di Daniele Balicco
[Dal 29 luglio all’inizio di settembre LPLC sospende la dua programmazione ordinaria. Per non lasciare soli i nostri lettori, abbiamo deciso di riproporre alcuni testi e interventi apparsi nel 2012, quando i visitatori del nostro sito erano circa un quinto o un sesto di quelli che abbiamo adesso. È probabile che molti dei nostri lettori attuali non conoscano questi post. Questo intervento è uscito il 30 aprile 2012].
I. Preistoria parigina
Nietzsche è stato, insieme a pochi altri pensatori classici, il punto di riferimento filosofico più importante per la cultura teorica del secondo Novecento occidentale. Ma se è vero che i nomi dei filosofi sono poco più che metonimie, dove momentaneamente si cristallizzano e transitano flussi collettivi di pensiero[1], molto probabilmente non lo è stato per caso. La tradizione interpretativa francese che lo ha progressivamente trasformato in un polo magnetico generatore di vita teorica, di modelli esistenziali, di pratiche estetiche e di radicalismo politico, ha segnato a fondo gli ultimi tre decenni del Novecento e l’atmosfera teorica che ancora respiriamo. Il corpus di queste letture ha costruito un’egemonia. In questo scritto provo a ricostruirne le mosse teoriche fondamentali e la sua successiva metamorfosi statunitense. Anticipando le conclusioni, leggerò la forza di quest’assimilazione profonda e duratura seguendo un antico suggerimento marxiano. Due sono le stazioni principali di questa breve ricognizione. Anzitutto la Francia del secondo dopoguerra, quindi il milieu teorico, artistico e finanziario newyorkese. In mezzo ci sarebbe l’Italia del decennio ‘67/77. Sarà per un’altra volta. Per ora concentriamoci solo sull’inizio e sulla fine.
Partiamo dunque dalla Francia del secondo dopoguerra. Il primo passaggio da mettere a fuoco è la metamorfosi del surrealismo, da corrente d’avanguardia a dominante culturale e alfabeto della comunicazione di massa. Lo snodo decisivo è il successo commerciale ottenuto, nel secondo dopoguerra, da alcuni autori vicini al gruppo di Breton, anche se magari a lui ostili, come Antonin Artaud o Georges Bataille; o solo più genericamente associabili, come nel caso di Pierre Klossowski. Questi autori sono accomunati da una ricerca teorica attenta al rimosso oscuro e maledetto della razionalità occidentale; di qui la vicinanza al surrealismo. Se ne allontanano però per il rifiuto che oppongono all’alleanza faticosamente perseguita da Breton, Éluard e sodali con il comunismo organizzato. Comune, quanto meno a Bataille e Klossowski, è la passione per le opere del marchese De Sade; ma soprattutto, per Nietzsche. Insieme a Camus e a Maurice Blanchot, infatti, questi due autori in particolare possono essere considerati come i primi interpreti di una lettura innovativa del filosofo tedesco, che farà scuola nella Francia del secondo dopoguerra; e non solo. Lo scopo di queste letture è quello di salvare il pensiero di Nietzsche tanto dal presunto fraintendimento operato dall’assimilazione nazista, soprattutto attraverso l’interpretazione di Alfred Baeumler[2], quanto dalla feroce scomunica comunista eseguita per mano di Lukács nella Distruzione della ragione[3].
Da pensatore felicemente reazionario, con una spiccata propensione per la gerarchia e il dominio delle élite e con un conseguente – e mai celato – disprezzo per la vita delle masse[4], Nietzsche progressivamente diventa, nelle mani di questi autori, un critico radicale della metafisica occidentale e del conformismo borghese; ma, soprattutto, il filosofo che ha saputo affermare la vita contro il potere del risentimento e del senso di colpa cristiano, quindi il cantore di una nuova forma di individualità espressiva, anticonformista, nomade e gioiosamente creatrice. Qui non interessa valutare la plausibilità o meno di questa lettura, quanto il suo indubitabile e duraturo successo. A partire dalla Francia dell’inizio degli anni ’60 – anche se altrettanto importanti, per quella che verrà chiamata Nietzsche Reinassance, saranno il fortunato saggio di Heidegger del 1961[5] e la pubblicazione, dal 1964 in poi, delle opere complete, in più lingue straniere, nell’edizione Colli/Montanari – quest’immagine di Nietzsche, di derivazione surrealista, diventa canonica, quanto a meno a partire dal saggio di Gilles Deleuze, Nietzsche e la filosofia[6].
Se questo lavoro, come sostiene Maurizio Ferraris, può essere considerato «l’espressione più ricca dell’atteggiamento esegetico inaugurato da Bataille e Klossowski»[7], sicuramente diventerà, negli anni, il punto di riferimento teorico di tutte le successive interpretazioni di Nietzsche di aerea post-strutturalista, Foucault, Derrida, Lyotard, Baudrillard compresi[8]. Lo può confermare anche un giudizio di Gianni Vattimo, che di questo revival nietzschiano è uno dei protagonisti europei. Per quanto segua nella sua lettura di Nietzsche soprattutto la lezione di Heidegger, Vattimo non può non riconoscere alla tradizione esegetica surrealista, che questo saggio di Deleuze struttura filosoficamente, il merito di aver impostato la prima lettura, per lui corretta, del nichilismo nietzschiano:
la sola lettura «positiva» del messaggio nietzschiano e della sua portata oltrepassante è stata data proprio dall’avanguardia letteraria, in particolare dai surrealisti. Uno dei libri che possono essere assunti come guida per un’interpretazione positiva per il concetto di superuomo è quel terzo volume della Somme athéologie di George Bataille, che porta come sottotitolo Sur Nietzsche, volonté de chance, e in cui confluiscono i motivi più validi dell’interpretazione surrealista della filosofia nietzschiana[9].
