di Maria Teresa Carbone
[Dopo Gianluigi Simonetti, Ilaria Feole, Francesca Borrelli e Andrea Cortellessa, Maria Teresa Carbone ha intervistato Paolo Di Stefano per la sua inchiesta su ciò che resta del giornalismo culturale].
In uno dei dialoghi di questo ciclo Andrea Cortellessa ha detto che la definizione di “giornalismo culturale” è antiquata, perché tutto quello che dal Settecento associamo al concetto di giornalismo (diffusione, periodicità, prezzo di copertina) è divenuto un fossile. Secondo lui, quando parliamo di giornalismo culturale, abbiamo a che fare con qualcosa di simile alla leggendaria nave di Teseo, i cui pezzi vengono man mano sostituiti, così che alla fine la forma appare simile, ma l’oggetto in realtà è completamente diverso. Cosa ne pensi? Ammesso che la parola “giornalismo” sia obsoleta, come la cambieresti?
Mi pare una giusta intuizione, però tenendo presente che prima ancora del giornalismo che ne dà o ne dovrebbe dar conto è cambiato o evaporato il mondo culturale che conoscevamo. I pezzi della nave di Teseo sono talmente frantumati da risultare irrecuperabili e comunque pressoché inservibili. Come potrebbe oggi un “giornalismo culturale” vecchia maniera rappresentare, con un minimo di attendibilità, la vastità di ciò che viene proposto ovunque, ma anche solo nel limitato territorio geografico di interesse di un giornale? Poniamo, il “Corriere della Sera”: a me capita di seguire a Milano spettacoli teatrali molto belli di cui non trovo traccia sul giornale. Ma anche di tanti incontri editoriali e letterari non trovo traccia. E questo accade non per una scelta consapevole ma semplicemente perché il giornale non ha “incrociato” quello spettacolo o quell’appuntamento specifico. Voglio dire che, anche lasciando da parte ogni giudizio di valore, è la quantità del flusso culturale a impedire un lavoro criticamente paragonabile a ciò che intendevamo fino a vent’anni fa come giornalismo culturale. La quantità complica maledettamente l’esercizio critico: non c’è giornalista o caporedattore culturale che sia in grado non dico di selezionare o governare ma neanche di avere cognizione della mole di oggetti e di manifestazioni culturali che vengono prodotti ogni giorno. Detto ciò, le possibilità sono: dedicarsi a quel che già è visibile e quasi soltanto a quello, oppure fare resistenza al fin troppo visibile e optare più decisamente per le cose marginali quanto a visibilità, dando voce quasi esclusivamente al proprio giudizio di valore. Terza opzione: escludendo che ciò che è visibile sia necessariamente pessimo, cercare un equilibrio, senza preoccuparsi troppo del fatto, evidente, che il visibile (e cioè quel che viene iperpromosso per forza economica) finisce comunque per oscurare quasi del tutto il resto anche quando si decida di onorarlo (il resto) nella misura del possibile. Il risultato più frequente è una sorta di confuso “zibaldonismo culturale”: un po’ di tutto con alcune costanti suggerite (stavo per dire imposte) dagli uffici stampa. Volendo fare un po’ di storia, spiace ricordarlo ma il primo grande caso di promozione distributiva (anticipazione alla “Repubblica”, prima recensione al “Corriere”, intervista all’”Espresso” eccetera eccetera) è stato Il pendolo di Foucault di Umberto Eco. Il massimo decostruttore dei meccanismi dei massmedia ne è stato anche il massimo protagonista o fautore in ambito editoriale. Da allora è cambiato tutto.
Ipotizzando invece che l’etichetta “giornalismo culturale” mantenga una sua valenza, ti rilancio una domanda che ho posto all’inizio del ciclo a Gianluigi Simonetti: non trovi che ci sia una contraddizione fra il lavoro giornalistico, che esclude lo specialismo, e il lavoro culturale che in buona misura lo impone? Qual è (se c’è) il punto di equilibrio?
