di Linnio Accorroni
Vocali, rubrica a cura di Linnio Accorroni
Caro M.,
Dudù La Capria, quando parlava di Napoli, ricorreva ad un micidiale aut-aut: o ferisce a morte o addormenta. Una antitesi che vale anche a teatro. E vale certo per questo falstaffiano signore très âgé seduto vicino a me, beatamente addormentatosi, a rappresentazione appena iniziata, nella platea piccola piccola del teatro di M. Il dormiente, va detto, calamitava l’attenzione: non solo per i mustacchioni Finis Austriae, ingrisagliato ed impettito come per una cena di beneficenza della locale sezione del Rotary, ma anche per la bradipesca velocità con cui il Gran Vecchio aveva smanettato, ante somnium, sul suo enorme cellulare, fotografando prima il soffitto – floreale – e poi il boccascena – prezioso – e poi la volta – luminescente – e poi gli stucchi – splendidi – e poi gli affreschi –trompe-l’oeil – ed infine i velluti – certo, damascati, certo – di questo splendido esempio di teatro all’italiana in una ridente – ça va sans dire – cittadina del collinoso entroterra jesino. Parlando di questo teatro, come dei tanti altri della regione – «Le Marche, la regione dei 100 teatri» recitava un dimenticabilissimo e costosissimo jingle-tormentone di qualche anno fa – i miei corregionali ricorrono, con campanilistico orgoglio, ad una formula consueta, impreziosita da un mirabolante climax ascendente. Esordiscono asserendo che quel teatro: ‘è una piccola meraviglia’; non sazi, proseguono affermando che: ‘è un gioiellino’ ed esalano alfine la gustosa sentenza finale: ‘ è proprio una bomboniera’. E, Nota Bene, il sostantivo quadrisillabico va enfaticamente scandito. Quindi, the right version is: bom-bo-nie-ra. Eravamo dunque lì io ed il signore très âgé, bianchi tutti e due come confetti dentro la bom-bo-nie-ra («Due potestà, due canizie, due esperienze consumate si trovavano a fronte», da diciannovesimo dei Promessi Sposi) per Un Bès di Mario Perrotta, Premio Ubu proprio dieci anni fa, come migliore attore protagonista. Seguo con grande interesse quel « Teatro di voci » che è il progetto a cui da tempo Mario Perrotta si dedica, con rara lucida coerenza, e ricordo ancora con grande emozione il suo polifonico Milite Ignoto, lontano 2015, in cui, dal fondo di una trincea, l’attore raccontava, attraverso un vertiginoso incrocio di voci e storie e dialetti e fanti carne-da-macello, una delle pagine più tragiche della nostra storia – la Prima Guerra Mondiale -. A dirla tutta, avevo già visto Un Bès, in un altro teatrino, cioè bom-bo-nie-ra, ma della Marca meridionale, quella ‘sporca’. Ma, per dirla ancora meglio, voglio godermi di nuovo il corpo a corpo dell’ attore e regista pugliese, con quel maudit della bassa padana che è stato Antonio Laccabue (il pittore si farà chiamare Ligabue una volta giunto a Gualtieri, RE, scaraventato lì, come un alieno lunatico e folle, dopo l’espulsione dalla natia Svizzera). Un teatrale Ligabue da antologia quello di Perrotta: febbrile delirante schizoide affabulante. La scena è spoglia, se non per tre tele sulle quali Perrotta-Ligabue traccia struggenti schizzi a carboncino; ad evocare la figura del naïf geniale e folle, una fluviale babelica koinè che mescola tedesco padano ed italiano, sapientemente utilizzata a ricostruire la straziante biografia del reietto, balbuziente Toni che entra direttamente in platea e chiede a noi spettatori, sin dalle primissime battute, la carità di Un Bès. Ma Perrotta non ‘fa’(é?) solo Ligabue. Non è solo una calligrafica straziante trasfigurazione del matto di Gualtieri. Dà corpo e voce anche al coro dei volenterosi carnefici, prima svizzeri, poi italiani, che sadicamente hanno infierito sul grande pittore: visionario e scorbutico, tenero e geniale. Ma cosa accade al dormiente signore très âgé? Chissà chi è Ligabue per lui? E lui per Ligabue? Ma non siamo mica ad Elsinore per rispondere a queste amletiche questioni. Preferisce piuttosto dormirsela della grossa questo Falstaff dei colli jesini, questo sterminatore di ciauscoli e tracannatore di Verdicchio, questo confettone beatamente sprofondato nella poltrona della bom-bo-nie-ra. Durante la rappresentazione, in piena fase post-digestiva, i suoi sonori borborigmi viscerali occupano, con un ritmico basso continuo gastrico, le rare pause del monologo attoriale. E se fosse morto? Immagino già i pezzulli orrendi dell’orrendo quotidiano locale…Ma- oh, sorpresa- eccolo, dopo l’ultima battuta, rizzarsi in piedi, con inusitato scatto repentino a dispetto della sua stazza, plaudente ed acclamante il Gran Vecchio, emittente tonitruante di osannanti ‘Bravo, Bravo’ verso l’attore. Forse, più che al grande Perrotta, gli applausi e le chiamate erano rivolte al suo apparato digestivo. Che, in effetti, favorito dall’oscurità e dal calore uterino della bom-bo-nie-ra, aveva assolto egregiamente la propria funzione, a giudicare dalla avvolgente ipnotica ritmica peristaltica. Si torna a casa. Guardando gli altri spettatori che, come me, si avviano all’uscita, mi pare di assistere ad un sequel di quel Bal des têtes con cui si chiude l’ultimo libro della Recherche. Lì, nel salotto di Madame de Verdurin, ormai diventata, con siderale rivoluzione salottiera, Principessa di Guermantes, il Narratore indugia, con spietata crudeltà, su una sfilata macabra di volti conosciuti in gioventù, ora ricoperti dall’orribile maschera della vecchiaia. Un affresco sepolcrale, una sfilata funerea. Come questa che si sdipana lentamente tra questi vecchi-come-me che paiono grotteschi fantocci di un Io e di un Tempo passato: teste bianche, schiene inarcate, andatura un po’ tremolante, nessuna traccia di una antica bellezza. Ma, adieu tristesse: è davvero tempo di tornare a casa. Fuori, nella nebbia, si intravede la sagoma gesticolante del Gran Vecchio, intabarrato in un curioso pellicciotto. Si percepiscono, anche da lontano, i suoi trionfanti «Che spettacolo! Che spettacolo!» accompagnati da poderose manate sulla schiena di un amico.