di Franco Buffoni

 

[Esce domani per Interlinea Invettive e distopie, un saggio di Franco Buffoni di cui presentiamo questo estratto in anteprima e l’indice generale].

 

Su Dante, Cecco, Marsilio. E Lorenzo

 

Se, come scrive Contini, la poesia italiana sarebbe perfettamente riconoscibile senza Dante, ma non senza Petrarca, configurando nel secondo il vero motore di una secolare tradizione, possiamo affermare che la poesia italiana nasce nella giurisprudenza. Petrarca stesso, infatti, ci ricorda i suoi studi giuridici nella Canzone 360 intitolata Quel’antiquo mio dolce empio signore: “Questi in sua prima età fu dato a l’arte / Da vender parolette, anzi menzogne…”. La stessa canzone narra di un processo fittizio intentato ad Amore dinanzi al Tribunale della Ragione.

 

Il Tribunale della Ragione è anche quello al quale Francesco Stabili (1269-1327), detto Cecco d’Ascoli, avrebbe voluto chiamare il suo contemporaneo Dante. Va ricordato che Cecco d’Ascoli, dopo essere stato sospeso dall’insegnamento a Bologna nel 1324, venne arso vivo insieme alle sue opere nel 1327 a Firenze, per ordine di un inquisitore francescano, padre Accursio Bonfantini. Cecco aveva commentato il Tractatus in sphaeram del Sacrobosco e soprattutto, nell’Acerba, poema in terzine, aveva manifestato la sua fiducia nella ragionevolezza: “Non pietate ma raxone”. Egli credeva nel pacato ragionare, nella libertà, nella giustizia, e aborriva le ‘ciance’ da qualunque pulpito provenissero: “Le fabule me son sempre inimiche”. E ancora oggi è praticamente censurato da gran parte dell’accademia italiana perché contro Dante osò affermare: “Contr’a fortuna ogni uomo può valere / seguendo la ragion nel suo vedere”.

 

In sostanza le invettive di Cecco d’Ascoli contro Dante derivavano dal convincimento che Dante fosse strumentale alla messa in soggezione degli italiani alle ciance romane. E tra queste ciance c’era per esempio l’invenzione del Purgatorio. Certamente la più geniale e luciferina codificazione giuridica del XII secolo a cui Dante servì da impareggiabile megafono, contribuendo a incrementare a dismisura nei secoli successivi la vendita delle indulgenze… In sintesi potremmo parlare della “ragione giudiziaria” di Cecco d’Ascoli nell’Acerba contrapposta alla pietas di Dante nella Commedia.

 

Premesso che ritengo grandiosa la poesia dantesca e che sono felice dell’attenzione che in occasione del centenario l’accademia e vasti strati di lettori le hanno riservato, mi permetto di esprimere il mio sostanziale pollice verso sull’uso che la scuola e la società italiana hanno fatto della Commedia dantesca nell’Otto-Novecento: un uso fortemente ideologico, che trova un degno contraltare nell’imposizione di I promessi sposi nel biennio di tutte le scuole superiori.

In estrema sintesi credo di poter osservare che un popolo ‘tenuto assieme’ da Dante e da Manzoni ‘usati’ in modo tanto ideologico non può che fuoruscire con Padre Pio nel portafoglio e il gratta e vinci in mano. Forse perché ho ben presente come fuoriesce un popolo che al posto di Dante ha Shakespeare e al posto di Manzoni Walter Scott.

 

Fu dunque un isolato nel primo Trecento Cecco d’Ascoli quando pose la sua Acerba come un’anti-Commedia, in quanto progetto di poesia ‘scientifica’, a differenza della ‘favoleggiante’ opera dantesca? Parrebbe di sì, a giudicare dalle nostre storie letterarie, che a Cecco dedicano quando va bene solo qualche vago accenno.

Eppure ci fu almeno un altro grandioso contemporaneo di Dante che avrebbe avuto e tuttora avrebbe molto da insegnare agli italiani quanto a laicità e a dignità intellettuale. Mi riferisco a Marsilio da Padova (1275-1342), che dovremmo onorare dedicandogli vie, piazze e università. Invece egli è molto, molto piú conosciuto e studiato in Inghilterra. In Italia è addirittura misconosciuto, al punto che Aldo Tagliaferri nel suo volume La filosofia inglese, apparso per Nuova Accademia nella collana “Il pensiero universale”, lo confonde con Marsilio Ficino.