Questa è la domanda che mi sono posto per oltre trent’anni e che continuo a pormi ogni volta che mi metto a scrivere a proposito di un’edizione critica o dell’edizione commentata di un classico uscita in una collana non dico per specialisti ma per il lettore colto (libri che vanno dalla Salerno alla Nue alla Galluzzo o ai Millenni Einaudi). In questi casi l’equilibrio lo si ottiene, se lo si ottiene, cercando di non trascurare le informazioni essenziali sul piano storico-biografico generale, e soprattutto puntando a illustrare quegli elementi dell’opera che possono offrire una qualche ragione per leggerla nel nostro tempo. Naturalmente evitando forzature eccessive, io credo nella possibilità di attualizzare i grandi libri del passato, o almeno di spiegare i motivi che li rendono contemporanei e quindi necessari per noi, oltre al piacere puro della lettura. Ricordo sempre con ammirazione un saggio di Maurizio Bettini sulle poesie di Giorgio Caproni che mettono in scena la figura di Enea: sono tre poesie con cui si chiude la raccolta Il passaggio di Enea del 1954 e che furono scritte in memoria dei bombardamenti su Genova. Caproni partiva da un piccolo monumento in piazza Bandiera che raffigurava l’eroe greco-romano con il padre Anchise sulle spalle e il figlio Ascanio tenuto per mano. L’antichista Bettini, commentando quelle poesie, spiega come Caproni abbia rappresentato, attraverso l’Enea di Virgilio, la disperazione del profugo di tutte le guerre, schiacciato dal passato e incerto su ciò che lo aspetta. E conclude con un elogio dell’”uso” e dell’”abuso” dei classici: «I grandi testi sono tali proprio perché servono non solo a riassumere il passato, ma anche a capire il presente, e a immaginare il futuro. Da questo punto di vista (ma solo da questo), non credo che si debba nutrire alcun sospetto verso il cosiddetto ‘abuso’ dei classici – anzi, mi pare che sia questo l’unico ‘uso’ sensato che se ne possa fare (…). L’Eneide basta usarla, basta abusarne, come fanno i poeti e i veri critici letterari. O semplicemente i buoni lettori». Ecco, il buon lettore è quello a cui vorrei rivolgermi scrivendo resoconti, commenti, recensioni, interviste, per offrirgli delle informazioni, delle novità critiche (quelle proposte spesso dalle nuove edizioni) e magari delle chiavi di interpretazione con aperture sul passato e sul presente. E insieme cercando di avvicinarlo al piacere del testo senza sdegnare possibili elementi di curiosità. Mi rendo conto che è un equilibrio molto fragile, ma il santo vale sempre la candela anche quando si fallisce. E a volte ti accorgi di aver fallito nel dialogo con qualche lettore-amico (non necessariamente letterato) che ti dice senza mezzi termini che il tuo articolo l’ha capito poco o addirittura non l’ha capito per niente. Questo sforzo, però, di affrontare il classico (le lettere di Guicciardini o il viaggio di Daniello Bartoli in Cina, o le lettere familiari di Machiavelli), rimane una sorta di sfida e una delle prove più appaganti per me che sono di formazione filologica. Cosa che il giornale si è forse rassegnato a concedermi su spazi anche piuttosto ampi. C’è alla base un’idea vagamente “politica” della filologia come adesione alla parola e fedeltà ai testi, evitando il fumo.
E nella tua personale pratica come ti muovi fra l’esigenza della tempestività e il ritmo più lento della riflessione, soprattutto ora che domina l’idea di breaking news e un libro di due mesi è considerato vecchio?
