di Paolo Costa

 

[Esce oggi L’arte dell’essenziale: un’escursione filosofica nelle terre alte (Bottega Errante, Udine), il nuovo libro di Paolo Costa. Pubblichiamo qui una presentazione del volume scritta dall’autore appositamente per LPLC]

 

1. Ho preso coscienza tardi dell’importanza che gli ambienti alpini – e con questa espressione mi riferisco a tutto ciò di cui si può fare esperienza in montagna: cime, boschi, torrenti, sentieri, fienili, forcelle, crode, prati, radure, ecc. – hanno sempre avuto nella mia vita. Mi ero trasferito da qualche anno a Trento e, parlando del più del meno con un amico (per la precisione un compagno di basket, originario di Auronzo di Cadore), mi sono sentito pronunciare, out of the blue, un discorso del genere:

 

«Ho passato la vita in pianura e non avevo mai capito perché mi sentissi sempre addosso la sensazione di essere dove non volevo stare. A pensarci, era un po’ come se un giorno sì e un giorno no dovessi stringere i denti per compensare quello che l’ambiente circostante mi toglieva. Da quando mi sono avvicinato ai monti ho invece l’impressione opposta: quando mi sento mancare le energie mi basta alzare gli occhi e so sempre dove andarle a pescare».

 

Le montagne sono oggetti – più precisamente, iperoggetti – ingombranti: possibile che non mi fossi mai accorto prima di un’ovvietà del genere?

Evidentemente, sì. D’altra parte, gli esseri umani sono creature stravaganti: chi si stupisce più di nulla dopo i cinquant’anni? In ogni caso, mi ci sono voluti altri dieci anni perché quella constatazione diventasse il perno di un’indagine filosofica confluita senza fretta nel libro che esce nelle librerie oggi.

 

L’arte dell’essenziale è il mio personale tentativo di tradurre in parole quella condizione non solo piacevole, ma liberante, di pensosità che ho sperimentato in montagna fin dall’infanzia (i tedeschi, con invidiabile precisione lessicale, la chiamerebbero Nachdenklichkeit). Per decenni non mi era mai passato nemmeno per l’anticamera del cervello che questo potesse essere un tema adatto per un’indagine filosofica. Oggi, invece, mi sembra che tutto ciò che ho scritto in passato non sia stato altro che un lento apprendistato per riuscire a mettere meglio a fuoco quell’esperienza originaria – l’essere al monte – mediante la quale sono entrato per la prima volta in contatto coi significati più enigmatici della condizione umana.

 

Nel libro, stilisticamente parlando, questa scoperta viene condivisa con il lettore mediante un esercizio di mimesi tra la scrittura e lo stato mentale che ho appena evocato. Suppongo che qualcuno abbia già capito di che cosa sto parlando. Il processo è notoriamente graduale. Quando si cammina in montagna serve infatti un po’ di tempo per scrollarsi di dosso quel rimuginare compulsivo e autocentrato che tutti conosciamo e che non porta da nessuna parte. All’inizio, l’inessenziale resiste. Poi, di colpo, un ricordo carico di significato sbuca non si sa da dove e un’emozione nuova prende il sopravvento. L’intensità di questo sentimento stende una tonalità emotiva enigmatica su ogni cosa. Da quel punto in avanti i pensieri prendono direzioni impreviste e il bisogno di capire prevale su ogni altro interesse conoscitivo. La fatica scompare, o meglio smette di essere solo fatica e diventa un nuovo punto di equilibrio tra sé e il mondo che rende possibile l’accesso ad angoli o piani dell’esistenza altrimenti reconditi o di difficile accesso.

 

È un’esperienza che si rinnova ogni volta che torno nei luoghi descritti nel libro e di cui non sono mai sazio. Miscelando con criterio intelletto e memoria mi sono proposto perciò di bussare alla porta di altre persone che amano la montagna e chiedere loro: «Succede anche a voi? E se sì, voi come ve lo spiegate?»

 

  1. Già, come me lo spiego io?

Se ha senso descrivere L’arte dell’essenziale come una sorta di scarpinata filosofica su e giù dalle vette materiali e immateriali che punteggiano le nostre esistenze, posso dire che ora che il libro non solo è scritto, ma si è gradualmente sedimentato nei miei pensieri, il panorama che mi si è spalancato davanti agli occhi mi appare singolarmente limpido.

La prima cosa che ho capito scrivendolo è quanto sia utile in filosofia partire da sé. Anche quando si ragiona su temi molto astratti l’urto dell’esperienza ha un valore inestimabile, quale che sia la sua fonte e senza che ciò implichi attribuire al proprio io o alla propria storia di vita una rilevanza o un valore speciale. Questa è la lezione che ho assorbito nel corso degli anni leggendo e rileggendo i libri di Hannah Arendt, ma che avevo sempre faticato a mettere in pratica. Nel caso specifico l’insegnamento è sfociato nella presa di coscienza che si può parlare di «Montagna» al singolare solo se il discorso si dirama da un vissuto non intercambiabile, esperienzialmente denso. Senza un legame speciale con una determinata montagna, non c’è periplo delle otto montagne che non rappresenti una fuga da sé.

