a cura di Lorenzo Mari e Gianluca Rizzo
[Qualche mese fa, Lorenzo Mari e Gianluca Rizzo hanno dato avvio un un’indagine, in forma di questionario, sulla valenza sociale della poesia contemporanea. Dopo Ivan Schiavone e Charles Bernstein, risponde oggi Marilina Ciaco].
1) Qual è la tecnica (intendendo con questa parola portemanteau un insieme di strategie testuali, para-testuali, extra-testuali, etc., che sia almeno parzialmente oggettivabile e condivisibile da un linguaggio critico riconosciuto o riconoscibile) che permette la conservazione e l’elaborazione della relazione tra “io” e “non-io”, dischiudendo così la possibilità di un “noi”? Tale tecnica ha a che fare con l’esplicitazione deittica del “noi”, o può farne a meno, prendendo altre strade?
Nella mia esperienza poetica e critica, lo stesso soggetto lirico tradizionalmente inteso – circoscrivendo il discorso alla poesia moderna – si costituisce pressoché da sempre, a ben vedere, come un «io» che aspira a farsi «noi», a dispetto della sua condanna ontologica, oltre che storica ed esistenziale, a essere soltanto un io, nient’altro che un io (si potrebbe far riferimento, addirittura, al frammento di Anassimandro). Non è forse questo il processo descritto dall’«individuazione senza riserve» di adorniana memoria, in virtù della quale l’universalità della poesia lirica deriverebbe da una «frattura» originaria che oppone il singolo soggetto storico al «collettivo» di cui pure è parte? Separazione che tuttavia, proprio mediante una «cristallizzazione» estetica nel medium della lingua, capovolge sé stessa in una paradossale «armonia» (che il filosofo definisce, con una formula altrettanto memorabile, «l’accordo intimo di un tale dolore e di un tale amore»). Il soggetto lirico adorniano rappresenta insomma, per definizione, l’«esistenza scissa» costretta a fare i conti con una società alienata, nei cui valori di scambio, consumo e sopraffazione reciproca non potrebbe riconoscersi. La scelta della lingua in quanto medium specifico di una tale operazione comporterebbe poi, secondo Adorno, un grado ulteriore di «paradossalità specifica», poiché «la lingua è essa stessa qualcosa di doppio. Con le sue configurazioni essa si impone totalmente ai moti soggettivi», e d’altro canto «essa rimane il medium dei concetti, ciò che produce l’ineluttabile rapporto con l’universale e con la società». La conseguenza di ciò, nell’orizzonte storico ed estetico entro il quale Adorno si trovava a riflettere, appare la seguente: «L’autocancellazione del soggetto, che si affida al linguaggio quale elemento obiettivo, e l’immediatezza e la spontaneità delle sue espressioni, sono la stessa cosa: in tal modo il linguaggio media intimamente lirica e società».
Come fa notare Paolo Zublena, appare difficile oggi riprendere integralmente le riflessioni di Adorno e applicarle tout court alla poesia nell’era del tardocapitalismo digitalizzato, poiché, in specie sul versante dei linguaggi e degli apporti extra-letterari che entrano a far parte della poesia contemporanea, i contesti e le forme artistiche differenti di cui tener conto risultano decisamente moltiplicati se paragonati a quanto avveniva alla fine degli anni Cinquanta (e Adorno, peraltro, riporta a mo’ di esempi la «lirica tradizionale» come quella di Mörike). Al tempo stesso, ciò che accomuna il Discorso su lirica e società e la Teoria estetica dell’Adorno più tardo è l’insistenza sul concetto di mediazione, vale a dire che tanto la lirica quanto l’oggetto estetico in generale adoperano dei codici espressivi i quali, in sé stessi, sono tesi a mediare il rapporto tra arte e società, prescindendo dai “contenuti” contingenti che il messaggio artistico veicola. Se, insieme ad Adorno, riprendiamo il Benjamin del Dramma barocco tedesco, ma anche i saggi sulla metrica di Franco Fortini, emergerà forse con ulteriore chiarezza quella inevitabile connessione della poesia moderna in quanto forma e in quanto linguaggio storicamente fondato con un elemento allegorico, grazie al quale si innesca, per così dire, un doppio processo di mediazione: mediazione fra “io” e “non-io”, vale a dire fra individuo e corpo sociale, ma anche fra forma letteraria e “realtà” storica e materiale esterna al soggetto-creatore, una realtà che all’interno del frammento significante dell’opera si condensa e si cristallizza. Si ricorderà che l’intera storia interpretativa della poesia modernista occidentale apparirà indissolubilmente intrecciata alla formulazione di Benjamin, che la si declini in termini di “correlativo oggettivo” o di “epifania”. La poesia modernista dice la storia e, nel farlo, ne mette dialetticamente in questione il decorso sublimandone le macerie.