La lettura surrealista, attraverso il lavoro di Deleuze, trasforma Nietzsche in una specie di modello regolativo di rifiuto del presente. Due sono i comandi di base che prescrive. Il primo impone il superamento dell’idea di soggetto: quello che per Nietzsche è la morte di Dio diventa, in questo modello surrealista/deleuziano, la morte dell’idea di uomo, la fine dell’antropologia. In questa lettura diventare Übermensch significa anzitutto iniziare a pensarsi non come soggetti o persone, ma come «entità molteplici in perpetua metamorfosi, come modi d’essere piuttosto che come sostanze»[10]. Di qui l’interesse per tutte le forme di vita estreme e non conformi, così come per l’esperienze della disgregazione di Sé che pratiche borderline, schizofrenia, droga o alcolismo garantiscono quasi come apprendistato di un’auspicabile dissoluzione del soggetto.
Il secondo comando invece prescrive, contro la tradizione politica del pensiero dialettico, la genealogia come etica dell’affermazione. Detta con le parole di Deleuze questa seconda indicazione di metodo suona precisamente così:
il «sì» di Nietzsche si contrappone al «no» dialettico, l’affermazione si contrappone alla negazione dialettica, la differenza alla contraddizione dialettica, la gioia e il godimento al lavoro dialettico, la leggerezza e la danza alla pesantezza dialettica, la bella irresponsabilità alle responsabilità dialettiche.[11]
Se elenchiamo la serie dei termini positivi dell’opposizione abbiamo, in ordine: affermazione, differenza, gioia, godimento, leggerezza, danza e irresponsabilità. Quasi un compendio delle tematiche, dei gesti, degli stili, o, forse meglio, della generica dominante culturale di quello che sarà, qualche anno dopo, il postmodernismo. All’altezza di questo saggio, però, sono solo ancora qualità esistenziali auspicabili, nonché ipotetiche proposte di metodo per un lavoro intellettuale radicale, orientato verso la trasformazione del presente. Certo è che dalla combinazione di questi due comandi (dissoluzione del soggetto e logica affermativa) – che come si è visto non sono solo teorici, ma anche esistenziali e politici – è come se la tradizione surrealista iniziasse ad invadere il campo della riflessione critica e dell’azione politica radicale.
Perché al di là del fascino teorico, come della più o meno discutibile correttezza filologica[12] di quest’interpretazione di Deleuze, è difficile negare l’impatto che quest’immagine di Nietzsche, pensatore maudit e gioiosamente ribelle, avrà su un intero decennio (67/77) di storia culturale e politica europea, preparando temi, analisi e soprattutto modi di vivere il presente politico che il successivo trentennio stabilizzerà invece come deposito estetico e alfabeto esistenziale della vita quotidiana. Va aggiunto che questa stessa immagine, importata negli Stati Uniti come stella polare di un’intera costellazione di pensiero – in realtà «creata ex nihilo dall’università americana»[13] e lì rinominata French Theory[14] – si trasformerà, nel perimetro circoscritto dei campus universitari, in una vera e propria pratica sovversiva tutta teorica all’interno dei discorsi e delle discipline dell’istituzione accademica. Se osservata dall’Europa, quest’assimilazione può anche apparire come un paradossale tentativo «di tenere in caldo a livello di discorso una cultura politica che è stata spazzata via dalle strade»[15]. In realtà, però, la questione è più complicata, e forse anche più interessante. Perché un’analisi ravvicinata degli spazi della ricezione di questo modello culturale negli Stati Uniti potrebbe sciogliere il fraintendimento gauchiste preteso dalla derivazione interpretativa europea. Vediamo meglio.
II. Theory, arte contemporanea e nichilismo finanziario
Nella storia dell’importazione americana di questa tradizione teorica, non può essere trascurato l’impatto importante che il «il surrealismo nietzscheano» ha avuto, oltre che sull’università, sui circuiti sperimentali della creatività urbana (arte, architettura, moda e design), in particolare newyorkese. Mediatori di questo modello, più che Deleuze e Foucault, sono stati Derrida e Baudrillard.
Si pensi anche solo all’importanza storica della mostra Deconstructivist Architecture[16], organizzata, nel 1988, al MoMa di New York da Philip Johnson e Mark Wigley. In quell’occasione, sette fra i più famosi architetti del mondo (Frank Gehry, Zaha Hadid, Peter Eisenman, Daniel Libeskind, Bernard Tschumi, Rem Koolhaas, Coop Himmelblau) esposero al pubblico i propri progetti architettonici proponendoli come discussione, e realizzazione estetica, delle tesi decostruzioniste di Jacques Derrida.