 

La seconda scoperta concerne il benefico effetto destabilizzante che frequentare le Terre alte ha avuto fin dall’infanzia sul mio senso di realtà. Interrogarsi su ciò che conta veramente nelle nostre vite è sempre anche fare fino in fondo i conti con l’essenziale, con ciò che resta malgrado i nostri tentativi di lasciarcelo alle spalle, di spingerlo ai margini del nostro campo visivo, di razionalizzarlo. Il Pelmo, per esempio, la mia vetta dolomitica preferita, ha dimostrato di avere una tale consistenza nella mia memoria volontaria e involontaria, una tale forza associativa, che mi ha per così dire estorto a conti fatti un riconoscimento esplicito. Una simile potenza agentiva del paesaggio nelle nostre vite è un fatto quasi inspiegabile per un individuo moderno e pure resta un enigma degno di approfondimento.

 

In quale direzione? Per molti la Montagna, si sa, è soprattutto altezza, vette, cime (tanto meglio se mozzafiato). È riducibile, cioè, al fenomeno umanamente cruciale della verticalità, dell’assecondare il vettore che in un essere caratterizzato dalla stazione eretta orienta spontaneamente il down verso l’up. Dopo più di cinquant’anni di frequentazione degli ambienti alpini, la mia impressione, tuttavia, è che per gli amanti delle Terre alte l’esperienza della verticalità sia meno cruciale dell’esperienza della diagonalità. Che cosa intendo per «diagonalità»? Intendo banalmente l’inclinazione reticolare dei paesaggi montani, il loro consistere cioè di una trama di linee trasversali che racchiude in sé un enorme potenziale narrativo ed esercita pertanto un effetto galvanizzante sull’attenzione.

Ma quali sono i frutti più significativi che si possono ricavare da un simile potenziamento della cura per il mondo che finisce per incidere in profondità sul senso di realtà di chi ne beneficia? Tali frutti, è la mia conclusione, sono strutturalmente ancipiti. L’oscillazione tra abbondanza e miseria, pienezza e vuoto, è l’aspetto più caratteristico dell’esperienza di chi ha saputo costruire nel tempo un rapporto di risonanza autentica con i territori di montagna. È anche l’elemento che dà più filo da torcere alla pensosità che si sperimenta nelle Terre alte, ma resta il più illuminante per chi è interessato a venire a capo dei possibili significati dell’enigmatica forma di vita umana.

 

Tali significati hanno indubbiamente molto a che fare con l’esperienza tipicamente umana dei limiti. In particolare è la specifica forma di helplessness, di inermità, che si sperimenta in montagna a racchiudere un ventaglio di lezioni (personali, politiche, sociali, persino metafisiche) imprescindibili per chiunque abbia a cuore le parti migliori di sé e confidi ancora nella capacità di riconoscere ciò che conta veramente e rinunciare al resto, quando serve.

È da questa convinzione che è nata l’esigenza di riflettere in coda al libro sui significati latamente spirituali che nel corso della storia umana sono stati ripetutamente attribuiti alle Terre alte. È nel poscritto che faccio del mio meglio per capire se ciò che siamo soliti chiamare oggi «spiritualità» abbia o no un legame col bisogno specificamente moderno di escogitare una qualche forma rituale di riconnessione tra sé e la natura, tra l’ipersoggetto e l’iperoggetto che si danno battaglia da alcuni secoli in Occidente e hanno contribuito in pari misura a rendere gli ambienti risonanti una sfida simultaneamente epistemica, etica ed estetica per la nostra sensibilità schermata.

 

3. Probabilmente mi sono già dilungato troppo nel presentare un testo che ha una sua semplicità di fondo. C’è una valle dolomitica – la Val Zoldana – c’è uno sguardo infantile, con una sua poesia elementare, c’è un forte impegno a rendere giustizia ai molti volti della Montagna e c’è un senso a volte opprimente dell’importanza delle questioni discusse nei vari capitoli. Se tutto ciò basta per stuzzicare la vostra curiosità, L’arte dell’essenziale è il libro che fa per voi. In ogni caso, andate in montagna di tanto in tanto, e andateci con l’intenzione di fare un po’ di sana fatica. È fatica comunque ben spesa.

 

 

[Immagine: Claudia Dolci, Montagne risonanti, disegno a matita colorata, 2022].

2 thoughts on “Amor montis: le confessioni tardive di un amante delle terre alte

  1. Grazie Paolo. È un libro che mi ha permesso ritrovare parte del mio vivere la montagna. Dare una pienezza alla solidarietà all’ altruismo che non ha nulla a che fare con il meccanico. All’ essere montanara pur non avendo arrampicato scalato ma solo nel essermi presa cura di Essa delle sue stagionalità. Alla compagnia che solo Essa può fare, ai lunghi suoi discorsi accolti nel mio silenzio che mi hanno permesso negli anni di fare scelte per altri irragionevoli, ma fondate su radici sane e profonde. Tanti la rifuggono dopo averla conosciuta da giovani, ma poi si ritorna ed Essa è lì come ci aspettasse, forse è proprio in questo momento che si comprende e si inizia a vivere l ‘arte dell’essenziale.

  2. Grazie per il feedback, Monica. Per me vale molto più di quanto possa esprimere a parole. Il tuo modo di vivere la montagna è evidentemente anche il mio. D’altra parte, è cosa nota, si scrivono i libri anche per sentirsi un po’ meno soli.

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