di Laura Pugno



Tavola dei nomi e delle materie è un nuovo ciclo di interviste a scrittori e scrittrici, su un loro libro.

A ognuno di loro assegnerò una materia reale o immaginaria – sappiamo che è la stessa cosa –, visibile o invisibile, astratta o concreta, che il loro libro mi evoca, e chiederò di commentare questa scelta.

A ogni scrittore o scrittrice, poi, chiederò di scegliere un nome, alias di parlare di qualcuno, qualcosa, reale o immaginario – anche qui –: luogo o persona, soggetto umano animale vegetale minerale o all’incrocio di tutti questi mondi, del presente o del passato, o addirittura del futuro, che fa parte della materia del libro o che è stato determinante nell’innescare o nel far compiere il processo creativo che ha portato al libro stesso.



Laura Pugno



Ecco la tua materia

 

Orso Tosco, in Nanga Parbat. L’ossessione e la montagna nuda (66THAND2ND), la tua materia è necessariamente la roccia. Come hai lavorato per strutturare la forma di questo libro e cosa ti ha spinto ad attingere ad altri regni – letteratura, musica, etc. – per parlare di esplorazione estrema e di montagna?



La roccia del Nanga Parbat è nudità. Nudità perché le sue pareti sono talmente ripide da non permettere allenevi di trovare appigli. Ma contrariamente a ciò che normalmente associamo al concetto di nudità – parole come disvelamento, vulnerabilità e trasparenza – la nudità del Nanga Parbat invece di consegnarci la sua vera, più intima natura, sembra complicare le cose, quasi fosse capace di rappresentare essa stessa un orizzonte verticale la cui presenza finisce
inevitabilmente per ammaliare e disorientarci. All’inizio di questo lavoro, di questo viaggio, mi sono chiesto: vuole forse risplendere il Nanga Parbat? Isolato e maestoso, vuole imporre il colore della sua roccia al ghiaccio, come un gigantesco cardo appassito nel mezzo di un prato innevato? Oppure le sue pareti verticali sono un aguzzo edificio di misericordia, un meccanismo adatto ad accumulare le nevi più in basso, verso i campi sommersi che, prima o poi, torneranno ad avere sete? Chi mi ha aiutato a farmi strada in mezzo a queste domande oziose, è stato sicuramente John Berger, quando afferma che “Una montagna occupa sempre il medesimo posto, e la si può considerare immortale, ma chi la conosce bene sa che non si ripete mai. La sua è una scala temporale diversa dalla nostra”.


Io che nemmeno potevo affermare di conoscerla bene, mi ritrovavo per di più a tentare l’indagine di una entità che abita una “scala temporale diversa dalla nostra”. Questa convinzione mi ha in qualche modo affratellato con i protagonisti delle storie che ho descritto e omaggiato, poiché esattamente come loro, mi ritrovavo, per scelta, in un ambiente estremo, affascinante e mortale, in cui era molto più semplice perdere la via che trovarla. Partendo da questa certezza,
mi sono detto che avrei dovuto trovare gli strumenti adatti, e che gli unici strumenti adatti, trattandosi di storie di amore, morte e ossessione, non potevano che essere scelti scavando all’interno delle mie ossessioni e dei miei amori privati: e quindi ecco il motivo per cui ho chiesto aiuto a poeti, artisti, compositori e coreografi. Al tempo stesso, mentre facevo ricerca e studiavo le biografie degli alpinisti di cuimi accingevo  a narrare le imprese, mi sono imbattuto nel dry tooling, una tecnica in cui Tom Ballard era maestro, e che consiste nell’utilizzo sulla roccia di materiale ideato originariamente per scalare il ghiaccio. Dopo questa scoperta, mi sono detto che il materiale di cui sapevo di aver bisogno, versi, citazioni, intuizioni, rappresentava in qualche modo un procedimento analogo.



Scegli il nome


Chi, o cosa, è stato determinante, per te, per dare forma alla roccia di Nanga Parbat o per innescare, o far compiere, il percorso che ti ha portato a scrivere questo libro?



Il mio libro precedente, London voodoo, era un noir lisergico, molto oscuro, e al tempo stesso un tentativo di raffigurare una certa Londra deformata, capace di procedere a grande velocità, spesso deragliando. Per scriverlo mi sono affidato a una prosa che ricordasse il più possibile l’incedere della moltitudine di vite che popolano e nutrono la città, ho avuto bisogno di una prosa ritmica, martellante, simile al battito cardiaco di una persona che fugge o che cerca di afferrare una preda. Come conseguenza, alla fine di quella lavorazione mi sono ritrovato senza
fiato, o meglio, ho avvertito il desiderio di procedere verso territori per me del tutto nuovi, quasi alieni.

 


Per questo credo che l’innesco iniziale, quello che mi ha spinto verso il Nanga Parbat, sia stato un bisogno di alterità. Se Londra è stata a lungo la mia città, e se il mio primo romanzo, Aspettando i Naufraghi, era un distopia ambientata nella Liguria di ponente in cui sono nato e cresciuto, quest’ultimo libro è invece legato indissolubilmente a un paesaggio che io ho visitato soltanto grazie al racconto altrui. In un certo modo, si tratta quasi del processo inverso a quello a cui ero abituato. A seguito di questa inversione di marcia, mi è sembrato naturale, utile, e in qualche modo anche appagante, modulare la mia scrittura in maniera diversa: ho cercato di affidarmi a periodi più ampi, dentro i quali potesse filtrare dell’altro, anche cose che io inizialmente non avevo calcolato. Sin da subito mi sono reso conto che un aspetto comune a tutte le vicende narrate, un aspetto che accomuna tutti gli alpinisti, è questa loro decisione, decisione che è anche un necessità, di mettersi a disposizione dell’ambiente naturale. Perché
chiunque si confronti con un elemento di gran lunga più potente di lui, sa benissimo che neppure il più grande talento e la più infallibile preparazione potranno metterlo al riparo dai pericoli e dagli imprevisti. Questo approccio, questa attitudine, sottolinea un bisogno di alterità, la voglia di confrontarsi con un contesto, estremo, capace di ridimensionare il ruolo umano, di riportarlo in una scala psichica radicalmente diversa da quella comune.

 


Non potendo procedere attraverso i gesti e la fatica fisica, ho provato a mettere le mie parole a disposizione di un’indagine altrui, sapendo che si sarebbe potuta rivelare capricciosa e imprevedibile, esattamente come la meteorologia. Ritengo che in un periodo storico che spesso tende ad assomigliare ad un grande, esausto e inesauribile commentario, ad una ininterrotta e spessissimo superflua lista di opinioni poco fondate, poter affidare le mie parole a visioni e slanci nutriti da altri, sia stata un modo splendido e tonificante per ridimensionare il mio ego che, come quello di tutti, o quasi, si sforza sempre di ottenere più spazio di quanto sarebbe saggio concedergli.

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