Ma non meno importante è il riconoscimento che, negli stessi anni, ha incoronato Baudrillard a mentore teorico del neoconcettualismo newyorkese. I suoi lavori su iper-realtà, simulacro e simulazione, studiati e discussi nei circuiti delle gallerie d’arte di Manhattan, hanno direttamente ispirato le opere di artisti e fotografi di successo, come Cindy Sherman, Sherrie Levin, Ross Bleckner, Peter Halley, Archie Pickerton e Jeff Koons. A metà degli anni ’80, il prestigio e l’influenza diffusa della sua elaborazione critica sul mercato dell’arte newyorkese non conosce rivali, come del resto testimonia la sua cooptazione a collaboratore onorario della più potente e prestigiosa rivista di settore della metropoli americana: Art forum. Non stupisce, dunque, che un impatto così profondo sulla cultura estetica d’élite newyorkese lo trasformi in un punto di riferimento teorico perfino di un cult movie di massa: come hanno infatti più volte dichiarato i fratelli Wachowski, gli autori della fortunata trilogia The Matrix, è stato proprio Simulacres et simulations di Jean Baudrillard il saggio teorico che ha ispirato la scrittura della loro complicata saga cibernetico/ rivoluzionaria.
Sarebbe inutile, al fine del nostro discorso, seguire tutti i rivoli di questa assimilazione culturale diffusa e pervasiva. Quello che è invece importante considerare ora è lo specifico spazio sociale che ha promosso e moltiplicato quest’innesto, trasformandolo in modello culturale egemonico. Perché se si affina un po’ lo sguardo, appare subito evidente, infatti, che l’antropologia gioiosamente espressiva e ribelle, di cui il Nietzsche di Deleuze è stato solo anticipazione, ha trovato proprio qui, in questi due settori minoritari e privilegiati della società americana – vale a dire il mondo dell’accademia universitaria e il milieu cosmopolita delle professioni creative newyorkesi – il suo luogo d’elezione. Lontano dalle complicazioni politiche e dai disastri sociali dei lunghi anni settanta europei, «il surrealismo nietzscheano» si è sviluppato benissimo in questi spazi sociali protetti e sradicati, sprigionando tutta l’energia trasgressiva e lo splendore estetico di cui è capace. Dalla corrosione teorica dei canoni umanistici alla trasgressione vertiginosa dei volumi, delle leggi statiche e degli equilibri plastici nelle volumetrie architettoniche, fino al permanente delirio performativo e multimediale della sperimentazione artistica, è come se si fosse propagata, da quest’originaria immagine nietzscheana, una sorta di caleidoscopica narrazione intermittente. Ma potrebbe essere letta, anche, come il racconto continuo di quella che, a tutti gli effetti, ormai appare come una schumpeteriana distruzione creatrice e che ha al suo centro proprio la combinazione dei due comandi originari del modello deleuziano: disgregazione del soggetto (dei suoi spazi, del suo vissuto e dei suoi tempi) ed etica dell’affermazione pura – e poco importa che si realizzi come semplice energia vitale, volontà di potenza o forza espressiva.
Nella sua assimilazione americana, quest’antropologia intellettuale ha radicalizzato, talora fino al parossismo, la critica nietzscheana del fondamento, spacciandolo come illusoria pretesa di verità o, peggio ancora, come regressiva metafisica dell’essenza. Guardato con queste lenti, e da una non trascurabile distanza di sicurezza, il mondo viene così progressivamente alleggerito fino ad apparire come uno spazio tutto esterno, immanente, plastico, superficiale, malleabile e pacificato; un luogo dove è possibile agire, esprimersi ed affermare la vita contro qualsiasi freno, vincolo, tradizione che la possa imprigionare nello spazio reattivo dell’identità, del senso di colpa sociale o della storia e del suo inderogabile principio di realtà. Tutto in teoria si può fare, ma solo perché il mondo è stato ridotto a simulazione, a flusso indistinto di significanti senza significato, a metamorfosi continua di simulacri ed apparenze[17]. Ed è in parte il riconoscimento di una verità storica profonda; e in parte il tentativo involontario di renderla fatalità naturale.
Questa tendenza culturale infatti – che al di là degli elementi comuni sopra descritti è, come ovvio, al suo interno oltremodo diversificata – mostra il suo limite profondo proprio nell’«effetto di conoscenza» di cui è involontariamente complice e insieme vettore di propagazione. Con questo concetto la sociologia critica di Pierre Bourdieu ha studiato il modo attraverso cui il mondo dell’economia e della finanza esercita la propria influenza, culturale, politica e simbolica, sugli altri settori della vita associata. Un’influenza, però, che non deve essere pensata, per Bourdieu, come diretta determinazione causale, ma piuttosto ricostruita come se fosse un moto di rifrazione ottica, un processo dinamico di induzione, assimilazione e ricreazione simbolica:
oggetto di conoscenza per gli agenti che lo praticano, il mondo economico e sociale esercita un’azione che prende la forma non di una determinazione meccanica, ma di un effetto di conoscenza. È chiaro che, almeno nel caso dei dominati, questo effetto non tende a favorire l’azione politica[18].
Abbiamo visto nelle pagine precedenti come questo modello di «surrealismo nietzscheano», costruito nella Francia a metà del secolo scorso, sia stato poi assimilato e reinventato da un preciso milieu sociale (che talora sembra coincidere, anche se non unicamente, con una circoscritta geografia economica) e quali siano i gesti estetici, gli atteggiamenti esistenziali e le lenti teoriche che ne connotano l’impostazione generale e la successiva egemonia. Ed è proprio nell’insieme di questi tre elementi, infatti, che si realizza il suo specifico «effetto di conoscenza», il modo attraverso cui il mondo esterno viene espresso, capito, rappresentato, vissuto. Seguire rapidamente la metamorfosi del mercato dell’arte newyorkese può forse aiutare a decifrare il geroglifico sociale nascosto nel successo di quest’assimilazione. Perry Anderson, in un intelligente pamphlet sulla cultura postmoderna[19], ha mostrato con grande chiarezza il legame strutturale e simbolico che avvicina alta finanza speculativa – newyorkese, ma ovviamente non solo – con il mercato dell’arte contemporanea, soprattutto pittorico.