Ora, la questione che mi sembra più che urgente dopo aver attraversato (e forse ancora non del tutto metabolizzato) il postmoderno, con tutti gli “effetti di deriva” di sorta, è se oggi sia ancora possibile, in assenza di un orizzonte valoriale e ideologico condiviso, credere nella possibilità di un “noi” in poesia, che non si limiti ad essere l’ennesima maschera di un “io” sovrabbondante, ipertrofico. La questione è di non facile scioglimento, a maggior ragione se si considera che il sopracitato elemento allegorico e/o di mediazione è, in un certo senso, inscritto nel codice genetico e formale della poesia stessa. Il punto è provare a capire se l’allegoria, al di là delle sue potenzialità di senso, “fuziona”. E per fare questo, perlomeno dalla prospettiva che si intende qui adottare, sarà indispensabile provare a metterci nei panni di chi legge, e quindi provare ad analizzare più nello specifico che cosa accade (o potrebbe accadere) nel momento in cui il testo di poesia è inserito in un circuito ermeneutico, “attivandosi” nella lettura e, in generale, nell’atto di ricezione.
Sarà forse tautologico ribadire che il “noi” non potrà evidentemente sussistere all’interno di un testo nel quale l’esperienza soggettiva e l’orizzonte semantico-valoriale di un singolo individuo empirico assurgono a unico paradigma interpretativo possibile. Spesso a una tale scelta – non sempre, peraltro, consapevole – si accompagna una netta preminenza dei “contenuti”, sin troppo leggibili, sulla “forma”, che invece tende quasi a dissolversi, assecondando i dettami dell’autobiografismo/diarismo più indiscriminato. Ciò non significa, naturalmente, che la poesia debba rinunciare a una componente autobiografica ma, semmai, che gli stessi elementi autobiografici, se intendono farsi veicolo di una soggettività potenzialmente plurale, dovranno passare attraverso un complesso viatico di straniamenti, distorsioni, occultamenti, trasformazioni alchemiche. Questo processo può articolarsi in maniera più o meno esplicita, a seconda delle poetiche e delle scelte linguistiche, stilistiche e macrotestuali dei singoli autori, ma anche, credo, portando l’intero discorso su di un piano che pertiene alla filosofia del linguaggio e alla semiotica, più che alla “poetica” in senso stretto.
Quanto al primo punto (mi limito, per esigenze di brevità, alla poesia degli ultimi vent’anni), le scritture di ricerca (post-poetiche o post-liriche che siano) ci hanno fornito numerosi esempi riguardo alle strategie compositive (grammaticali e non) utili a cancellare, disarticolare o schivare l’“io”: i verbi e le frasi impersonali, l’uso della terza persona – singolare o plurale – o la moltiplicazione pantagruelica dei soggetti possibili, con eventuale focalizzazione sugli oggetti, sugli spazi, sulla grammatica stessa, o in altri termini su soggetti non umani. C’è poi, naturalmente, l’uso esplicito del “noi”, e non mi sembra casuale che ben due libri pubblicati in tempi recenti (di Laura Pugno per Amos Edizioni nel 2020, e di Alessandro Broggi per Tic nel 2021) si intitolino Noi. D’altro canto, credo esistano altrettante attestazioni di modi per dire “io” senza essere “soltanto un io”, adoperando maschere o personae in parte fittizie, ad esempio, o rendendo impossibile, da parte di chi legge, la ricostruzione di un’individualità coesa, coerente, sempre uguale a sé stessa. Ritengo, ad ogni modo, che le strade possano essere molteplici, e spesso persino contraddittorie, ma mi spiegherò meglio più avanti.
