquo, consunta piazza di amplessi smagati che si ripetevano davanti a me come uno spettacolo senza ragione né fine. Il giaciglio era fatto, naturalmente, ma io lo vedevo scomposto, polluto, mi sembrava perfino, a prestare un po’ più di attenzione, di vederci svolazzar sopra i loro sogni, tante tristi speranze, tante estasi orrende (EAC 60).

 

Stilisticamente, il passo è costruito su due livelli dissimmetrici: quello basso, rappresentato da cesso, e quello alto, che segue immediatamente la frase introduttiva («Tuttavia il peggio doveva venire»), non marcata. Questo secondo livello è rappresentato a tutto campo: dalle desinenze verbali (dovea, diceano: in opposizione al doveva iniziale), alla grafia grecizzante chtonî e alla variante latineggiante antiquo; dalle figure di suono (allitterazione in chtonî chimismi e trito talamo) al lessico non usuale: tapinando ‘trascinandosi penosamente in un ambiente ostile’ (Battaglia, punto 2), smagato detto di amplessi che si ripetono stancamente, polluto, trito, rinnovato nell’accezione latineggiante originaria di ‘consumato’ rispetto a quelle usuali di ‘tritato’ o, figuratamente, ‘vieto’. Da notare matesi, con un’alterazione paronomastica di materia per grottesca interferenza del greco μάϑησις[19]: ancora una volta la centrifuga del basso e dell’alto.

 

In uno scrittore come Mari non c’è spazio per il dialogo inteso come scambio mimetico di battute tra i personaggi. Si può notare che, anche quando un dialogo muove dalla realtà, presto il “demone della letterarietà” dello scrittore lo indirizza verso l’alto. In FA 90 si introduce la figura del sottotenente Paride, «dotato di una certa ironia e di un intermittente brillìo di argutezza negli occhi»; ma la possibile traduzione verbale di questo atteggiamento non ha nulla che rimandi al sottoufficiale «siciliano, sembiante un Ciccio Ingrassia giovine e biondo», a partire dall’immagine conclusiva, di forte impatto letterario, con ora adibita estensivamente a indicare un particolare momento del tempo:

Vedete che razza di ordini mi tocca darvi? Ne cogliete l’assurdo? Eppure eseguite, e il vostro zelo ortodosso mi regali un filo di plausibilità nell’ora ambigua che ci avvolge.

 

In un racconto di EAC, La legnaia, sono in scena un padre che si rivolge al figlio di dieci anni, che ha ancora paura dei mostri, e che il padre vuole sottoporre a un’iniziazione, mandandolo di notte nella temuta legnaia, «debitamente ignudo, senza conforto di lume». Il discorso dell’adulto è affettivamente coinvolto (variazioni sul nome del bambino, che fanno pensare a un gioco familiare tante volte ripetuto), contrassegnato da segnali di oralità (iterazioni: sei grande, un figlio deficiente; interiezioni come eh, uh; dimostrativo decurtato ‘sti, formule di coinvolgimento dell’ascoltatore attraverso interrogative ed esclamative) e dal meccanismo del baby talk, attraverso il quale l’adulto si pone sul piano linguistico del giovanissimo interlocutore (diminutivi: faccino, compagnucci; indicazione di sé con la terza persona: il papà tuo):

 

Ascolta Bastiano, Bastianellino, Nelluccio: ora che hai dieci anni sei grande, già già, un bell’ometto, sei grande ti dico, e non puoi più credere ai mostri, mi hai capito? non esistono, i mostri, sono stufo di ripetertelo, basta, hai computo gli anni e il papà tuo non te lo ripeterà più, eh Sebastiano Sebaste Sebastopòl Seborroico? Uh, e che è quel faccino? Un figlio deficiente, ecco quello che ho: un figlio deficiente! I mostri! A dieci anni! I tuoi compagnucci fan già a gara a chi ce l’ha più lungo e tu t’impapocchi coi mostri! Che sarebbero poi, ‘sti mostri?, mi piacerebbe tanto saperlo, com’è che sono, eh? […] (EAC 159).