Il primo legame, quello strutturale, deriva dalla natura squisitamente speculativa che accomuna mercato dell’arte contemporanea e finanza:
quello che è peculiare del mercato dell’arte, come è evidente, e che può spiegare i suoi prezzi vertiginosi, è il suo carattere speculativo. In questo settore, i lavori possono essere comprati o venduti come pure merci di un mercato futuro, come investimenti per un profitto a venire.[20]
Il secondo legame, quello simbolico, può essere invece compreso come una sorta di reciproco rispecchiamento narcisistico; o forse meglio, come omologia formale fra due attività umane incredibilmente diverse, eppure simili nell’idea di soggetto che realizzano. Quello che offre, infatti, l’esperienza del pittore contemporaneo al mondo dell’alta finanza neoliberista è una sorta di duplicato, per quanto spostato nel dominio dell’estetico, della sua medesima attività lavorativa: in nessun’altro settore artistico come nella pittura contemporanea, infatti, il soggetto espressivo è stato liberato da vincoli e tradizioni culturali e reso sovrano assoluto in un regno senza legge, perché alleggerito dalla referenza e plasmato da un potere autoconferito. Ed è in questa particolare condizione, ambientale e soggettiva, che il «surrealismo nietzscheano» si innesta, offrendo un approdo teorico provvidenziale perché capace di nobilitare, e ammantare di trasgressione, perfino politica, una pratica estetica di fatto alla deriva:
[se osserviamo il fenomeno] dal lato delle gallerie più famose, il boom del mercato dell’arte newyorkese all’inizio degli anni 80, indicizzato sulla frenesia borsistica e sulla speculazione immobiliare, ha un effetto sconvolgente, allontanando gli artisti dai loro referenti naturali (critici e storici dell’arte) per avvicinarli al mondo dell’élite finanziaria e dei grandi media pubblici. In questo contesto, dove è in gioco una ridefinizione dei ruoli interni al mondo dell’arte e una perdita d’autonomia della sfera estetica nel suo complesso, l’influsso della teoria francese all’inizio degli anni ottanta è quasi provvidenziale. Perché permette, non senza contraddizioni, di reintrodurre, in un campo di pratiche alla deriva, vicino a confondersi con il flusso indistinto del mercato, una dimensione storica e politica, se non l’illusione di un potere di trasgressione.[21]
Non dovrebbe essere difficile riconoscere, a questo punto, che la medesima idea di soggettività creativa, gioiosamente distruttrice, ribelle e irresponsabile (anche perché operante in uno spazio – quale è il mondo finanziario della produzione di moneta astratta – solo simbolico e dominato da significanti puri) trova la sua più congruente incarnazione storica proprio nei rappresentanti della classe capitalistica transazionale di questi ultimi quarant’anni[22]. E così il fraintendimento gauchiste della derivazione europea finalmente si risolve: il paradossale modello regolativo che il Nietzsche di Deleuze aveva condensato per un’intera generazione di ribelli trova la sua congruente realizzazione all’interno di un milieu molto più congeniale al pensiero originario nietzschiano: quello dell’aristocrazia (finanziaria) ribelle e della sua non metaforica volontà di potenza[23]. Perché finanza internazionale, arte contemporanea e theory americana radicale appartengono di fatto, seppur con evidenti differenze di status e di responsabilità politica, e non senza contraddizioni, al medesimo spazio economico dominante[24]; ed è la natura coesa di questo privilegiato spazio sociale – accuratamente separato dal mondo reale, alleggerito dall’incubo della storia e dei suoi disastri perché epicentro e comando dell’accumulazione mondiale – a rendere esplicita la qualità politica di questo «effetto di conoscenza», la sua organicità non casuale alla retorica neoliberista di questi ultimi trent’anni.
Perfino l’ultimo Baudrillard, che di questa costruzione ideologica fu uno dei mentori involontari, si è accorto, qualche anno prima di morire, che quello che era sembrato, anni prima, euforica trasgressione di ogni norma e vincolo estetico in favore di una liberazione dell’arte, ma soprattutto della vita, all’altezza di questi ultimi anni si mostra piuttosto come apologia dello scatenamento senza freni del capitale e delle sue criminali forme di devastazione. Secondo Baudrillard, l’arte contemporanea è diventata, nella sua perpetua ribellione espressiva, una paradossale pratica mimetica, un atto di volontaria e colpevole complicità con l’«insignificanza e l’indifferenza generale» che governa il nostro presente.
L’avventura dell’arte moderna è finita. L’arte contemporanea è contemporanea solo a se stessa. (…) Nulla la distingue dall’operazione tecnica, pubblicitaria, mediatica, numerica. Niente più trascendenza, niente divergenza, niente altra scena: solo un gioco speculare con il mondo contemporaneo così come esso ha luogo. Per questo l’arte contemporanea è inesistente, perché tra essa e il mondo si ha un’equazione perfetta. Fuori di questa complicità vergognosa, in cui creatori e consumatori comunicano senza dire una parola nella considerazione di oggetti strani, inesplicabili, che rimandano solo a se stessi e all’idea dell’arte, il vero complotto sta nella complicità che l’arte stringe con se stessa, nella sua collusione con il reale grazie alla quale diviene complice di quella Realtà Integrale di cui è ormai soltanto il ritorno immagine. (…) L’arte non è più altro, ormai, che un’idea prostituita nella sua realizzazione.[25]
[1] «Per la storia della cultura i nomi dei filosofi sono innanzitutto delle metonimie: indicano flussi collettivi di pensiero che certi autori intercettano, perfezionano e trasmettono alle generazioni successive» in G.Mazzoni, Teoria del romanzo, Il Mulino, Bologna 2011, p.20
[2] A.Baeumler, Nietzsche, der Philosoph un Politiker, Reclam, Lipzig 1931 (tr.it Nietzsche filosofo e politico, Edizione di Ar, Padova 2003).