Quando al secondo punto, è decisivo ricordare che la poesia in quanto forma e linguaggio, oltre a includere un elemento allegorico, è sempre, come scriveva Valéry ripreso da Jakobson, «cette hésitation prolongée entre le son et le sens». Oltre ai significati, al logos, alla verbalità linguistica in quanto strumento della comunicazione umana, la poesia è materia grafico-fonica, corpo protosematico o post-semantico, forse in grado di mettere in contatto chi scrive e chi legge con un qualcosa di difficilmente definibile e probabilmente perturbante, inconscio, ma che pure ha un peso non trascurabile nelle nostre esistenze.
Ebbene, un paio di anni fa Claudio Paolucci, sulla scorta della linguistica di Guillaume, della teoria degli attanti di Bruno Latour e della nozione di “enciclopedia” di Eco, ha elaborato una teoria dell’enunciazione impersonale e plurale che tenesse conto non soltanto del linguaggio verbale ma anche, e soprattutto, di quello audiovisivo (Persona. Soggettività nel linguaggio e semiotica dell’enunciazione, Milano, Bompiani, 2020). Per Paolucci l’interpretazione benvenistiana della terza persona come «non-persona», tenendo conto che in tutte le lingue la terza persona esprime sia l’«egli» che l’impersonale, andrebbe riformulata mediante una forma di opposizione partecipativa fra «persona» (io-tu) e «persona+non persona» (egli). In altri termini, la terza persona designerebbe simultaneamente una presenza e un’assenza, secondo quel «raddoppiamento della persona su sé stessa che vedevamo definire la soggettività, in cui un’“istanza enunciante” è in opposizione con parti di sé stessa», raddoppiamento che avrebbe a che vedere con l’autocoscienza del soggetto: ciascun «io» è tale poiché può parlare di sé in terza persona, può definirsi come «altro», può porre sé stesso a oggetto della propria riflessione. Del resto, stando alla linguistica di Guillaume, la terza persona può essere ritenuta il potenziale oggetto del discorso, ovvero una persona delocutiva, e risulta pertanto implicitamente presente anche nell’«io» e nel «tu». Per tale ragione, la terza persona sarà ripensata come «l’elemento più importante all’interno della correlazione di persona propria dell’apparato formale dell’enunciazione», nonché come il fondamento di una teoria impersonale ed evenemenziale dell’enunciazione. L’enunciazione in quanto evento deve essere immaginata, a detta di Paolucci e di Guillaume, come un atto che crea al contempo l’enunciato e le istanze enuncianti, quindi all’interno di tale atto il ruolo della terza persona diventa decisivo – essa designa tanto il soggetto quanto l’oggetto del discorso.
Anche le riflessioni di Bruno Latour sembrano propendere in tal senso per una riformulazione radicale dell’enunciazione e dell’idea di soggettività che da questa se ne trae. Per Latour l’enunciazione è infatti «l’insieme degli atti di mediazione» che definiscono «la presenza degli assenti», vale a dire gli atti di invio di un nunzio, l’enunciato (ex-nuncius), che parla al posto dell’istanza enunciante, la quale ha fornito soltanto l’innesco a una concatenazione collettiva potenzialmente illimitata di atti di mediazione e delega. Di conseguenza, un enunciato può contenere al suo interno una molteplicità di istanze enuncianti che contribuiscono alla costruzione del senso, e queste possono alternativamente trovarsi in posizioni di «presenza» o «assenza».
L’enunciazione andrà quindi concepita come un evento fluido, dinamico, relazionale, che comprende sempre una molteplicità di attanti i quali possono occupare di volta in volta posizioni di soggetto; sul piano dell’enunciazione non è soltanto il soggetto empirico umano a potersi fare “produttore di discorso” ma le istanze enuncianti possono riferirsi anche a costrutti sociali e valoriali condivisi, così come ad attanti non-umani, senza distinzione gerarchica alcuna, poiché la costruzione semiotica di una superficie significante è indifferente alle opposizioni categoriali, in pieno accordo con l’actor-network theory.
