di Luca Illetterati

 

1.

 

Il concetto di sopravvivenza si dice in diversi modi e si espone dunque giocoforza, come tutte le parole che si dicono in molti modi, non solo all’ambiguità, ma anche all’equivoco, assumendo di volta in volta dimensioni di senso difficilmente unificabili all’interno di un quadro comune.

Nella teoria evolutiva, ad esempio, la sopravvivenza è connessa essenzialmente all’adattamento. Nell’Origine delle specie Darwin scrive:

 

La conservazione delle differenze e variazioni individuali favorevoli e la distruzione di quelle nocive sono state da me chiamate “selezione naturale” o “sopravvivenza del più adatto”.

 

Nell’orizzonte della teoria evolutiva la sopravvivenza è cioè connessa a quelle forme di vita che sono in possesso delle caratteristiche adatte per vivere in un certo ambiente. D’altro canto, all’interno del discorso darwiniano, la selezione naturale rinvia anche alla nozione di «lotta per la sopravvivenza». Poiché infatti le forme di vita più adatte tendono a riprodursi in una quantità superiore rispetto alla quantità di risorse necessarie che l’ambiente può mettere a disposizione, si produce una lotta e una competizione che ha per oggetto la sopravvivenza di quelle forme, il restare in vita di esse.

 

Del tutto estraneo alla dimensione naturalistica cui si riferisce la teoria darwiniana e piuttosto connesso a una dimensione messianica è invece il concetto di sopravvivenza di cui tratta Walter Benjamin. Nel saggio dedicato a Il compito del traduttore egli assume infatti la nozione di sopravvivenza come elemento specifico di quelle opere d’arte che sono in grado di porsi al di là del loro tempo e che per questo rivelano, nella loro specifica sopravvivenza, la necessità di una loro traduzione, ovvero del loro essere trapiantate in una lingua diversa rispetto a quella che le ha prodotte. La sopravvivenza delle opere nelle traduzioni è, verrebbe da dire, ciò che consente ad esse di vivere, appunto, oltre e al di là rispetto alla loro mera vita.  Questa sopravvivenza – scrive Benjamin – «quando viene alla luce, prende il nome di gloria». La sopravvivenza è in questo senso, non un permanere in vita, quanto piuttosto una vita «peculiare ed elevata» che è al di là della vita stessa, che si pone in una dimensione di ulteriorità rispetto ad essa.

 

L’ambiguità del concetto di sopravvivenza trova una sua peculiare esplicitazione nell’opera di Primo Levi.

Levi, che era un darwiniano convinto, connette la sopravvivenza dentro al Lager anche a una forma di selezione naturale, e conseguentemente a una sorta di privilegio (e conseguentemente di colpa) che consente a qualcuno di sopravvivere e ad altri no. In un certo modo il riferimento al meccanismo selettivo sempre avere due funzioni, in Levi: da un lato quello di evidenziare la riduzione della vita dei prigionieri a pura vita biologica, a dimensione meramente naturale, retta dai bisogni primari e in grado di obliare la forma di vita specificamente umana, dall’altro lato a sganciare l’idea di sopravvivenza da quella di merito o di conquista, mostrando come essa fosse la conseguenza, non di azioni valorose o encomiabili, ma di fattori perlopiù casuali, stocastici, indipendenti dall’azione di coloro che si trovavano ad essere salvati o da coloro che si trovavano nella condizione dei condannati.

 

Nella famosa intervista che Philip Roth fece a Levi, riferendosi all’ultimo capitolo di Se questo è un uomo lo scrittore americano a un certo punto gli dice:

 

Ciò che mi ha colpito in quel capitolo, come in tutto il libro, è quanto il pensare abbia contribuito a farti sopravvivere, il pensare di una mente pratica, umana, scientifica. La tua non mi pare una sopravvivenza determinata da una animalesca resistenza biologica o da una straordinaria fortuna, ma radicata semmai nel tuo mestiere, nel tuo lavoro, nella tua condizione professionale.

 

Secondo Roth, sembra di poter dire, in quella sopravvivenza, nella sopravvivenza di Levi, c’è qualcosa che va oltre la dimensione naturale. C’è una condizione che rende possibile la sopravvivenza, c’è una sorta di struttura culturale – il pensare di una mente pratica, umana, scientifica – che ha reso possibile la sopravvivenza.  Dal canto suo Levi, rispondendo alla sollecitazione di Roth, per quanto non rifiuti l’idea che il pensare e anche un certo tipo di pensare abbia avuto un qualche ruolo nella sua sopravvivenza, insiste nel sottolineare la dimensione di casualità che è ad essa connessa:

 

Quanto al perché della sopravvivenza, è una questione che mi sono posto più volte, e che molti mi hanno posto. Insisto: regole generali non ce n’erano, salvo quelle fondamentali di entrare in Lager in buona salute e di capire il tedesco. A parte questo, ho visto sopravvivere persone astute e stupide, coraggiose e vili, «pensatori» e folli.