 

Ma poco più avanti lo stesso padre innalza il registro, a tutti i livelli (con cui con valore di oggetto[20]: cui riguardando ‘riguardando il quale’, in ogni caso una struttura distante del parlato; passato remoto: fui, capitò; lessico sostenuto: sovverrà, testa ‘attesta’ e anche papà è toscanamente e letterariamente tradotto in babbo):

 

[il pezzo di legno da prendere nella legnaia sia la prova dell’avvenuta iniziazione]: lo sia per me al tuo ritorno, ma lo sia anche a te per tutta la vita tua, un bel pezzo di legno cui riguardando, ogni volta che ti riprendano i dubbî, tu dica gioioso: io fui là, solo nella notte, nudo nella legnaia, e nulla mi capitò, nulla: questo ciocco lo testa: oh quanto fui sciocco! oh quanto inutilmente tremavo! E ti sovverrà del tuo babbo, e dirai: deh se aveva ragione, il vecchio […] (EAC 160).

 

Anche se la letteratura più esplicitamente presente nella narrativa di Mari è quella anglosassone, è ovviamente ben percepibile la trama della tradizione italiana. Alcuni sono prelievi facilmente riconoscibili: Dante («Ma accadeva anche, e ‘l modo m’offendeva ancor più, quand’era alcuno dei piccoli Baldi a farle visita» EAC 102), Foscolo («la canzone che teneva le secrete vie del mio cuore era Il testamento del Capitano» TSI 112, «penso a Ecuba e Andromaca, e dico Troade inseminata, Troade vetrificata, Troade mai tanto amata, dopo anni luce di strada ferrata» TSI 119), Pascoli («oh mùtola, che è mai codesta felicità nova?» EAC 42). Altri sono rievocazioni ambientali, in cui il rinvio non è puntuale, ma riconoscibile. Nel racconto Tutto il dolore del mondo l’indifferenza del negoziante per un pesciolino dell’acquario che sta morendo suscita la reazione parossistica dell’io narrante: «Una furia omicida, tremenda, massacrarlo lì, subito a mani nude, dividerlo brano a brano sul bancone di fòrmica» (EAC 51). La frase è messa insieme con spezzoni del melodramma, in particolare verdiano[21]: a brani a brani si trova per esempio in Luisa Miller di Cammarano, II 2 («A brani a brani, o perfido, Il cor m’hai tu squarciato!…»), tremendo compare insieme ad altri aggettivi nei Lombardi alla prima crociata di Solera,  II 5 («Già la croce per l’aure balena  D’una luce sanguigna, tremenda»), e in Ernani di Piave, II 9 («Pensa pria che tutta scenda Più feroce, più tremenda D’una folgore su te»), nel Ballo in maschera di Somma, III 2 («Che tremenda, repente, digiuna Su quel capo esecrato cadrà»); e sarà inutile esemplificare i comunissimi furia e omicida, sostantivo e aggettivo.

 

La scelta dei romanzi sui quali mi sono fondato ha privilegiato quelli con riflessi autobiografici (minimi in VER, massimi e dichiarati in LP). È abbastanza naturale richiamare, almeno per contrasto, il romanzo che, nel Novecento, ha inaugurato questo filone: Lessico famigliare di Natalia Ginzburg (1963)[22]. L’impianto, le risorse espressive, la fisionomia stilistica dei due libri non potrebbero essere più diverse; ma c’è un’occasione di tangenza che va sottolineata, determinata dal forte potere evocativo di certe parole legate ai ricordi familiari. Dopo una prima rassegna di frasi e aneddoti più volte circolanti nella casa paterna, Ginzburg scrive:

 

Noi siamo cinque fratelli. Abitiamo in città diverse, alcuni di noi stanno all’estero: e non ci scriviamo spesso. Quando c’incontriamo, possiamo essere, l’uno con l’altro, indifferenti o distratti. Ma basta, fra noi, una parola. Basta una parola, una frase: una di quelle frasi antiche, sentite e ripetute infinite volte nel tempo della nostra infanzia […]. Una di quelle frasi o parole ci farebbe riconoscere l’uno con l’altro, noi fratelli, nel buio d’una grotta, fra milioni di persone[23].

 

E Mari:

 

[quando Velia, la sudicia serva dei nonni, portando il pranzo a tavola, afferrava e rimetteva sul piatto un pezzo di cibo che era uscito, io e mia sorella] dopo aver notato sul giornale il titolo del film Panico a Needle Park, ci dicevamo «Needle» e ci eravamo capiti, come con «Metodo X» («Avvincente la vita di Lincoln»: metodo x; «ragazzi, oggi pomeriggio c’è la vendita benefica all’oratorio»: needle»). (Quando vogliamo farci del male invece, sollecitare le zone più sensibili, ci diciamo «Vuoi un uovo?») (LP 156)[24].