Per quanto concerne, poi, la nozione di enciclopedia presa in prestito dalla semiotica di Eco, Paolucci se ne serve per indicare l’insieme di tutte le occorrenze, le interpretazioni, i valori potenziali dei linguaggi, il mare magnum fortemente instabile del “già detto”, che però, su un piano locale, si articola in un insieme di domini stabili. Tali domini costituiscono i molteplici piani enciclopedici a partire dai quali avviene l’evento dell’enunciazione come fatto impersonale, ovvero «SI parla». L’enciclopedia, se da una parte delimita l’insieme di schemi, norme e usi che pertengono alla prassi enunciativa, dall’altra rimanda sempre a una logica impersonale ed evenemenziale, indipendente dalle singole attualizzazioni e dagli attanti che queste prevedono, poiché, scrive Paolucci, «è infatti l’evento a essere primo rispetto alle “persone” che lo vengono a occupare». Sulla base di tali presupposti, l’evento dell’enunciazione si configurerebbe, in definitiva, come un «atto impersonale che coinvolge diverse istanze enuncianti e ha a che vedere con la presentificazione di un’assenza, con la marcatura di un “non”», poiché, seguendo ancora Latour, esso sfugge sempre, lasciando al suo posto un «movimento degli assenti», una danza di simulacri sospesi fra la presenza e l’assenza:
Si hanno cioè dei simulacri dell’enunciazione nell’enunciato che rendono presente l’assenza stessa di chi è in qualche modo presente (il lettore), oltre che di chi è assente (l’autore). Il lettore empirico gioca con la sua propria presenza presentificata nel testo che lo inscrive in quanto simulacro. L’autore empirico fa specularmente la stessa cosa. […] Il soggetto, così come l’istanza dell’enunciazione, è sempre qualcosa come un occupante senza posto perché non ha un posto proprio, tanto da non poter essere di fatto localizzabile in alcune categorie linguistiche privilegiate come gli embrayeurs. Il soggetto non è mai vuoto […]. Il soggetto è se mai sempre costitutivamente troppo pieno e la sua enunciazione procede “per togliere”, a partire dalla bava e dai detriti della semiosi in cui è diffuso e disseminato. (Paolucci 2020, pp. 176-179)
Questo passaggio della teoria di Claudio Paolucci potrebbe aprire un varco inatteso per una lettura alternativa del ruolo della soggettività nelle scritture che abbiamo menzionato, e non solo, secondo un paradigma senz’altro eccentrico, radicale, ma che, proprio a partire da una tale radicalità, potrebbe gettare le fondamenta di una inattesa costruzione teorica. Procedendo nella disamina, lo studioso insisterà sulla struttura fortemente relazionale, rizomatica, dell’enunciazione, e sul fatto che, fondando la teoria dell’enunciazione su un evento, sia necessario pensare a «un sistema pre-individuale plurale e diffuso (enciclopedia) che con-tiene al suo interno le differenti istanze enuncianti collocate su differenti modi di esistenza». Nel compiersi dell’atto enunciativo non sussisterebbe alcuna distinzione dirimente fra soggetto e oggetto, fra le norme sociali e istituzionali, fra un’espressione idiomatica o fàtica e un ente tangibile, poiché tutte le istanze enuncianti contribuiscono a dare forma a quel sistema intersoggettivo di fondo da cui hanno origine tutti gli atti di mediazione e delega.
Quale funzione attribuiremo dunque al lettore empirico nel movimento inarrestabile e pluridirezionale dell’enunciazione? Paolucci sostiene che «il lettore empirico gioca con la sua propria presenza presentificata nel testo che lo inscrive in quanto simulacro»: è anche lo stesso lettore, attivando il complesso meccanismo enunciativo-testuale con il proprio atto di ricezione, ad essere cooptato all’interno dell’enunciazione stessa, prendendo il posto delle altre istanze enuncianti e quindi, eventualmente, dello stesso soggetto. Un approccio di questo tipo, facendo leva sulla costruzione della soggettività a partire da un’enunciazione che nasce come impersonale e relazionale, ci permette di immaginare nuove forme di ridefinizione della soggettività che possano essere valide anche per la poesia, e in particolar modo per quella poesia che si vorrebbe esplicitamente libera dal vincolo di un’individualità empirica e poietica predefinita.
2) Qual è la tua posizione nei confronti di un “noi” come “pronome politico” in relazione alla tua e/o ad altre scritture?
