di Vanni Santoni

 

[Esce domani, per Laterza, Dilaga ovunque, nuovo romanzo di Vanni Santoni. Ne pubblichiamo un estratto].

 

Che tempi… Internet non esisteva ancora, e la maggior gloria che potevi avere era fare una foto con la macchina a rullino, portarla a sviluppare, mandarla per posta a una fanzine e aspettare quattro mesi… Oppure fare un treno sulla linea lenta Bologna-Prato, quella che passa per Porretta Terme, che non veniva pulita quasi mai e così lo vedevi andare tra l’Emilia e la Toscana mille volte… A quei tempi ancora non c’erano le pellicolature integrali a rivestire i treni (arma finale anti-graffiti: stacchi la pellicola e non devi pulire il treno), che erano solo il prodromo del peggio, perché un altro decennio più tardi avrebbero pure cominciato a stamparci sopra le pubblicità (e allora lì, chissà come mai, i benpensanti tutti muti)… Anche se in Italia eravate, di fatto, indietro di vent’anni rispetto alle origini del fenomeno, per voi e per le città in cui vi muovevate era tutto nuovissimo, ogni tanto arrivava qualcuno tornato da un Interrail e mostrava le foto di cosa c’era sui muri di Londra, Parigi o Amsterdam, e nonostante fosse una comunicazione a così bassa intensità, in qualche modo passava, e ne potevi vedere gli sviluppi tecnici davanti a te, anche a livello locale… Dove li avevate visti, del resto, i primi graffiti? In TV, probabilmente: in qualche film o videoclip americano, o ancora nei videogiochi “beat ’em up”, dove non c’era sfondo USA senza qualche muro o treno graffitato.

 

 

Tra l’altro da voi latitava anche un collegamento forte con la pur nascente sottocultura hip hop: tanti dei primi graffitari italiani andavano in skate e ascoltavano punk hardcore o thrash metal, c’era tutta un’altra ibridazione di culture di strada rispetto all’America… Per dire, giusto quando andaste a Milano in visita ad altre crew con cui avevate stabilito un contatto (sebbene vi trattassero un po’ da bambocci) vedeste dei breaker, ma di quella gita ti colpirono tutt’altre cose, la maestria della crew TDK vista nella loro hall of fame, il wild style dei CKC-PWD (lì capiste quanto eravate indietro!) e la superiorità degli stessi ragazzi che vi ospitarono: andaste a beccarli alla loro base, che era in Vetra, una piazza in cui si incrociavano situazioni e persone di ogni genere, e senza troppi convenevoli vi portarono dritti a dipingere. E treni, non muretti. Ricordi il vostro stupore a vedere che sapevano disinnescare gli allarmi dei depositi e conoscevano gli accessi alle banchine della metro, che, vi spiegarono, erano un po’ il segreto dei segreti, dato che dipingere lì significava contare i minuti prima che arrivasse la sicurezza, ma dall’altro lato i pezzi non venivano buffati, ovvero coperti subito, e potevano resistere anche mesi o anni… In quei tre giorni imparasti più che in vari mesi a Bologna, tanto più che quelli si erano inventati trucchi assurdi – avevano addirittura realizzato delle scalette di corda per scendere nei tombini – oppure semplicissimi (ma non ci avevate mai pensato!) come mettersi uno sulle spalle dell’altro per taggare più in alto… Avevano pure le bombole straniere, uno di loro in pratica le spacciava, e ne compraste pure un paio; inoltre sempre lo stesso tipo vi passò l’idea di fregare le tolle d’intonaco dai cantieri e poi usarle per fare i blockbuster, le scritte quadratone iper-leggibili; notasti anche che lì a Milano molti writer arrivavano da famiglie non proprio benestanti, lì era davvero un movimento popolare (e forse anche altrove a Bologna, ma il vostro gruppo era in fondo più piccolo-borghese e studentesco), e anche per questo se ne inventavano “di ogni” per dipingere gratis…

 