[3] G.Lukács, Die Zerstörung der Vernunft, Aufblau, Berlin 1954 (tr.it La distruzione della ragione, Einaudi, Torino 1959).
[4] Per una lettura storica e filosofica del pensiero di Nietzsche, contestualizzata e fondata sullo studio filologico degli scritti, si veda: D.Losurdo, Nietzsche, l’aristocratico ribelle. Biografia intellettuale e bilancio critico, Bollati Boringhieri, Torino 2002.
[5] M.Heidegger, Nietzsche, Neske, Pfullingen 1961 (tr.it Nietzsche, Adelphi, Milano 1994).
[6] G.Deleuze, Nietzsche et la philosophie, PUF, Paris 1962 (tr.it Nietzsche e la filosofia e altri testi, Feltrinelli, Milano 1992).
[7] M.Ferraris, Nietzsche e la filosofia del Novecento, Bompiani, Milano 1989, p.121.
[8] Sull’importanza di questo saggio di Deleuze per il pensiero teorico post-strutturalista e in particolare di Foucault si veda: J.Rehmann, Postmoderner Links–Nietzscheanisimus. Deleuze & Foucault: eine Dekonstruktion, Argument Verlag, Hamburg 2004 (tr.it I nietzscheani di sinistra. Deleuze, Foucault e il postmodernismo: una decostruzione, Odradek, Roma 2009).
[9] G.Vattimo, Nietzsche, il superuomo e lo spirito dell’avanguardia in Il caso Nietzsche, (a cura di) M.Freschi, Libreria del Convegno, Cremona. 1973 or in Id., Dialogo con Nietzsche. Saggi 1961-2000, Garzanti, Milano 2000, p.136.
[10] P.Godani, Deleuze, Carocci, Roma, 2009, p.14
[11] G.Deleuze, Nietzsche et la philosophie cit., p.10
[12] Per una ricostruzione critica della lettura deleuziana di Nietzsche (e di Foucault) oltre al testo, già citato di Jan Rehmann (J.Rehmann, I nietzscheani di sinistra cit.) si può consultare: A.Monville, Misère du nietzschéisme de gauche. De George Bataille à Michel Onfray, Édition Aden, Bruxelles 2007. Mentre per una critica generale del nichilismo post-strutturalista il testo di riferimento è: P.Dews, Logic of Disintegration. Post-strutturalist Thought and the Claims of Critical Theory, Verso, London – New York 1987.
[13] F.Cusset, French Theory. Foucault, Derrida, Deleuze & Cie et le mutations de la vie intellectuelle aux États-Unis, La Découverte, Paris 2003, p.36 [traduzione mia].
[14] «La teoria francese costituirà una creazione ex nihilo dell’università americana, come risposta ad alcuni problemi precisi e, più in generale, ad una crisi assiologia del campo degli studi umanistici. Per questo va considerata come una composizione inedita piuttosto che un’importazione adattata; di qui il suo impatto più profondo e più duraturo» in Ibidem, p.36 [traduzione mia].
[15] T.Eagleton, The Illusions of Postmodernism, Blackwell, Oxford 1996 (tr.it Le illusioni del postmodernismo, Editori Riuniti, Roma 1998, p.4).
[16] Deconstructivist Architecture, (edited by) P.Johnson/M.Wigley, Little Brown and Company, New York 1988.
[17] Come correttamente nota François Cusset nel suo interessante saggio sugli usi americani della French Theory: «[La nuova generazione d’artisti americani] sente il bisogno di effettuare attraverso la teoria, nella teoria, una rottura che la società postmoderna e la sua middle-classe trionfante (…) non gli permette di fare nella realtà» in F.Cusset, French Theory cit., p.255 [traduzione mia].
[18] P.Bourdieu, C’est que parler veut dire: l’économie des échanges linguistiques, Fayard, Paris 1982 (tr.it La parola e il potere, Guida, Napoli 1988, p.121).
[19] P.Anderson, The Origins of Postmodernity, Verso, London/New York 1998, pp.94-95.
[20] Ivi, p.94 [traduzione mia].
[21] F.Cusset, French Theory cit., p.249 [traduzione mia]
[22] Sull’irresponsabilità come dominante culturale e politica della nuova finanza speculativa si veda il bellissimo saggio di Luciano Gallino: L.Gallino, L’impresa irresponsabile, Einaudi, Torino 2005; e il più recente: Id., Con i soldi degli altri. Il capitalismo per procura contro l’economia, Einaudi, Torino 2009. Per una ricostruzione storica della strategia politica delle classi dirigenti neoliberiste mondiali, è fondamentale: D.Harvey, A brief History of Neoliberalism, Oxford, New York 2005 (tr.it Breve storia del neoliberismo, Il saggiatore, Milano 2007)
[23] Su questo tema si vedano almeno questi due lavori: C.Lasch, The Revolt of the Elites and the Betrayal of Democracy, Norton & Company, Nex York 1995 (tr.it. La ribellione delle élite. Il tradimento della democrazia, Feltrinelli, Milano 2001); A.Burgio, Senza democrazia. Un’analisi della crisi, Deriveapprodi, Roma 2009.