 

Uno degli elementi che distaccano − direi proprio: oppongono − i due scrittori, è il diverso rapporto con la letteratura. Quasi costantemente dissimulato, non solo in Lessico famigliare, da Ginzburg e invece onnipresente e condizionante in Mari.

In Mari il piacere della letteratura, un piacere intenso, quasi fisico, legato in primo luogo alla rigorosa analisi del testo, è ribadito a più riprese. Una macabra canzone alpina cantata dalla madre durante l’infanzia del figlio, Il testamento del capitano, col capitano morente che chiede di consegnare cinque pezzi del suo cadavere ad altrettanti destinatari, reali (madre, fidanzata ecc.) o simbolici (patria) «mi dava – scrive Mari in TSI 113 – uno strano piacere, lo stesso in cui, crescendo, avrei imparato a riconoscere il piacere della letteratura». È un piacere fondato sulla gratuità: «non sa cosa sia la lettura chi apre un libro per altro che sia il puro piacere di leggere» (TSI, 103); proprio come quello provato nel cimentarsi con la madre in puzzle sempre più complicati, che una volta terminati vengono immediatamente disfatti, come si legge nello stesso racconto. La letteratura è anche una delle più rilevanti linee di faglia che segna il rapporto col padre, «un insoluto rapporto materiato di paralizzanti terrori e di paralitici grumi di immenso affetto inespresso» (TSI, 87): visto che – scrive Mari in LP, 84 − «la letteratura in quanto tale è sempre stata considerata da mio padre come un’assoluta perdita di tempo, una forma di titillamento molto ma molto masturbatorio, non poco decadente, anche… fradicio di ridondanza» (LP 84).

 

Carlo Mazza Galanti ha parlato, opportunamente, nel 2011 di «alfabetizzazione ipertrofica», di «ultima incarnazione, in ordine di tempo, di una risposta ostinatamente letteraria alla fine della letterarietà»[25]. Sono parole che mi piace accostare, concludendo, a quelle di un grande linguista molto sensibile al fatto letterario, Gian Luigi Beccaria, in un bilancio della narrativa italiana recente; parole che, credo, testimonino bene lo spazio che Michele Mari, con una parte consistente della sua produzione creativa, ha conquistato nello spazio letterario dell’Italia di oggi:

 

Abbiamo assistito a evidenti mutazioni. I caratteri della nostra prosa letteraria si stavano facendo anno dopo anno più sfrangiati e indefiniti […]. Era caduto nella maggioranza dei casi quel modo di scrivere cui eravamo più abituati: l’uso della propria tradizione letteraria come forma trascendente e intima, come voce da far rivivere in sonorità familiari. Sino alla seconda metà del Novecento almeno, non si era abbandonata ancora l’idea che una pagina letteraria è scrittura inscritta in una ininterrotta tradizione, scrittura intatta che per parlare nel presente e del presente arriva da lontano, si inserisce in una continuità, contiene quantità di passato, serba di esso come un distillato profumo, di esso si intride con rimandi sottili[26].

[1]Le opere di Mari, che saranno citate con una sigla seguita dal numero di pagina sono le seguenti: Euridice aveva un cane, Bompiani, Milano, 1993 (= EAC); Filologia dell’anfibio, Bompiani, Milano, 1995 (= FA); Tu, sanguinosa infanzia, Mondadori, Milano, 1997 (= TSI); Verderame, Einaudi, Torino, 2007 (= VER); Leggenda privata, Einaudi, Torino, 2017 (= LP).

[2]Sono parole di G. Antonelli, Sintassi e stile della narrativa italiana dagli anni Sessanta a oggi, in Storia generale della letteratura italiana, a cura di N. Borsellino e W. Pedullà, Motta, Milano, 1999, XII, pp. 612-711, p. 686, che fa riferimento alla polemica aperta da un noto intervento di Angelo Guglielmi del 1993.

[3]M. Mari, Il demone della letterarietà, in Accademia degli Scrausi, Parola di scrittore. La lingua della narrativa italiana dagli anni Settanta a oggi, a cura di V. Della Valle, Minimum fax, Roma, 1997, pp. 159-164, p. 161.

[4]Con un gioco verbale su calcagno, usato prima in senso proprio poi, nel parasintetico scalcagnare, in accezione traslata.

[5]Si noterà che l’esemplificazione di un qualsiasi esame è tarata su un livello culturalmente “basso”, rispetto all’aristocrazia intellettuale di M., il personaggio che dice io.