Le scritture contemporanee all’interno delle quali mi sembra si possa articolare la possibilità di un “noi” sociale, politico, esperienziale, potrebbero collocarsi in seno a tre linee di ricerca principali. La prima è quella delle scritture non assertive, legate a realtà che sono al tempo stesso online e on-life, come GAMMM, «Nazione Indiana», la rassegna di incontri Ex.it o, com’è noto, l’antologia Prosa in prosa. In questi casi, pur trattandosi di un panorama estremamente frastagliato, eterogeneo, e tuttora in via di sistematizzazione critica, a essere oggetto di una radicale ridefinizione è non soltanto l’idea di soggetto che ci è stata restituita dalla tradizione lirica, ma l’intero sistema-poesia in quanto forma e in quanto genere. Si è parlato a più riprese di scritture opache, indecidibili sul piano semantico e referenziale – penso al saggio teorico di Gian Luca Picconi –, così come di forme letterarie evidentemente intermediali, transgeneriche, la cui natura ibrida deriva dall’avvenuto attraversamento di altre forme artistiche, in particolare le arti visive, cui consegue un’importante mutazione sul piano della fenomenologia estetica e dei rapporti fra produzione e circolazione del senso. La seconda linea è quella che definirei tragico-rituale e che possiamo ritrovare, ad esempio, negli autori e nelle autrici pubblicate all’interno della collana “Croma K” di Oèdipus: Ivan Schiavone, direttore della collana, ne ha fornito un quadro critico esaustivo in una puntata precedente di questo questionario. Mi sembra che lungo una tale linea a emergere sia il configurarsi dell’atto poetico come evento linguistico che si invera nella cornice di un preciso spazio rituale – quello materiale della pagina ma anche quello pragmatico e politico della polis: si tratta, in ogni caso, di uno spazio collettivo, all’interno del quale le istanze del soggetto empirico individuale risultano comprese e, per certi versi, superate, dalle istanze condivise di un più ampio discorso culturale e antropologico. La terza linea si potrebbe chiamare, con un certo grado di approssimazione, post-lirica, intendendo con questo termine tutte quelle scritture che, pur recuperando numerosi elementi della lirica modernista e mantenendo un grado più o meno costante di “assertività”, testimoniano l’ormai storicizzata contaminazione della poesia lirica con altre forme e altri generi: il romanzo e la narrativa in generale, il teatro, la scrittura saggistica, anche in questo caso (seppure con declinazioni differenti) le altre arti e gli altri media. Si tratta di quel processo già in atto, a ben vedere, a partire dagli anni Sessanta, e ben descritto da Enrico Testa in Dopo la lirica. Con l’aggiunta, per la poesia degli ultimi vent’anni, di una sensibilità storico-sociale che affonda le proprie radici – culturali ed estetiche – nel contesto specifico degli anni Zero. Una poesia che dica “io” spogliandosi di tutti quegli elementi di soggettività irriflessa o di pathos ingenuo, e anzi dando voce alle contraddizioni dell’individuo-merce o individuo-avatar del tardocapitalismo avanzato, può giustamente aspirare a essere “come tutti”, come scrive Guido Mazzoni.
Per quanto riguarda la mia scrittura, nella prima plaquette che ho pubblicato, Intermezzo e altre sinapsi (Edizioni volatili, 2020), mi sentivo piuttosto vicina alla seconda linea che ho menzionato, mentre nel secondo libro, Ghost Track (Zacinto, 2022), credo balzi all’attenzione una certa oscillazione fra la prima e la terza linea. Potrei dire che il soggetto (ectoplasmatico) di Ghost Track è sempre sul punto di autofagocitarsi senza mai giungere al punto di annichilirsi del tutto. C’è un discorso storico e politico che si dà a sua volta per vie straniate o per sottointesi, forse perché ritengo che tutta l’arte sia politica, ma mi interessa meno la “poesia civile”, eccetto rare eccezioni che riguardano la lotta simbolica e materiale legata a particolari gruppi o minoranze. Al contrario, le tre linee che ho indicato mi interessano molto, e mi sembra che, pur nella loro grande diversità, abbiano in comune un elemento di contaminazione in senso ampio che diventa strutturale, un’intrinseca tensione all’ibrido – forse a indicare che il “noi” dei nostri anni sarà di necessità contaminato, plurale, formalmente meticcio.
3) Come si può concepire, se si può, una sorta di “immagine dialettica” nella poesia e nella scrittura di ricerca contemporanee?