 

Nel contesto abominevole del Lager la regola è il caso. Che è in fondo la più terribile delle regole, perché in essa è di fatto impossibile rintracciare un senso che non siano la fortuna, le circostanze, la più assoluta accidentalità.

 

2.

 

Intorno a una peculiare declinazione del concetto di sopravvivenza, non riducibile, pur senza esservi estraneo, né alla dimensione dell’adattamento tipica della teoria darwiniana, né a quella dell’ulteriorità che viene sviluppata in Benjamin, né alla terribile ambiguità che la connette a una colpevole casualità in Prima Levi, ruota l’ultimo bellissimo romanzo di Giorgio Falco, Il paradosso della sopravvivenza (Einaudi, 2023). Un romanzo che è anche, dentro la sua tessitura narrativa, una sorta di fenomenologia della sopravvivenza, o, per meglio dire, di una nuova forma di sopravvivenza.

 

Il romanzo ha come protagonista Fede, ovvero Federico Furlan, del quale, attraverso una tecnica narrativa straordinariamente raffinata, che alterna avvicinamenti puntuali e campi lunghi dilatati a scandire tanto la cronologia esistenziale del personaggio quanto le diverse forme di temporalità dentro cui la narrazione agisce,  seguiamo la parabola esistenziale dalla sua nascita e dai suoi primi giorni di vita fino alla sua maturità.

 

La caratteristica fondamentale di Fede è che è un obeso. La sua identità non ha connotazioni specifiche se non quella di essere, appunto, “il ciccione”. Fede non è nient’altro, per il mondo, che “il ciccione”. Non c’è null’altro che lo caratterizza, al di là di questa presenza ingombrante e assorbente la totalità di tutto ciò che egli è che il suo corpo fuori misura. Fede è talmente grasso che non sa nemmeno quanto pesa: la bilancia del medico di Pratonovo, paese di montagna della Val Fiori dove Fede vive, ha una portata massima di 150 chilogrammi e ogni volta che Fede vi si pesa giunge al limite estremo, oltre il quale la stanghetta non può più andare.

 

Quel suo corpo esageratamente debordante e quella sua incontrollata voracità rende Fede l’emblema del non adatto.  Questo non implica che egli sia perciò estraneo alla vita che lo circonda: a quella della famiglia, del paese, dei coetanei. La vive, semmai, da una condizione liminare, da un punto dove il dentro e il fuori della vita si toccano senza porre colui che abita quella condizione né dentro né fuori rispetto ad essa. Esemplare da questo punto di vista il suo ruolo di portiere nella squadra locale di hockey. Il portiere, infatti, non è, in un certo senso, né del tutto dentro alle dinamiche del gioco, né d’altro canto fuori da esso: vi partecipa senza esserne parte, rimanendo fermo, attendendo e cercando di fare muro con il corpo all’irruzione dell’avversario. Peraltro, in quel ruolo Fede si ritrova non per un qualche merito o una qualche specifica abilità, ma solo in quanto è il ciccione, in quanto cioè è un corpo che occupa più spazio di quello di tutti gli altri e che per questo può coprire più luce di quella che possono coprire tutti gli altri.

 

Questa posizione liminare, per cui egli è in certo modo sempre altrove rispetto al centro della scena, senza al contempo essere mai del tutto fuori da essa, è ciò che determina il tipo peculiare di sopravvivenza che Fede letteralmente incarna. Fede è inadatto alla vita, e lo è soprattutto rispetto alla vita contemporanea, nella quale la fitness da dimensione relativa alla dimensione naturale di un organismo vivente è diventata un imperativo morale, un ethos sociale che innerva tutte le politiche dell’esistenza. E tuttavia Fede sopravvive. E soprattutto Fede sopravvive – questo il punto – non malgrado sia inadatto alla vita, ma proprio in virtù del suo essere inadatto, proprio in quanto mai assorbito dal mondo, sempre decentrato rispetto alle dinamiche della vita dentro cui il mondo consuma se stesso e le vite che lo abitano.