Per i classici il problema si pone in misura relativa perché la concorrenza è minima (e quando c’è non disturba). E comunque richiedono una lettura più meditata e i tempi si dilatano spesso. Altra faccenda è quella che riguarda i romanzi contemporanei, per i quali il ritardo è sempre vissuto male in redazione e per questo si tende a essere tempestivi il più possibile. Ma con ragionevolezza, direi. Ultimamente dalla redazione della «Lettura» mi è stato chiesto di recensire l’ultimo romanzo di Ferruccio Parazzoli, uscito da un paio di mesi e già recensito altrove, perché rientrava coerentemente nel contesto di alcune pagine che trattavano in vari modi il tema della spiritualità. Altre volte, come si è visto, per quelli che si annunciano come “eventi” editoriali (autori importanti o libri che promettono grandi vendite), gli uffici stampa si accordano con la redazione per una recensione in anteprima o in contemporanea con l’uscita e dunque in quei casi il pezzo va consegnato nei tempi pattuiti. Questi accordi sono frequentissimi soprattutto per i cosiddetti bestseller annunciati, ma per fortuna io me ne occupo poco. Per quanto mi riguarda, salvo casi eccezionali, la lettura è comunque sempre piuttosto lenta e richiede annotazioni e commenti a margine. Il vantaggio è che la lettura lenta in genere mi permette una scrittura rapida. Mi è capitato raramente di dover leggere un libro in poche ore: l’ultimo romanzo di Elena Ferrante, La vita bugiarda degli adulti, è stato distribuito on line dall’editore in contemporanea a un numero ristretto di giornali allo scoccare di una mezzanotte di qualche anno fa, e sarebbe stata una figuraccia non uscire insieme con gli altri il giorno dopo. Di recente per un malinteso ho dovuto scrivere in mezza giornata una recensione della nuova edizione Adelphi del Giornale di guerra e di prigionia di Gadda, ma già ne conoscevo i punti chiave delle novità editoriali. Certo, il primato rispetto agli altri giornali è sempre benvenuto, anche quando è palesemente insensato. Sono dinamiche perverse e molto dure a morire anche in tempi in cui il pubblico dei giornali è sempre più ristretto e la concorrenza, non solo nelle pagine di cultura, sempre più lasca e improbabile. Direi che l’esigenza di arrivare primi, che è sempre stata assurda, è un’ossessione ormai davvero anacronistica.
Per decenni la cultura ha occupato sui quotidiani di carta uno spazio importante (la famosa “terza pagina”), e quando nel 1976 Eugenio Scalfari ha fondato “La Repubblica” ha messo le pagine culturali al centro, come “il perno intorno a cui tutto ruotava”. Oggi, e non parlo solo dei quotidiani di carta, la cultura si trova quasi sempre in uno spazio separato: il secondo sfoglio, il supplemento, magari un sito “tutto per sé”. Come valuti questo cambiamento? Nel concreto della tua esperienza al “Corriere della sera” che rapporto c’è fra chi lavora alla cultura e il resto della redazione? A quale pubblico si rivolgono queste pagine o un supplemento come «La Lettura»? C’è differenza fra i lettori del quotidiano e quelli del supplemento?