Studiando negli ultimi anni la particolare fenomenologia estetica di alcune scritture di ricerca contemporanee, e nello specifico di quelle “ibridate” in via più diretta con forme artistiche come l’installazione, ho provato a sviluppare una teoria interpretativa (tuttora oggetto di studi ulteriori) che ho avuto modo di presentare in un saggio recentemente apparso sulla neonata rivista dell’Università Statale di Milano «Configurazioni». Questa teoria converge in un dispositivo letterario sinestetico che è anche, in molti sensi, un’immagine dialettica, e che ho chiamato (in via provvisoria) allegoria metacognitiva. All’interno di questa “figura non figurativa” gli elementi semantici e quelli non semantici (visivi, sonori, materiali) della poesia contribuiscono in egual misura alla produzione di senso, ma a partire da un “vuoto” di soggetto – o da un soggetto incoerente, manchevole, “bucato” – che favorirebbe l’integrazione dell’azione del lettore-spettatore, ovvero il suo intervento diretto nella costruzione dei possibili significati del testo. Un’allegoria “cava” di questo tipo si rivela profondamente dialettica poiché, proprio come avviene in molte installazioni immersive, a un decentramento della soggettività autoriale (o alla sua eventuale scomparsa) corrisponde una moltiplicazione delle prospettive e degli sguardi attraverso cui percepiamo l’opera. Tale moltiplicazione, potenzialmente illimitata, comporterebbe poi, a un ulteriore livello di analisi, l’emergere di una soggettività multipla, relazionale, plurale, che è al tempo stesso soggetto e oggetto, umana e non umana, puntuale e diffusa. O, se vogliamo, la messa in opera di un paradigma ecologico, inclusivo e trans-specifico attraverso cui intendere il “noi”. Si tratta, per il momento, di una proposta ermeneutica ancora in fieri, e forse, per certi versi, già implicita in altre sperimentazioni letterarie e artistiche sorte dalla seconda metà del Novecento in poi. D’altro canto, è possibile che soltanto con la coscienza tecnico-storica, sociale e mediale maturata negli ultimi decenni possiamo ritenerci in grado di coglierne appieno tutte le implicazioni.
4) Dato il confronto, che appare ineludibile, con le singole comunità poetiche e i loro contorni che, per quanto labili, si sovrappongono spesso ai contorni delle comunità linguistiche, nazionali o culturali, esiste la possibilità di un confronto transnazionale – propiziato dalla traduzione, ma anche da altre forme di scambio, o anche conflitto, come le digital humanities, l’intelligenza artificiale o anche le nuove forme di scrittura a distanza – che susciti nuove opportunità per il “noi”? A quali esperienze specifiche ricondurresti questo confronto, e con quali prospettive?
Mi sembra importante tenere a mente un fenomeno che ha inciso notevolmente su molta della letteratura scritta a partire dai primi anni Duemila, e cioè la mutazione radicale in termini di logiche di produzione e fruizione dei contenuti – anche artistici e letterari – innescata dall’avvento di Internet. Si tratta di una questione ormai nota, che è stata ben descritta da un saggio di Gherardo Bortolotti pubblicato su «Nuova prosa» nel 2014, poi ripubblicato su «L’Ulisse» due anni dopo, che si intitolava Oltre il pubblico: la letteratura e il passaggio alla rete. Nell’ultimo decennio mi sembra che le dinamiche argomentate in quella sede abbiano subito, almeno in parte, un’inevitabile sclerotizzazione: oggi appare del tutto “naturale” che esistano degli standard più o meno condivisi nella produzione testuale e audiovisiva (Instagram e TikTok c’entrano con tutto questo, ovviamente), così come, su un versante più sperimentale, che una serie di procedure compositive come il googlism, il glitch, lo shitposting, l’intero universo memestetico, insomma, siano ormai diffuse su larga scala. Il rischio, dal mio punto di vista, è che l’accelerazione tecnologica abbia accorciato i tempi di obsolescenza anche per pratiche di questo tipo, e che quindi la neutralizzazione del loro potenziale dirompente, eversivo, sia sempre dietro l’angolo. Mi auguro che il “noi” emerso da questo paradigma transnazionale – soprattutto anglofono, in questo caso – non sia soltanto lo