di Italo Testa
[Esce oggi per Interlinea Autorizzare la speranza. Giustizia poetica e futuro radicale di Italo Testa, un percorso saggistico eccentrico tra poesia, paesaggio, filosofia, e immagine. Le pagine che seguono sono tratte dalla prima sezione del libro].
Metriche della felicità
Monitoraggi. Come potrebbe uno sguardo poetico orientarci nella perlustrazione della felicità? Nulla ci soccorre nel pensare cosa potrebbe mai essere un monitoraggio poetico del benessere. Potrebbe un tale sguardo aiutarci a quantificare dati che misurino la qualità della vita? Viene subito il sospetto che la domanda sia mal posta: ché la poesia ha un’attitudine frontale, e vorrebbe accogliere tutto della vita: dirne il bene e il male, la durezza accanto alla dolcezza, l’infelicità senza desideri e la felicità possibile. Uno sguardo che vorrebbe accogliere ogni cosa. Uno sguardo che ci pone il problema del ‘come’ piuttosto che del ‘che cosa’. Poesia e felicità, o del come guardare. Come dovremmo guardare per afferrare gli aspetti qualitativi della vita?
Misura del respiro. La poesia è una forma del vivere ma anche una tecnica, un bagaglio di strumenti che mettono in forma le cose. Non dovremmo mai dimenticare che, in forma libera o chiusa, la poesia è sempre una pratica metrica: essa pretende una misura espressiva, una metrica del linguaggio, che in epoca moderna assume, come altri aspetti delle transazioni umane, una forte torsione quantitativa. I versi si lasciano misurare secondo il numero di sillabe che contengono: ed è proprio questa definizione metrica che configura la forma poetica. Ma la scansione del linguaggio è insieme una misura del respiro, un’articolazione ritmica di quel soffio che segna il limite tra interno e esterno, di una soggettività che cerca espressione, e che proprio attraverso la costrizione metrica del verso si lascia misurare dagli altri, si rende comunicabile pur nella sottrazione. Anche la poesia è allora parte di quella spinta alla quantificazione che sorregge il moderno, e l’idea di una metrica della felicità è, contro ogni comprensione ingenua ed edulcorata, un’ immagine felicemente poetica.
Quantificare in una luce strana. Eppure è una ben strana quantificazione che accade in poesia. Riversandosi nel mondo, lo sguardo poetico quantifica ciò che esiste, ma in vista di ciò che non è dato: non solo in vista di un’esigenza o di un obiettivo futuro, rinviato nel tempo, ma in direzione di qualcosa che non potrebbe mai esistere, e che proprio per questo non è rinviabile.
Così scriveva Paul Celan:
Ricerca topologica?
Certamente! Ma alla luce di ciò che della ricerca è oggetto: alla luce dell’U-topia.
E l’uomo? E la creatura?
In questa luce[i].
Che cosa significherà misurare il mondo in questa luce strana? Che cosa osserva, o meglio, come osserva chi sta sotto l’angolo d’incidenza di questa luce? È uno sguardo che principia da un luogo, lo perlustra palmarmente, eppure con una direzionalità estranea. È uno sguardo che, installato in un qualche luogo, reclama un altrove come inderogabilmente nostro, qui e ora. Andrea Zanzotto ne ha parlato una volta in questi termini:
Sì sa che, forse, il fine ultimo della poesia è il paradiso, e che un’esperienza paradisiaca, il “paradisiaco”, è il miraggio più o meno confessato di ogni poeta, miraggio dalle più diverse coloriture, ma terribilmente uno nel suo carattere. Pochi toccarono questo non-luogo dell’esperienza, anche se ogni testo, perfino il più “infernale”, ha un qualche rapporto con questo non-luogo[ii].