La «Lettura» si rivolge a un lettore più giovane rispetto a quello del quotidiano. Lo dimostrano anche alcune rubriche decisamente poco tradizionali come le pagine del graphic novel e quelle dei Visual Data. Ma in genere anche le tematiche affrontate sono più varie specialmente nella seconda parte. La cultura è sempre sentita come un corpo a sé, uno spazio estraneo all’attualità, anche se in passato si è voluto ovviare a questa separatezza, per esempio nelle direzioni di Mieli, puntando sull’alto-basso, sulla cronaca, sul conflitto delle idee, sulla lettura contropelo della storia, sull’intervento “culturale” anche in altre pagine. Oggi mi pare che la vis polemica e la voglia di dibattere sui fatti della cultura siano molto scemate. Si tende piuttosto ad “accompagnare” o a enfatizzare che ad affrontare criticamente i maggiori appuntamenti e le uscite editoriali più attese. Le pagine culturali sono vetrine editoriali, a volte fatte molto bene, dell’esistente. E meno fastidio danno meglio è, mentre un tempo più fastidio davano meglio era, al punto che spesso il “caso” veniva inventato pur di creare polveroni. Ma non dimentichiamo che il fenomeno più sorprendente è il ritorno, con successo, ai supplementi culturali da parte dei quotidiani maggiori: fino a un decennio fa sarebbe stato impensabile disporre, oltre che delle pagine quotidiane, di 40-50-60 pagine con recensioni di libri, interviste, servizi d’arte, spettacoli, eccetera. Penso non tanto ad “Alias”, a “Tuttolibri” o al “Domenicale” che preesistevano, ma alla «Lettura» e a «Robinson», oltre al «Foglio» del sabato. Forse a questo rilancio in grande stile ha giovato l’onda lunga del fenomeno dei libri allegati, anche in funzione delle cosiddette sinergie. Questo aumenta il prestigio del giornale, ma fa crescere anche la separatezza del “settore”.
Una ventina di anni fa Nico Orengo, allora responsabile di Tuttolibri, disse pubblicamente durante un incontro al Salone di Torino, che si riteneva soddisfatto quando in un numero del supplemento c’erano uno-due articoli su libri che considerava effettivamente degni di attenzione. Allora il commento mi colpì molto per la sincerità e per la spietatezza. Ma con il passare degli anni lo capisco sempre meglio. Posso chiederti cosa ne pensi tu?
Anche a me il commento di Orengo sembra lucido e onesto, a maggior ragione oggi. Non mi ha mai molto convinto la scelta, anche dei supplementi, di puntare sulla quantità: 40-50-60 pagine alla settimana mi sembrano troppe. Nessun lettore di buona volontà (persino professionale, pensionato o nullafacente) potrà mai leggere (e forse neanche sfogliare) interamente un inserto così imponente. Se, come si dice, l’eccesso di foliazione dipende dalla pubblicità editoriale (in crescita?), questo è un buon segnale sul piano economico. Ma resta il fatto che a un giornale spetterebbe sempre più il compito di offrire al lettore una selezione ragionata e ragionevole, un punto di vista, e rispondere alla quantità abnorme di proposte culturali con una uguale e simmetrica quantità abnorme di “messe in scena” sulla pagina mi pare sbagliato. Anche perché oggi la partita della quantità, che spesso coincide con la confusione, la si gioca molto meglio su internet, e per un giornale è una sfida persa in partenza. Oltretutto i giornali dispongono anche di siti on line in cui sfogare la quantità, per non parlare degli altri “canali” digitali: meravigliose newsletter, aggiornamenti quotidiani nelle app, eccetera eccetera (materiali spesso di attimo livello giornalistico). La riduzione di pubblico dei giornali richiederebbe piuttosto una scelta più rigorosa e mirata. E anche la questione, ancora dibattuta nei giornali, dell’alto-basso (mescolare mescolare mescolare per attrarre pubblico non abituale) mi pare una prospettiva fuori tempo massimo, magari comprensibile negli anni 70, ma oggi, nell’epoca dell’indistinto, del tutto anacronistica, e anche un po’ ridicola. Dunque, tornando a Orengo e stando così le cose, mi sembra onesto riconoscere che se un lettore si sofferma su due-tre articoli in un insieme, poniamo, di 120, è un ottimo risultato.
Tu sei stato responsabile delle pagine culturali del “Corriere” dal 1996 al 2000. Come ti sei organizzato nella scelta dei libri da recensire, tenendo conto dell’enorme quantità di titoli che escono? Chiedevi il parere di consulenti esterni? Ti basavi sui materiali mandati dagli uffici stampa degli editori? In generale, quanto contano oggi gli uffici stampa nelle scelte di una redazione culturale? Cosa pensi della prassi molto frequente di anticipare stralci da libri in uscita o da interventi nei festival?