[6]Cfr. L. Pizzoli – D. Poggiogalli, Il caos ordinato della prosa di Michele Mari, in Accademia degli Scrausi, Parola di scrittore, pp. 141-147 e L. Serianni, Antico e moderno nella prosa di Michele Mari, ibidem, pp. 148-158.

[7]Cfr. D. Serino, La lingua di Michele Mari, tesi magistrale inedita (Università La Sapienza” Roma, 2013, relatore L. Serianni). Si veda anche la tesi magistrale di E. Ceresi, Esempi di antichizzazione nel romanzo contemporaneo: Bufalino, Eco, Mari, tesi magistrale inedita (Università La Sapienza” Roma, 2019, relatore M. Motolese).

[8]Cfr. L. Matt, Romolo e Remo in borgata: un racconto romanesco di Michele Mari, in Marcello 7.0. Studi in onore di Marcello Teodonio, a cura di G. Vaccaro, Il cubo, Roma, 2019, pp. 353-361, p. 354.

[9]Di qui, direi, la patina rustica del dialetto, con tratti come l’apocope di ne negli ossitoni (perchene, piune) estranei al romanesco di città, o a quel che ne resta oggi: ma confacenti appunto alla fase aurorale in cui Romolo sarà pure di stirpe regale ma è in primo luogo un uomo rozzo e violento.

[10]EAC 185. Si noteranno il poetismo desio, l’enclisi pronominale in sposaronsi, la topologia preziosa e il ritmo: il secondo periodo è costituito di due endecasillabi, come osserva anche D. Serino, La lingua, p. 133.

[11]EAC 197.

[12]Sul quale cfr. L. Serianni, Antico e moderno.

[13]Con forme come bassare ‘abbassare’, prigionare ‘imprigionare’ ecc.: cfr. L. Serianni, Italiano in prosa, Cesati, Firenze, 2012, p. 238 e bibliografia ivi indicata.

[14]D. Serino, La lingua, p. 104. Esempi attinti dalle pp. 14-20: institutio («io per la prima volta pativo a causa della militare Institutio»: anche la maiuscola ha effetto distanziante), in extremo, l’ictus del timbro, in rebus corruptis lapsisque, id est («Arroge contingente concausa, id est la saturazione universitaria»), punctum («nell’intensissimo (?) punctum della morte»), sive («un calciobalilla [sive biliardino: si respinge la sciatta dizione di calcetto]»). Un iperlatinismo, fondato su una parola di origine incerta ma certamente non di trafila latina, è goffago FA 77.

[15]Cfr. D. Serino, La lingua, pp. 137-139.

[16]Cfr. M. Vitale, La lingua di Alessandro Manzoni, seconda edizione, Cisalpino, Milano, 1992, p. 70 n. 528.

[17]Diverso il caso di un monologo interiore attribuito a un ragazzino dei giardinetti in TSI 51, da cui il narratore coetaneo prende le distanze, in cui figurano due toscanismi (o tre, se vi comprendiamo anche l’apocope di sono): «la vecchia starà già preparando la cena ma chi se n’impipa, io son grande e fo da me». Su impiparsene cfr. M. Vitale, La lingua, p. 74 n. 578.

[18]Cfr. ancora D. Serino, La lingua, p.  42.

[19]Cfr. L. Pizzoli – D. Poggiogalli, Il caos ordinato, p. 144.

[20]Se riguardare è usato, come credo, come transitivo; diversamente avremmo un abbastanza corrente dativo senza a.

[21]Non sfuggirà che un racconto di TSI è una citazione esplicita dall’Otello di Boito-Verdi: E il tuo dimon son io.

[22]Se posso permettermi una testimonianza personale: nella copia di LP che l’autore mi ha donato la dedica è «a Luca Serianni, un po’ di lessico fami(g)liare»; la g tra parentesi allude espressamente al titolo di Ginzburg, che aveva optato per l’aggettivo di relazione forse meno comune rispetto all’allotropo familiare.

[23]N. Ginzburg, Lessico famigliare, Einaudi, Torino, 1963, p. 28.

[24]Il riferimento è all’abitudine di Velia di intaccare la superficie dell’uovo sodo con le sue unghie sporche.

[25]Cit. in D. Serino, La lingua, pp. 8-9.

[26]G. L. Beccaria, Cara Nicoletta…, in «Acciò che ‘l nostro dire sia ben chiaro». Scritti per Nicoletta Maraschio, a cura di M. Biffi, F. Cialdini, R. Setti Accademia della Crusca, Firenze, 2018, pp. 61-6, p. 61.

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