 

Cito solo un passo dal Primo Discorso del suo Defensor Pacis (capitolo quinto, paragrafo undecimo), in cui viene considerata l’importanza della ‘invenzione’ delle religioni:  “Sebbene alcuni filosofi che stabilirono tali leggi o religioni” – afferma Marsilio nel 1324 – “non credessero a quella vita futura che chiamavano eterna e alla resurrezione umana, nondimeno finsero e persuasero gli altri che questa vita esistesse, e che in essa i piaceri e le pene fossero proporzionali alla qualità degli atti compiuti in questa vita mortale”.

Quindi Marsilio, contemporaneo di Dante, all’inizio del Trecento già insegnava che la codificazione delle religioni rivelate, con i loro dogmi, era strumentale alla necessità di controllare, attraverso le coscienze, i comportamenti da mettere in atto nella vita civile, tenendo menti e coscienze in soggezione.

 

Ricordo anche la mia esaltazione di studente adolescente (senza particolari maestri a promuoverla) per il De falso credita et ementita Constantini donatione. Ancora oggi per me la lettura della declamatio di Lorenzo Valla è fonte di un’emozione sconvolgente: di quell’emozione è impastata la mia crescita, la mia ribellione al falso, e per contro l’amore per la ragionevolezza e dunque per la filologia. Quel documento – che aprí la via al ritorno della prevalenza della ragione umana come unico parametro del vero, come era stato in epoca classica precristiana – ancora oggi mi consola di tante umiliazioni, ancora mi permette di sperare. Perché solo studiando e divulgando come tali le falsificazioni culturali del passato si possono riconoscere e contrastare ragionevolmente quelle del presente!

Ma meglio di me lo ha scritto Borges che si formò molto su Hume: “Due greci stanno conversando; forse Socrate e Parmenide. Conviene che non si sappiano mai i loro nomi; la storia sarà cosí più misteriosa e più tranquilla. Il tema del dialogo è astratto. Talvolta alludono a miti nei quali entrambi non credono. Non polemizzano. E non vogliono né persuadere né essere persuasi, non pensano né a vincere né a perdere. Liberi dal mito e dalla metafora, pensano o cercano di pensare. Non sapremo mai i loro nomi. Questa conversazione tra due sconosciuti in un luogo della Grecia è il fatto capitale della Storia. Essi hanno dimenticato la preghiera e la magia”. (In Atlante, Il principio).

 

 

Indice

 

Su Dante, Cecco, Marsilio. E Lorenzo

L’Invettiva da Giovan Battista Marino a Piero Gobetti

Distopie: da Moro Bacone Campanella a Huxley e Orwell

L’abate Parini e contino Giacomo

Ada Augusta Lovelace

George Eliot tra Jane e Virginia

L’invettiva di Ulrichs

Elizabeth Barrett Browning

Asolando con Robert Browning

Da Nora a Alison: Ibsen e Osborne a confronto

Sul Maurice di Forster

Lucio Piccolo tra Yeats e Montale

Auden comunista

The Ascent of F6

L’obiettivo aperto di Christopher Isherwood

Sereni e mio padre

Luciano Bianciardi

Le storie in commissariato di Céline

Pound e Saturno

Wodehouse da Queen Victoria a Richard Nixon

Maugham sul filo del rasoio

Gli scoop di Evelyn Waugh

Fernanda Pivano e i suoi poeti

L’arte di perdere di Elizabeth Bishop

Piero Chiara: per una questione di poetica

Distopie on the road

Pasolini e De Mauro: il senso profondo

Pasolini e Byron: questioni di poetica

Chi non è fuggito

Ritraducendo Seamus Heaney: teoria e pratica

Bernardo Carvalho al Babel Festival

L’invettiva di Alfredo Ormando

Ferrara e i suoi poeti

Semm a tèra, Sapìn

Proposte stregate: Inglese Calandrone Villalta Bazzi Caminito Janeczek

Perenne invettiva mia contro la fretta e i sampietrini

L’uomo è veramente tale solo quando gioca

Luca Ciammarughi Non tocchiamo questo tasto!

 

[Immagine: Monumento a Cecco d’Ascoli, Ascoli Piceno].

2 thoughts on “Invettive e distopie

  1. Il gratta e e vinci ce l’hanno anche nel Regno Unito. Per non parlare del Sun, giornale più venduto da quelle parti. Sarà colpa di Ficino e Shakespeare ?

  2. Concordo invece che andrebbe introdotto Cecco d’Ascoli nelle scuole, da leggere in parallelo o subito dopo Dante

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