Avevo allora una compagine di collaboratori del tutto straordinaria: pensa che solo sulla letteratura firmavano Raboni, Gramigna, Magris, Segre, Baldacci, Mengaldo, Ferroni, Bo, Pivano, Zolla, Nascimbeni, Strada, Macchia, Tabucchi, Cordelli, Barilli, La Capria, Ceronetti, Mariotti, Tadini, Berardinelli, Montefoschi, Vassalli, Capriolo, Magrelli, Mari, La Porta, Del Giudice, Zanzotto, Brevini, De Rienzo, qualche volta Pontiggia, Giudici, Arbasino e altri. Quasi tutti variamente contrattualizzati. E poi non dimentichiamo: Canfora, Piattelli Palmarini, Severino, Carandini, Prosperi, Cantarella, Stajano, Giorello, Bertelli, Bossaglia… Erano molto meno numerosi, rispetto a oggi, gli scrittori che si presentano occasionalmente in veste di critici per intervenire ad hoc. Quell’insieme era fantasmagorico e anche un po’ paralizzante, perché, come ancora oggi accade, ogni collaboratore aveva libri in uscita che andavano segnalati e recensiti. C’è sempre questo problema tutto italiano di cui bisogna tener conto: i giornali, con la complicità degli uffici stampa, si assicurano sempre con grande rilievo (ne ho goduto anch’io) le anticipazioni dei romanzi e dei saggi dei propri collaboratori, il che crea delle aree di influenza, se non vere e proprie squadre, rigide e piuttosto impermeabili se si eccettuano pochi autorevolissimi nomi considerati «extraterritoriali». Mi chiedo spesso se il lettore comune si accorge di questi schieramenti (detto tra noi, non credo). L’abitudine all’anticipazione, soprattutto per i festival, garantisce al lettore interventi di alta qualità e informazioni a latere (in box eccetera) sulla manifestazione. Ma purtroppo questi accordi che vengono stretti con gli uffici stampa sottraggono spazio al giornale e gli risparmiano il compito di un vero vaglio critico: anche i festival sarebbero da seguire severamente (selettivamente), invece nei casi migliori si tende alla cronaca empatica. Siamo sempre là: è l’aspetto critico e dialettico quello che realmente manca nelle pagine culturali.
A proposito di festival, tu hai diretto gli eventi letterari del Monte Verità a Ascona e nella tua veste di scrittore hai partecipato a molte rassegne. In Italia i festival hanno avuto un successo eccezionale, più che in qualsiasi altro paese, eppure il numero dei lettori abituali non è cambiato affatto. Da giornalista culturale cosa ne pensi? La moltiplicazione di festival e rassegne ha avuto un impatto sul tuo lavoro? Se è così, qual è la tua valutazione?