Nel luogo che misura, la poesia reclama un non-luogo, e questa richiesta non ammette deroga: non si tratta dello stato paradisiaco come della fuga in un altro mondo, il rinvio alla fine dei tempi. Si tratta invece di un’idea di felicità che viene reclamata per questo istante, perché uno spiraglio nel cielo si apra su questa terra, nella prontezza dell’ora, come il fiocco di neve che, in A piece of the storm, entra nella camera di Mark Strand:
Frammento di tempesta
Dall’ombra delle cupole nella città delle cupole,
un fiocco di neve, tormenta al singolare, impalpabile,
è entrato in camera tua e s’è fatto strada
fino al bracciolo della poltrona dove tu, alzando lo sguardo
dal libro, lo scorgesti nell’attimo in cui si posava. Tutto
qui. Null’altro che un solenne destarsi
alla brevità, al sollevarsi e cadere dell’attenzione, rapido,
un tempo tra tempi, funerale senza fiori. Null’altro
tranne la sensazione che questo frammento di tempesta,
dissoltosi davanti ai tuoi occhi possa tornare,
che qualcuno negli anni a venire, seduta come adesso sei tu,
possa dire:
“È ora. L’aria è pronta. C’è uno spiraglio nel cielo”.[iii]
La luce utopica della poesia è una certa idea di felicità. Non è l’esperienza stessa della felicità – pochi, come scriveva Zanzotto, toccarono questo non-luogo dell’esperienza – bensì la rivendicazione che la sua pretesa non sia rinviabile, che essa sia misurata su questa terra, dovesse pure quest’ultima andare in pezzi sotto quella luce radiante.
Per una promessa. La poesia s’alimenta della luce utopica di un’idea di felicità e di questa può nutrire anche la nostra esperienza, affinando il nostro sguardo, rendendoci sensibili, educandoci a vedere cose invisibili, non-luoghi, chimere. Ma pur rinnovando la promessa della felicità essa non è di per sé l’esperienza di quest’ultima, ma s’inscrive piuttosto nella durezza di un luogo mortale. Come scrive Seamus Heaney:
la poesia soddisfa l’esigenza contraddittoria che la coscienza prova in momenti di estrema crisi: il bisogno, da un lato, di dire la verità, dura e punitiva; dall’altro, di non indurire la mente al punto che essa giunga a rinnegare il proprio desiderio di dolcezza e di fiducia[iv].
Di quale promessa si tratta? In gioco qui è la dimensione radicale della felicità: di una felicità che non si lascia ridurre al benessere fisico e economico, e neppure alla questione etica della vita buona o al rinvio religioso a un mondo a venire. Di una felicità che sporge immancabilmente oltre ogni processo oggettivo e aspirazione collettiva. È una dimensione radicalmente individuale della felicità di cui la poesia si fa portatrice: l’idea inderogabile della felicità come possibilità di un’individuazione compiuta, della messa in salvo della singolarità. Di ogni singolarità, come scrive Mark Strand in Keeping things whole:
Preservare la compiutezza delle cose
In un prato
io sono l’assenza
del prato.
È
sempre così.
Ovunque sia
sono ciò che manca.
Quando cammino
fondo l’aria
e sempre
l’aria rifluisce
a colmare gli spazi
in cui è stato il mio corpo.
Tutti abbiamo motivi
per muoverci.
Io mi muovo
per preservare la compiutezza delle cose.
Che cosa dice ai nostri discorsi sulla felicità pubblica quest’esigenza di mettere in salvo la voce privata, se non che vi è un elemento soggettivo senza il quale nulla potrà mai essere percepito come adeguato alla felicità?
I bisogni allocati e quantificati socialmente, per esprimersi con Agnes Heller, non determinano i bisogni individuali[v]: questi, pur essendo plasmati dai processi sociali di allocazione e quantificazione dei bisogni, sono in ultima istanza rimandati ai singoli individui per la modalità della loro attuazione. Ma la spinta utopica della poesia va oltre, ché essa sembra dar voce a un bisogno veramente radicale, un bisogno qualitativo apparentemente non quantificabile né attuabile.
Contromovimento. Non dovremmo però incorrere nell’errore di dimenticare quanto la poesia abbia a che fare con uno sforzo di mappatura del nostro luogo terreno, di misurazione del qui nella luce dell’altrove. Essa non predica la fuga dal mondo, ma è una vibrante protesta contro di essa, e pretende di legare il bisogno radicale all’istante, alla contingenza e alla caducità delle cose, il non luogo al luogo, la qualità alla quantità. Forse l’idea poetica della felicità potrebbe meglio essere caratterizzata come un’idea della trasfigurazione: un movimento che dal basso si volge all’alto, allo spiraglio nel cielo, per tornare di qui a dare evidenza alle cose. A convertire subitaneamente la quantità, la metrica del luogo, in qualità. A trasfigurarla in una luce strana. A tradurre questa quantità in una forma unica, singolare. È questa dialettica di quantità e qualità, questo doppio movimento paradossale ma necessario, che la poesia si sforza di ricordarci come proprio di un’idea di felicità che ci appartiene e supera, e cui siamo consegnati in questo mondo. Con le parole di Wallace Stevens:
Esiste un mondo poetico che non si può distinguere da quello in cui viviamo, o, più propriamente, dal mondo in cui un giorno vivremo[vi].