[24] Nell’analisi di queste pagine ho cercato di seguire, per quanto in modo necessariamente semplificato, due indicazioni teoriche derivanti dal materialismo storico/geografico di David Harvey. La prima riguarda l’ipotesi di una relativa coerenza strutturata fra spazi geografi diversi in competizione capitalistica fra loro: «vi sono processi che definiscono spazi regionali entro i quali produzione e consumo, domanda e offerta (di merci e di forza-lavoro), produzione e realizzo, lotta di classe e accumulazione, cultura e stile di vita, assumono una sorta di coerenza strutturata all’interno della totalità delle forze produttive e delle relazioni sociali»; la seconda riguarda invece l’ipotesi di una possibile alleanza (da me letta in termini culturali e antropologici, ma in ultima istanza politici), nello stesso spazio geografico, fra settori lavorativi privilegiati: «le fazioni del lavoro che hanno ottenuto, con lotta o in forza della loro scarsità, isole di privilegio in un mare di sfruttamento saranno a loro volta portate a sostenere la causa dell’alleanza per proteggere le loro conquiste» in D.Harvey, The Geopolitics of Capitalism in Social Relation and Spatial Structures (edited by) D.Gregory – J. Urry, Mc Millian, London 1985 (tr.it La geopolitica del capitalismo in Lo spazio del capitale. La riscoperta della dimensione geografica nel marxismo contemporaneo, (a cura di) Giovanna Vertova, Editori Riuniti, Roma 2010, pp.123, 130-1).
[25] J.Baudrillard, Le Pacte de lucidité ou l’intelligence du Mal, Edition Galileé, Paris 2004 (tr.it Il Patto di lucidità o l’intelligenza del Male, Raffaello Cortina Editore, Milano 2006, p.89).
[Immagine: T-shirt Hello Nietzsche].
Questo contributo aggiorna, corregge e arricchisce le intuizioni contenute nella prefazione a “Il Movimento Surrealista” e nella raccolta “Insistenze”, senza riproporne i toni apocalittici e il livore che all’epoca penalizzarono la critica di Fortini. Si tratta, ad ogni modo, di una lettura più fertile, articolata e complessa di altre che pur con essa condividono presupposti e intenzioni (es. T. Eagleton). Sicuramente merita una trattazione più estesa, sarebbe bello se ne venisse fuori quantomeno un saggio breve.
mentre trovo convincente la “derivazione surrealista” dell’interpretazione “francese” del pensiero di nietzsche, non credo che tale pensiero possa essere utilizzato, neppure in parte, per dare una legittimità teorica a quella che qui viene definita “aristocrazia (finanziaria) ribelle”, una categoria, peraltro, la cui stessa esistenza mi pare assai discutibile (il denaro ha sempre un fine anche quando, appunto, è fine a se stesso) se collocata nell’alveo della ribellione. troppo spesso si dimentica il debito che nietzsche riconobbe a stirner e, dunque, al pensiero anarchico (sebbene individualista), che è in ogni caso un pensiero morale (come tutta la filosofia di nietzsche) poiché muove da valori positivi e condivisi nell’ambito di una visione costruttiva del mondo. al contrario, i neoliberisti, i mercanti d’arte, i protagonisti della finanza internazionale, se possiamo raggrupparli tutti insieme, sono amorali e privi di qualsivoglia progetto. ps: splendida la conclusione sull’arte, ringraziamo warhol!
@ Riccardo De Gennaro.
Capisco il senso normativo e contenutistico (lei presuppone una certa famiglia di idee di moralità) in cui lei usa il termine “morale”; e capisco il senso in cui usa il termine “amorale” – e potrei anche essere d’accordo.
Se interpreto bene una parte di ciò che suggerisce questo bel saggio, le proporrei però di usare il termine “morale” in senso descrittivo (fenomenologico). Allora persino molti degli speculatori e dei mercanti d’arte più spregiudicati agirebbero moralmente – magari secondo versioni estreme di (1) idee morali utilitariste, oppure più spesso (2) terapeutiche, edoniste, vitalistiche – e questa seconda famiglia di idee morali passa anche (ma non solo) attraverso Nietzsche, i surrealisti, la “french theory”, ecc. E tutto questo poi riguarda anche le persone comuni (tutti noi moderni).
aspettiamo con impazienza la parte nel mezzo: l’Italia tra i 60 e i 70!!
nella nota 24 ci sta in sunto l’argomentazione…che a mia impressione tiene su tutto il legato del pezzo eseguito…:
[24] Nell’analisi di queste pagine ho cercato di seguire, per quanto in modo necessariamente semplificato, due indicazioni teoriche derivanti dal materialismo storico/geografico di David Harvey. La prima riguarda l’ipotesi di una relativa coerenza strutturata fra spazi geografi diversi in competizione capitalistica fra loro: «vi sono processi che definiscono spazi regionali entro i quali produzione e consumo, domanda e offerta (di merci e di forza-lavoro), produzione e realizzo, lotta di classe e accumulazione, cultura e stile di vita, assumono una sorta di coerenza strutturata all’interno della totalità delle forze produttive e delle relazioni sociali»; la seconda riguarda invece l’ipotesi di una possibile alleanza (da me letta in termini culturali e antropologici, ma in ultima istanza politici), nello stesso spazio geografico, fra settori lavorativi privilegiati: «le fazioni del lavoro che hanno ottenuto, con lotta o in forza della loro scarsità, isole di privilegio in un mare di sfruttamento saranno a loro volta portate a sostenere la causa dell’alleanza per proteggere le loro conquiste» in D.Harvey, The Geopolitics of Capitalism in Social Relation and Spatial Structures (edited by) D.Gregory – J. Urry, Mc Millian, London 1985 (tr.it La geopolitica del capitalismo in Lo spazio del capitale. La riscoperta della dimensione geografica nel marxismo contemporaneo, (a cura di) Giovanna Vertova, Editori Riuniti, Roma 2010, pp.123, 130-1).