Nei primi anni gli inviati venivano mandati a Torino, a Francoforte, a Mantova con l’incarico di “cercare la polemica” e questo accendeva le pagine di dibattiti e di controversie spesso artificiose ma qualche volta utili. Oggi c’è un’aria molto più quiescente e anzi la polemica viene presa con un certo sospetto, anche perché i legami con gli uffici stampa e gli organizzatori sono molto stretti: qualche volta gli organizzatori dei maxi-eventi sono autori e collaboratori autorevoli dei mezzi di comunicazione (giornali, radio, tv). Certo, c’è da riflettere sul fatto che nonostante il successo dei festival, sempre crescente stando ai numeri che vengono trionfalmente esibiti ogni anno alla chiusura, la platea dei lettori rimane più o meno immobile (solo il 41% della popolazione legge almeno un libro). Visto che gli editori grandi medi e piccoli ne escono sempre molto contenti quanto a fatturato, bisogna dedurne che se non cresce la percentuale dei lettori, aumenta la forza d’urto di quelli abituali, che in tutta evidenza vengono soddisfatti e stimolati dall’offerta dei festival, dove trovano l’occasione per acquistare ciò che non trovano in libreria. Viceversa, l’affluenza, come numero di biglietti venduti, non significa affatto che si tratti di acquirenti potenziali: è certamente un pubblico ampio che però partecipando come ascoltatore non viene per questo spinto verso la libreria. Pare insomma che il fenomeno grandioso dell’ascolto collettivo non abbia nulla a che vedere con la pratica silenziosa della lettura: restano vasi non comunicanti. Si segue una bellissima conferenza e si va a casa appagati. Naturalmente non è detto che si tratti di fenomeni superficiali, anzi. Se molti eventi, anche specifici e tecnici, hanno code per ingressi a pagamento e sono affollatissimi fino all’esaurimento, significa, al netto degli incontri più simil-televisivi, che c’è una voglia diffusa di approfondire temi anche complessi. Tutto questo dovrebbe interessare la politica, ma la politica sembra che sia più concentrata sulla battaglia di potere (come dimostrato dall’affaire grottesco relativo alla direzione del Salone di Torino). Quanto ai libri, mi pare che i nostri governanti si preoccupino di promuovere i loro titoli con presenze ossessive in televisione (e nei festival) piuttosto che di guardare a una vera politica di crescita della lettura e della cultura.
Di quella che un tempo era forse l’elemento più importante di una pagina culturale, la recensione, Simonetti ha detto che è “una forma in via di estinzione”. Sei d’accordo? E se sì (o se no) perché? Nel quadro di un grande giornale generalista come il Corriere quali sono per te le caratteristiche di una buona recensione? Cosa pensi delle – ormai rarissime – stroncature?
C’è un aureo intervento di Giovanni Raboni che dice con chiarezza quali dovrebbero essere i tre ingredienti indispensabili della recensione, variamente combinati tra loro: descrizione (delle trame, dei contenuti), analisi (dello stile, del linguaggio) e giudizio di valore. A me pare che nelle recensioni che leggo la parte descrittiva sia nettamente predominante e siano molto carenti gli altri due aspetti, cioè l’analisi (non sto parlando di quella accademica o tecnica) da cui nasce il giudizio di valore. Quest’ultimo poi viene spesso camuffato da parafrasi e giri un po’ fumosi. Forse ha ragione Simonetti, ma è paradossale che mentre il web pullula di recensioni su tutto, i giornali non riescano a proporre pareri netti e ragionati e attendibili sui libri intesi come semplice servizio al lettore. Ho l’impressione che ancor più che la recensione sia in via di estinzione il recensore-critico e non perché non esista in natura, ma perché i giornali non possono più permettersi (o non hanno più voglia) di pagare una figura professionale autorevole perché dia il suo parere su un libro. L’occasionalità, cioè la chiamata ad hoc, ha sostituito l’ingaggio regolare retribuito con stipendio: è dunque un problema anche economico. Questo aspetto, che mi pare la frattura più rilevante rispetto al passato, si accompagna con la questione cruciale della quantità di cui parlavo prima, che rende comunque più complicato uno sguardo complessivo. Da qui la polverizzazione degli interventi, per cui in mancanza di critici pagati come tali, sui romanzi importanti intervengono soprattutto gli scrittori (spesso vicini all’autore o sodali della casa editrice) chiamati a esprimersi occasionalmente oppure giornalisti non critici che fanno articoli descrittivi e un