Quest’indistinzione tra il mondo poetico, il mondo in cui viviamo e il mondo in cui vivremo, può essere colta con il potere della suprema finzione: “il potere della mente sulla potenzialità delle cose”[vii].
La potenzialità delle cose. Dare credito alla poesia significa riconoscere il potere dell’immaginazione come qualcosa che agisce dentro il mondo in cui viviamo. Questo è il potere della mente sulla potenzialità delle cose.
L’idea di felicità radicale può essere toccata solo con l’immaginazione, ché solo questa ha il potere di dischiudere la potenzialità delle cose. Un richiamo che agisce nel mondo in cui viviamo, perché allo stesso tempo ci ricorda che questa nostra capacita immaginativa è già una parte del nostro spazio sociale, che questo ne è plasmato. È in questa luce trasfigurante che dobbiamo guardare alla mossa con cui Martha Nussbaum ha incluso l’immaginazione nella lista della capacità umane fondamentali: capacità il cui sviluppo integro è condizione del benessere individuale e dovrebbe essere garantito dalle istituzioni politiche[viii].
La poesia è quell’attività espressiva che, portando a fioritura la nostra capacità immaginativa, ci rammenta che essa è un bene propriamente umano, ma insieme la radicalizza: una componente costitutiva di ogni metrica della felicità, e insieme qualcosa che ci chiede di estendere le metriche date alla luce di un’immagine alternativa di ciò che potrebbe essere.
Limpida luce. Lo sguardo poetico allora può farci apprezzare l’immaginazione non solo come una delle dimensioni del benessere – un aspetto della dimensione psicologico-cognitiva – ma insieme come quella cifra espressiva che taglia trasversalmente le altre dimensioni, giacché, come scriveva Stevens, “noi viviamo nei concetti dell’immaginazione prima che la ragione lo stabilisca”[ix]. Un monitoraggio poetico del benessere, tornando all’inizio, non si volgerà al che cosa – quasi vi fossero degli oggetti privilegiati da osservare da questa prospettiva – ma al come dello sguardo, perché esso possa essere all’altezza della vita immaginata e vedere la “limpida luce che orla il colore delle ombre del mondo”, come in questi versi di Franco Fortini:
Vice veris
Mai una primavera come questa
È venuta sul mondo. Certo è un giorno
Da molto tempo a me promesso questo
Dove tutto il mio sguardo si fa eguale
Ai mie confini, riposando; e quanta
Calma giustizia nel pensiero è in fiore
Quanto limpida luce orna il colore
Delle ombre del mondo. Ora conosco
Perché mai dagli inverni ove a fatica
Si levò questo esistere mio vivo
M’è rimasto quel nome, che mi scrivo
Su quest’aria d’aprile, o sola antica
E perduta e oltre il pianto sempre cara
Immagine d’amore mia compagna.
[i] Paul Celan, Il meridiano, in La verità della poesia, cit., p. 17.
[ii] Andrea Zanzotto, La freccia dei Diari, in Fantasie di avvicinamento, ora in Scritti sulla letteratura. Volume primo, a cura di G.M. Villalta, Milano, Mondadori, 2001, p. 41.
[iii] Mark Strand, L’inizio di una sedia, a cura di D. Abeni, Roma, Donzelli, 1999, p. 29.
[iv] Seamus Heaney, Sia dato credito alla poesia, in Sulla poesia, cit., p. 81.
[v] Agnes Heller, La bellezza della persona buona, Reggio Emilia, Diabasis, 2009.
[vi] Wallace Stevens, Il nobile cavaliere e il suono delle parole, in L’angelo necessario, cit., p. 35.
[vii] Wallace Stevens, L’immaginazione come valore, in L’angelo necessario, cit., p. 117.
[viii] Cfr. Martha Nussbaum, Creare capacità. Liberarsi dalla dittatura del PIL, Bologna, il Mulino, 2012.
[ix] Wallace Stevens, L’immaginazione come valore, cit., p. 131.
[Immagine: Robert Smithson, Yucatan Mirror Displacements (1–9),1969]