L’antifilosofo tedesco a sua insaputa . . e’ stato “ben” usato, certo, come descritto, dal letterario e frizzante, che farci? spirito francese,(qui ci starebbe bene una riflessione sulla lingua e la phonè) e comunque, gli slanci erranti e deterritorialezzanti di Deleuze figlio e Maestro del suo tempo, e sorcieres dietro al suo flauto magico…, Baudrillard lo metterei di lato, piu’ sociomediologo, hanno alimentato forse troppo a lungo una serialita’ sterile di post-filosofi..e mettiamoci anche gli amanti disperati (perche’ mai altrettanto bravi) di Foucault..ma riprendere in mano Nitezche e farne un resume di protopostkapital e’ , mi pare, restare sempre dentro ad un cerchio magico, ne’ utile fu il libro di Vattimo….io trovai il migliore Perniola, quando studiavo..anche io come tanti sono cresciuta attorno al filo di Friederich, ma non solo, e ben presto ho saputo che il Surrealismo calcava lo Spiritismo, senza aver forza e coraggio di andare davvero oltre l’esperimento, cosi’ come l’amato Bataille passava in festini che ci ricordano tristi cadute di oggi, pero’ pero’…perche’ sempre girellare attorno a lui, che non amava apparire, essere, esser citato, che era vegetariano, non violento tranne che nella indignazione per la imbecillita’, che si irritava della sua solitudine, ed era prigioniero di fobie, quasi un P.K.Dick di ieri, appena ieri……che certo non desiderava la moltiplicazione del denaro, ma la liberta ‘dallo stesso, e soprattutto la mobilita’ della esperienza giocata in stile e senza remore., interiore e pratica…ci sta molto, in Nietzsche, eppure Benjamin lo aveva capito, senza dover per questo citare e dimostrare (tutto si puo’-linguisticamente e matematicamente dimostrare no? Kurt Goedl insegna..)
Questa geopolitica di Harvey David(non l’amato Harvey che, coniglione enorme, nel film appare solo ai puri di spirito) se pur di filone forse marxista, a me invece pare , lo scrivo, filonazista nel demarcare cosi’ fortemente l’ossessione di chi si scavasse la nicchia per ottmizzarla.
Perfetto riprender mano a Marx, magari ritornando a Spinoza, e inserendo finalmente il Nuovo delle Scienze, Sheldrake, la Fisica e la Microfisica…
Nietzsche era un border, scriveva contro, non per, e ha avuto alcune visioni forse profetiche.
E ha scritto pagine sublimi (kantianamente) e di forte concentrazione …ma va preso a dosaggi non univoci: cioe’, diviene cio’ che si e’ molto spesso.
I marginalizzati sono nella forma psichica lontanissimi dal capitale, che pure e’ stato il Percorso della ns storia e ha ingoiato le altre Forme, la Differenza penso si collochi proprio qui.
Sotterranei a tutto l’intervento, scorrono come uadi i rivoli di una pratica culturale differente che emerge nella forma e nello sguardo – meglio: nei punti di fuoco che volta per volta vengono individuati, nei passi compiuti. Presupponendo ogni argomentazione una serie di scelte discriminanti, la coerenza che rimane salda nell’oscillazione fra i vari poli mostra intanto quanto vecchi approcci rinnovati mantengano impatti indiscutibili. A Balicco tutta la mia ammirazione.
L’oscillazione della funzione dell’arte, di una certa arte, da legittimatoria e propagandistica di uno spazio economico, a espressione di questo, all’interno dei presupposti di una certa cultura, ci viene mostrata in alcune sue dinamiche; la domanda sulle nostre latitudini è immediata. Il passaggio degli anni ‘67/77 che Balicco individua e sul quale a malincuore soprassiede è certo pesantemente influenzato da questa migrazione di letture di Nietzsche; e tuttavia chiedersi quanto Roma o Milano siano state investite dal modello americano, ovvero quale sia la portata egemonica del sistema economico culturale di questo spazio sociale privilegiato propriamente newyorkese, è necessario. Lo sviluppo in Italia di logiche capitaliste particolari, così come le peculiarità dei tentativi di costruire egemonie locali comunque differenti da quelle delineate nel saggio, denunciano infatti una serie di diversità. Quanto l’arte è compromessa a questi livelli in Italia? Il decennio citato ha portato ad evoluzioni simili ma differenti dei presupposti. Giustamente Balicco non parla del concetto di surrealismo di massa in Fortini, per evitare tutta una serie di precisazioni e di distinguo che, nel caso, sarebbero necessari. Forse proprio questo iato, nelle sue oscillazioni in direzione di identificazione o divaricazione, ci potrebbe dire molto, proprio nelle giustapposizioni.
@ Michele Dal Lago
“Questo contributo aggiorna, corregge e arricchisce le intuizioni contenute nella prefazione a “Il Movimento Surrealista” e nella raccolta “Insistenze”, senza riproporne i toni apocalittici e il livore che all’epoca penalizzarono la critica di Fortini”
Un Fortini finalmente depurato dai suoi “eccessi comunisti”?