po’ trasversali ma non si azzardano alla responsabilità del giudizio. Un’altra conseguenza è il declino della stroncatura, che invece in una fase di confusione e di indistinzione come questa dovrebbe avere un rilancio. Un discorso a sé meriterebbe l’enfasi delle classifiche, sempre più ingigantite, che sostituiscono con il giudizio del mercato il giudizio del critico. E un altro discorso a sé meriterebbero i premi maggiori, soprattutto lo Strega, seguito con empatia crescente dalla stampa (e dalla tv e dalla radio), eppure sempre più discutibile. Basti pensare che quest’anno, com’è noto, i concorrenti superavano il numero di 80 e in un mese il comitato direttivo ha dovuto scegliere la dozzina finale. Gli unici criteri possibili sono necessariamente extraletterari, perché non è pensabile che i poveri giurati leggano quella mole di volumi in trenta giorni. Dunque è fatale che si giochi tutto sui rapporti di forza (o di debolezza). È una dichiarazione sfacciata di inattendibilità da parte del premio economicamente più importante, quello che decide di far vendere decine di migliaia di copie ad alcuni libri e non ad altri, e il cui prestigio favorisce le traduzioni all’estero e in definitiva l’entrata nel canone. Oltretutto, accade che persino la critica accademica, che dovrebbe ragionare secondo altri criteri, si lasci trascinare da questo vortice, per cui a ben guardare risulta perfettamente allineata sulle scelte correnti risparmiandosi lavori di scavo e di indagine su territori nuovi e inaspettati. Basta provare a sfogliare gli indici dei nomi dei saggi specialistici sulla narrativa italiana contemporanea per rendersi conto che i nomi sono sempre quelli di cui parlano i giornali e (più o meno) le classifiche…
Da qualche anno le case editrici, anche le più piccole, si dotano della figura del social media manager per poter essere presenti su Facebook, Twitter, Instagram e ora anche TikTok, nella convinzione che i social abbiano un ruolo cruciale per la circolazione dei libri. Pensi che sia davvero così? Inseriresti i social nel perimetro del giornalismo culturale? Puoi citare qualche esempio che ti pare virtuoso?
Il primo caso che mi viene in mente (e forse il più positivo) è quello di Ferrovie del Messico di Gian Marco Griffi, una vera scoperta grazie alla testardaggine di Giulio Mozzi, che su Facebook ha promosso una campagna martellante e il resto è accaduto su Instagram. Mozzi non è un social media manager ma un editore-scrittore o scrittore-editore che ha la costanza di credere nella buona letteratura e di trasmettere la sua passione. È però un caso speciale, da imitare ma inimitabile. Per il resto, l’autopromozione su Facebook, su Instagram e su Twitter (non frequento TikTok, ma so che funziona ancora di più) diventa uno strumento capace di scatenare e amplificare il passaparola tra un pubblico di lettori comuni. Se non c’è un ufficio stampa sempre pronto a scattare (lo è solo per i nomi che garantiscono un ritorno sicuro, cioè per i successi annunciati), lo scrittore deve disporre di una grande energia per precipitarsi, dopo la presentazione, a postare le cento fotografie della serata su Instagram o su Facebook con un commento sempre spiritoso, grato e commosso. Vedo un incessante agitarsi, nei social, di scrittori che si esprimono su tutto pur di essere presenti quotidianamente, specie in condivisione entusiastica con colleghi molto cliccati che possono tornare utili e ricambiare il favore. È quella che Jakobson definiva la funzione fatica del linguaggio, elevata all’ennesima potenza. Per chi conosce un po’ i meccanismi e i rapporti, questi scambi rivelano anche il loro risvolto ridicolo e a volte patetico nel tentativo di entrare in una maxi-rete che si autoalimenti. In definitiva, sapersi promuovere è un’attività che conta anche più del saper scrivere. Nel futuro vedo gli autori dotati non solo di uffici stampa supplementari e personali (che già ci sono), ma anche di social media manager ingaggiati ad hoc. Le possibilità di essere letti saranno sempre più affidate a queste dotazioni personali e personalizzate, anche perché gli uffici stampa delle case editrici sono talmente sommersi di titoli da promuovere che non riescono a promuovere nulla. Nel perimetro del giornalismo culturale? Anche quando i post sono interessanti (cito per esempio quelli di Stefano Brugnolo, che seguo con piacere), mi pare che siano tutt’altra cosa risetto al giornalismo. Sono un punto di vista sempre in soggettiva, che non ha come priorità l’informazione.