Pure, fu lì che decidesti di restare sugli sticker, to stick with stickers, come diceva Trane, un ragazzo inglese che studiava a Bologna e frequentava il muretto, con cui te la facesti per un po’: la superiorità di quei milanesi, sia in termini tecnici che di sfacciataggine e capacità di muoversi nel campo minato della metropoli, ti aveva impressionata addirittura troppo, tant’è che quando vi portarono nel deposito a fare dei vagoni ti vergognasti come una ladra del pezzo marcio che lasciasti, anche se non ti dissero nulla, forse perché eri ospite, forse perché eri l’unica ragazza, e in fondo volevano fare i fighi (non che ne avessero bisogno: lo dicevano già i muri e i treni della città); certo è che dopo quella puntata a Milano dipingesti meno, e quando dal vostro solito muretto finiste ai muri dei centri sociali dell’epoca, come il Livello57

Il primo camper del Lab57 del Livello57 dipinto da BLU

poco lontano, ti presero altri interessi, serigrafia, femminismi, dub culture, fotografia (tutto pur di non studiare!) e lasciasti le bombole a prendere la polvere in una scatola di cartone sotto al tavolo della tua stanza, ma ciclicamente ti è sempre tornato il ricordo della vitalità culturale, non importa se spartana e naïf, di quei muretti, il clima di ricerca (tutte parole che puoi affibbiare solo adesso, ai tempi stavate lì a ghignare e sfumazzare, o partivate in massa per fottere le bombole in qualche ingrosso: non ti sentivi esattamente un’artista…) che si respirava, l’entusiasmo quando qualcuno portava il racconto di un nuovo trucchetto tecnico (c’era chi saccheggiava i tappini di schiume da barba, lacche per capelli o amido da stiro dai supermarket per vedere “come sparavano” una volta applicati alle bombole; un’altra volta qualcuno portò un rullo a cui aveva applicato un bastone telescopico e andaste subito a fare un paio di cavalcavia inaccessibili…), la scoperta di un accesso a un deposito, o anche solo di un binario morto dove lasciavano un paio di treni, la foto di un pezzo strano scattata chissà dove o gli sticker scambiati per posta con gente di altri paesi europei…
E di certo, anche nel vostro piccolo, quando qualcuno azzeccava una lettera figa, allora tutti la volevano fare più figa; quando qualcuno lasciava un throw-up in un posto difficile, volevate subito andare oltre; quando qualcuno faceva un pezzo oggettivamente meglio dei vostri, lo volevate subito raggiungere… Non lo facevi più, ma il ricordo di quel clima ti era sempre rimasto addosso, forse perché per la prima volta ti confrontavi davvero con qualcuno, con qualcosa, e così i tuoi amici, insomma vi misuravate con la realtà e vi dicevate Be’ forse pure io non sono proprio da buttare…

 

Intanto, già allora, cominciavano a delinearsi fazioni, già emergevano i puristi che rifiutavano a priori lo sticker, il poster, lo stencil, e chi invece sperimentava; chi restava sulle lettere e chi andava sul figurativo… E così come è difficile tracciare una linea netta tra arte e vandalismo (è facile per il benpensante approvare il pezzo ben fatto e condannare la tag, ma costui dimentica, o non sa, che i pezzi non sono che versioni in grande, più strutturate e lavorate, delle tag medesime, col throw-up a fare da ponte intermedio tra le due cose, e che senza tag non esisterebbero né i graffiti né la street art che tanto gli piace: niente Geco? Niente mostra di Banksy al Chiostro del Bramante, zia), allo stesso modo il confine tra graffiti e street art (intesa come fenomeno indipendente e non come termine-ombrello) è labile, si può dire che il graffito finisca dove finiscono le scritte e cominciano i disegni, ma la verità è che le due cose si sono sempre contaminate a vicenda – e così, potremmo dire inevitabilmente, appena arrivasti a Bologna, da “appassionata di scritte sui muri” facesti subito balotta con dei graffitari, del resto nella tua città la scena, o almeno quella a cui avevi accesso tu, era ancora troppo in embrione, e infatti la prima volta che avevi visto dal vivo dei graffitari, di affascinante c’era stato abbastanza poco. Eri in prima liceo e nel quartiere, da un po’, erano apparsi alcuni graffiti, pezzi dal tratto ingenuotto ma coerenti con l’estetica statunitense esplosa nel decennio precedente. I più erano elaborazioni della scritta “BORT”; altri, come un “LEGALIZE” nei pressi della tua scuola, riportavano “Bort” come firma. Evidentemente questi graffiti li faceva Bort.
Dopo un po’ apparve anche Bort. Era un tappo levantino vestito da rapper, che avevi già visto in giro perché assieme ad altri due soggetti si aggirava per il quartiere in skate, impresa non scontata in strade a pavé. Pure, invece di ammirare quello che, nella sua ingenuità, era a ogni effetto un pioniere, voi, la gioventù blasé del ginnasio ben frequentato e de sinistra, lo prendevate per il culo. Vi sembrava ridicolo, tanto i media avevano già risemantizzato la figura del rapper, a cui associavate i graffiti, a pura macchietta. Vi trovavate a ignorar tutto della sottocultura originaria, ma a prenderla in giro sulla base della sua semplificazione televisiva: del resto la Uno Rap, con tanto di jingle rappato dagli Articolo 31 e pubblicità con giovini pochissimo rap che si dimenavano attorno a quel catorcio, era stata lanciata già nel 1992.