 

Il paradosso della sopravvivenza – ovvero la tutta peculiare forma di sopravvivenza che è qui a tema – è enunciato dal medico curante di Fede:

 

secondo questa teoria, ciò che ci uccide ci protegge, almeno in una prima fase, per eternizzare non certo la vita, quanto la sopravvivenza, come se sopravvivenza e vita fossero scisse.

 

Il paradosso dice la specifica declinazione della sopravvivenza che Falco mette a tema e che la storia di Fede istanzia: non una vita che ha vinto una lotta dentro la quale poteva soccombere; non una vita ulteriore, che sarebbe comunque una forma di vittoria sulla contingenza del tempo; nemmeno solo l’esito fortunoso di circostanze che ne hanno impedito l’annichilimento. Fede sopravvive perché vive senza vivere, perché la modalità di vivere la vita che è diventata il suo habitus, è quella di vivere la vita come se gli fosse estranea.

 

Quello di Fede, però, non è propriamente un rifiuto della vita: è semmai – ed è questa una ulteriore connotazione della sopravvivenza di cui qui si parla – una sorta di interregno tra la vita e la morte, una sorta di terra di nessuno tra la vita e la morte.

 

3.

 

Questa condizione in cui la vita è sempre estranea a se stessa e si muove in uno spazio di prossimità con la sua negazione è quella che accomuna Fede agli altri sopravvissuti che si incontrano nel romanzo.

 

In primis Giulia, la ragazza che rappresenta in un certo senso l’opposto di Fede e dalla quale Fede è attratto. Giulia, infatti, a differenza di Fede, è ricca, magra, quasi anoressica. Come Fede, però, anche Giulia, in effetti, non vive. A differenza di Fede, però, Giulia rappresenta in un certo modo la declinazione potente della sopravvivenza. Quello di Giulia è infatti un porsi ai margini della vita che è retto dalla volontà di soggiogarla, di padroneggiarla, di poterla utilizzare nello stesso modo in cui si utilizza uno strumento che è a disposizione.

 

C’è poi la sopravvivenza che caratterizza l’unico superstite al terribile incidente alla funivia di Pratonovo, quando la cabina si è staccata dalle funi ed è crollata uccidendo tutti passeggeri tranne uno. Una sopravvivenza che è banalmente l’esito di un caso, di una circostanza fortuita che il sopravvissuto – colui che non è morto e che tuttavia al contempo non è più vivo – dovrà sopportare da una parte come una sorta di colpa e dall’altra, e più radicalmente, come l’annientamento di qualsiasi possibilità di senso.

Dimensione, questa che appartiene anche a Sergio Verner, il macchinista della funivia il giorno del terrificante incidente. Sergio aveva agito come gli avevano detto di agire e pur essendo dunque solo l’ultimo dente di un ingranaggio regolato altrove, è l’unico a pagare. Una volta uscito dal carcere Verner sopravvive grazie agli aiuti della parrocchia dove va a fare le pulizie in attesa solo che il giorno finisca e ne inizi poi un altro identico al precedente.

 

Si tratta di forme di sopravvivenza che non indicano la vittoria della vita sulla morte, quanto piuttosto una peculiare fusione della morte con la vita, una dimensione interstiziale dove la vita è già morte e la morte è ancora vita.

 

4.

 

Una fenomenologia della sopravvivenza, si diceva. Ma per suo tramite, quella di Falco diventa una vera e propria fenomenologia del presente. La visione del tempo che emerge da quel punto liminare che è connesso a queste forme di sopravvivenza consente infatti di afferrarne le peculiarità. Il rapporto con il reale proprio del presente che leggiamo attraverso questa dimensione di sopravvivenza è un rapporto che assomiglia sempre più al lavoro che Fede si trova a svolgere a Milano, quando deve taggare in modo il più possibile esplicativo e immediato le categorie dei video porno senza mai scendere sotto la soglia dei cinquanta video all’ora; dove il contenitore vince sempre sul contenuto; dove qualsiasi anche banale conato di ribellione è subito assorbito e normalizzato.

 

Fede «è fuori del tempo», dice il narratore nelle pagine finali del romanzo. E per molti versi è proprio questo suo essere fuori del tempo la condizione trascendentale che consente a Fede di vedere e sentire quel tempo dal quale è appunto escluso. Ed è dunque ciò che consente a noi di vedere quella dimensione del tempo che è il nostro presente e che, proprio perché vi siamo immersi, è la più difficile da vedere.

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