Facendo di nuovo riferimento a un’intervista precedente di questo ciclo, la critica cinematografica Ilaria Feole ha detto che sulla “questione di genere” nei media italiani ci troviamo di fronte a “un grande problema di superficialità e di eccessiva semplificazione di tematiche e movimenti, che a seconda dei casi rischia di svilire la causa femminista o, viceversa, di sostenerla con ottuso entusiasmo”. So che per rispondere in modo adeguato ci vorrebbe uno spazio ben maggiore, ma qual è il tuo punto di vista?
Il mio punto di vista coincide, se capisco bene, con quello di Ilaria Feole. Non sarà politicamente corretto, ma mi pare che il brand in sé, “donna”, troppo spesso superi ogni considerazione ragionata in materia. Sento molta retorica e demagogia, anche di parte maschile, al riguardo e i giornali ovviamente non ne sono esenti. L’effetto paradossale lo si vede nell’ambito politico dove, nel compiacersi con grande scialo retorico della presenza di donne ai vertici, il “femminile” viene trattato come colore dai giornali: com’è vestita? con chi si accompagna? come gesticola? Insomma, la donna (spesso chiamata con nome di battesimo) ridotta a “simpatico” pettegolezzo. Abbiamo visto il duello tra Meloni e Schlein rappresentato (in genere dagli uomini) alla stregua di una zuffa tra galline. Quante volte poi si approfitta del fatto di cronaca nera per mettere in prima pagina una donna purché giovane e bella. Senza dimenticare che il mondo della pubblicità continua tranquillamente a proporre modelli femminili spesso offensivi su cui si reggono i destini economici dei giornali. Altro che femminismo, direi cinismo maschilista e molta ipocrisia.
Proprio sul ruolo della critica, ma più in generale sul ruolo di una figura, quella dell’intellettuale, oggi in disarmo, vorrei chiudere chiedendoti cosa pensi di quello che scrive Giorgio Caravale in Senza intellettuali (Laterza 2023). Dopo avere appunto constatato che l’antico ruolo dell’intellettuale “impegnato, autorevole, ascoltato, rispettato, quasi sacralizzato” è venuto meno, Caravale ipotizza che stia emergendo “un modello orizzontale, meno gerarchico e selettivo, di dibattito intellettuale […] anche grazie al fiorire di riviste online” e che questa potrebbe essere “la ricetta giusta per riformulare i termini di un rapporto tra politica e cultura che rinunci al gioco degli opposti”. Tu sei d’accordo? Il giornalismo culturale è morto, viva il giornalismo culturale?
È vero che le riviste online offrono spesso degli ottimi materiali di riflessione e di discussione. Interventi saggistici, recensioni, dibattiti ad ampio raggio. Ma il giornalismo culturale avrebbe uno scopo diverso, cioè uno sguardo informativo più sistematico sulla cronaca e sull’attualità, e su queste basi dovrebbe riuscire a cogliere le occasioni giuste per aprire discussioni e confronti. Tutto ciò le riviste culturali non possono prometterlo, anche perché nascono per lo più da singole personalità o gruppi intellettuali che non hanno esperienza e sensibilità giornalistica, a meno di pensare che il giornalismo non richieda una competenza specifica. Il giornalismo culturale, così come l’abbiamo pensato almeno da un secolo a questa parte, dovrebbe presentare molteplici livelli di intervento, è un insieme in cui tutto, almeno idealmente e per quanto possibile, si tiene: contributi di diversa misura e di diverso tono, con scopi e linguaggi diversi, facendo i conti con gli spazi e con i tempi (anche nel senso di ragionevole tempestività rispetto agli accadimenti). È altra cosa dal proporre ogni giorno uno o due o tre interventi saggistici, sia pure utilissimi e di ottimo livello.