spettro di una collettività disgregata, costituita da milioni di individui occidentali, ciascuno prigioniero della propria singolarità e del proprio disincanto, magari autoironico, witty, ma pur sempre, in fondo, impossibilitato a compiere un’azione concreta sul reale. O forse sarà proprio questa comune coscienza della contraddizione tardocapitalistica a trasformarsi, per un ulteriore rovesciamento dialettico, in un paradossale collante sociale. Ci troviamo ancora nel dominio dell’ignoto e della possibilità, credo. Altra questione è quella che riguarda l’applicabilità di un paradigma transnazionale a letterature prodotte da soggetti non egemoni, da minoranze, da comunità che sono state storicamente marginalizzate o persino negate. Non possiamo fare a meno di integrare gli strumenti critici tipicamente “continentali” con le acquisizioni che provengono dai postcolonial studies, dai gender studies, dai disability studies, eccetera, per prendere coscienza del fatto che non può esistere scambio senza conflitto, e che i possibili “noi”, per poter essere non soltanto dei pronomi, necessitano di un’“attivazione”, e cioè di essere contestualizzati e storicizzati. Il “noi”, come tutto il linguaggio, del resto, è sempre un qualcosa di processuale, una costruzione graduale, un divenire. In tutto questo, l’intelligenza artificiale e gli sviluppi tecnologici in generale possono diventare uno strumento interessante soltanto se sottratti alla logica dell’efficientismo e del produttivismo, insomma all’applicazione acritica. Sappiamo sin da Tape Mark di Balestrini che cosa una macchina può, o potrebbe, scrivere, ma tendiamo forse a dimenticare che cosa non è: esibire l’ambiguità intrinseca al nostro rapporto con la tecnologia può essere una delle molte strade praticabili.
5) Come si articolano le questioni sollevate (politiche, sociali, tecnologiche, antropologiche) nella tua pratica quotidiana di scrittura poetica e critica? Trovi che alcune di queste problematiche sono più vicine alla tua sensibilità, alla tua poetica?
Condenso questa risposta in quelle che potrebbero essere due parole chiave della mia poetica: autocoscienza e intersezionalità. Proprio perché, nella mia esperienza, non vivo il “noi” come un qualcosa di statico o di già dato, ma sempre come un’istanza verso cui tendere, un risultato da costruire collettivamente, penso che la scrittura possa farsi tramite di una presa di coscienza che parte dal sé, dal moi che non è più un Je: riflettere (metacognitivamente) sul proprio essere nel mondo e sull’insieme di percezioni, stati, mutamenti di cui siamo parte, consente quel fondamentale trascendere dell’Erlebnis in Erfahrung di cui parlava anche Giuliano Mesa. Il mio ultimo libro, Ghost Track (Zacinto, 2022) incomincia con la percezione straniata di una stanza che è «scontornata ma compatta» a un tempo, all’interno della quale avviene qualcosa, si consuma un evento di cui non è mai esplicitata del tutto la natura. Sono consapevole, però, di scrivere da una posizione di privilegio, quantomeno relativo: sono una donna bianca occidentale cis-etero, e questo, in un modo o nell’altro, influisce su quello che scrivo e sul modo in cui lo scrivo. Per queste ragioni, sto lavorando principalmente in due direzioni che vedo come complementari: da una parte, vorrei esporre sulla pagina i fantasmi, i mostri, gli scheletri nell’armadio, le contraddizioni che hanno nutrito un certo stereotipo di “letteratura occidentale” e, come propaggine addomesticata di questa, di “letteratura femminile”; dall’altra, sto limitando gli elementi irriflessi affinché proliferino i germi di un tipo di soggettività non solo umana, ma anche oggettuale e spaziale/atmosferica, o di una soggettività che nel suo dire (inevitabilmente) l’umano possa farsi cifra di un “sentimentale” più ampiamente condivisibile, anche quando ci ricorda il nostro essere inessenziali, il nostro sentirci sopraffatti dall’impronunciabilità della vita.
6) Si è cercato di tracciare un panorama delle questioni più urgenti partendo dal “noi”: condividi questo modo di descrivere l’interconnessione dei vari problemi sollevati?
Sì, condivido decisamente la prospettiva adottata da questo questionario.