 

Ma qualcuno lo prendeva sul serio, Bort. Nell’ombra, autore ancora ignoto di un graffito così mal fatto (una scritta “URBAN YUNGLE” in verde non riempito sul muro di cemento del parcheggio della stazione) da non essere neanche identificabile come tale, tramava Leo NRG. 
Un giorno, sullo stesso muro, accanto al primo graffito ne apparve un altro, in quadricromia, con la scritta “Leo NRG” in incerto ma identificabile bubble lettering e, accanto, il disegno di una tomba con la scritta “Bort R.I.P.”. L’inizio di una style war? Non esattamente. Nei giorni successivi Leo NRG, all’anagrafe Leonardo Barbolini, aveva preso a frequentare una di classe tua, e vi trovavate seduti sugli scalini del palazzo antistante la scuola quando spuntò, basso come un bimbo ma molto più scuro e incazzato, Bort. Andò dal Barbolini e gli chiese come si chiamava. Quello si alzò, fece due passi verso di lui, sovrastandolo di quasi mezzo metro, e disse:
– Leo AN-AR-GEE.
Bort gli tirò un papagnone sulla bazza che lo mandò lungo steso sul marciapiede.

 

* * *

 

… Tu, comunque, non avevi mai smesso di fare i tuoi adesivini e attaccarli in giro. Ti eri inventata pure dei personaggi tutti tuoi, ma a quei tempi “sticker art” non esisteva neanche come termine, di certo nessuno sospettava un potenziale collegamento col writing, e quindi eri, o pensavi di essere, soltanto una che appiccicava adesivi in giro come una maniaca. Fu nella stessa totale mancanza di consapevolezza che ti infatuasti dello stencil. Qualcuno (qualcuna?) aveva tappezzato la città con questo:

 

Eri troppo piccola e ignorante per sapere che riprendeva una grafica della Sérigraphie Populaire del ’68 parigino, ma di certo quella ragazza che lanciava un sanpietrino ti esaltò. E ti esaltava, in particolare, la sua evidente riproducibilità: del resto, ora in nero, ora in rosso, a volte in viola (qualche amico tifoso aveva portato le sue bombolette?) era ovunque. Ne volesti fare uno anche tu. Avresti voluto fare Ripley di Alien, anzi di Aliens: presente la scena in cui regge la bimba con un braccio e il mitragliatore con l’altro? Ora, a parte che non ti rendevi conto della difficoltà di cavar fuori uno stencil da un’immagine fotografica, neanche avevi l’immagine (e, no, pure allora Internet non c’era). Ripiegasti sul simbolo di Thulsa Doom da Conan il barbaro: mettesti in pausa il VHS sulla sigla finale, lo ricalcasti dallo schermo e così, trasferendo poi il disegno dalla velina al cartoncino bristol creasti il tuo primo stencil…

[Foto di copertina: un treno di Dondi White. Per le ispirazioni fornite a questo passaggio del libro, l’autore ringrazia Robin (Lordz of Vetra)]

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