Un Fortini sottoposto alla dieta berardinelliana di “Stili dell’estremismo”?
In un’Italia di disoccupati, politici corrotti e bocconiani che ci governano per conto terzi
speriamo che crescano gli apocalittici e livorosi di tipo fortiniano e diminuiscano i nipotini (universitari) di Nietzsche.
Bellissimo articolo. Mi permetto di segnalare il lavoro di un giovane studioso che considero uno dei più interessanti interpreti di Klossowski e Bataille e che è molto vicino al discorso di Daniele Balicco:
T. Tremblay, Anamnèses: Essai sur luvre de Pierre Klossowski, Hermann, 2012
Si suggerisce sul tema anche la lettura di Aymeric Monville, “Miseria del niccianesimo di sinistra”, un cui estratto è stato pubblicato nel 2008 qui
http://www.lagru.org/index.php?option=com_content&task=view&id=48&Itemid=1
Ottimo articolo. Anzitutto perché riesce, in poco spazio, a disegnare un’ipotesi teorica e politica plausibile che sarebbe bello veder sviluppata e precisata oltre le inevitabili semplificazioni che l’autore stesso metolodogicamente ammette di aver dovuto fare (e, sì, includendovi magari la parentesi italiana degli anni 60-70…anche se qui il discorso si farebbe più complesso e occorrerebbe delinare tutto un altro contesto economico-culturale-politico, poiché, a naso, mi sembra che la ricezione a sinistra (Cacciari, Vattimo ecc.) degli autori della “rivoluzione conservatrice” abbia avuto una storia sui generis rispetto alla creazione della French Theory americana, anche se gli effetti “spoliticizzanti” dell’operazione di destrutturazione del soggetto moderno sono analoghi). In secondo luogo perché chiarisce gli aspetti specifici del pensiero di Nietzsche che, attraverso le riprese francesi e americane, vengono a fondersi e a trasformarsi nell’ideologia denunciata nell’articolo. Si evita così quel tipo di critiche cieche e totalizzanti a Nietzsche che lo trasformano facilmente nel capro espiatorio di tutti i mali del pensiero e della prassi odierna…
caro Baldini, le dispiace se respingo la sua proposta? non vorrei incamminarmi su di una strada pericolosa, dove si rischia di piegare ancora una volta nietzsche al servizio un’ideologia di stampo nazista. io non vedo negli attivisti del nichilismo finanziario nulla che possa far pensare a qualcosa di morale, terapeutico, vitalistico, come lei suggerisce, ma piuttosto e molto più semplicemente un anelito di dominio, che ricorda per molti aspetti la follia del totalitarismo hitleriano, in questo caso – per di più – globale. dobbiamo proprio ai francesi di cui sopra se quella strada è diventata un vicolo cieco. vogliamo riaprirla?
X Ennio Abbate
apocalittico e comunista sono, per me, incompatibili. Perché sono un appassionato lettore di Fortini, ma soprattutto di Marx. E il mio essere comunista mi impedisce di essere apocalittico.
Io penso che lo stile di quegli interventi Fortini fosse, in alcuni casi, un limite. Non perché troppo comunista ma perché troppo adorniano. Ad ogni modo, nei testi che ho citato, Fortini riconosce il problema di cui stiamo discutendo prima e meglio di molti altri venuti dopo.
Riguardo la figura di Fortini, non penso debba essere depurato dagli eccessi comunisti, semmai dai rari – ma a volte significativi – eccessi anticomunisti (mi riferisco, in particolare, al complesso rapporto con il PCI).
Tra l’altro, per chi non lo conoscesse, consiglio vivamente il libro di D. Balicco “Non parlo a tutti. Franco Fortini un intellettuale politico” (Manifestolibri)
immagino il fuggi fuggi se a Wall Street si fosse presenteto Marx
e.c. presentato
@ Michele Dal Lago
Per “eccessi comunisti” ho usato le virgolette; e mi sono augurato (spero che si sia colta l’ironia) che crescano apocalittici e livorosi DI TIPO FORTINIANO.
Se poi lei parla per Fortini addirittura di “eccessi anticomunisti (mi riferisco, in particolare, al complesso rapporto con il PCI)”, si vede che identifica tout court PCI e comunismo.
E la storia del PCI e del suo scolorimento in DS e poi in PD e vendolismo e rifondazionismo come la spiega?
Ma è vero, ho sbagliato post.
Oggi non interessa più a nessuno capire che tipo di comunismo era quello del PCI, né quello dell’URSS (Cfr. http://www.sinistrainrete.info/marxismo/2038-mario-tronti-urss-il-continente-scomparso.html), né quello di Fortini (Sempre sono stato comunista./ Ma giustamente gli altri comunisti/ hanno sospettato di me. Ero comunista/troppo oltre le loro certezze e i miei dubbi./ Giustamente non m’hanno riconosciuto.[…]); e se sia ancora possibile fare comunismo (più che parlarne…).
E perciò, orsù, parliamo di Nietzsche… e magari di “beni comuni”!
@ Riccardo De Gennaro
non mi dispiace affatto; la logica della proposta è potere essere rifiutata sine cura – altrimenti sarebbe un consiglio, un ammonimento, o altro. Capisco poi la sua perplessità e ne condivido alcune delle ragioni profonde. Solo due cose, per cercare di precisare quello che volevo dire:
(1) quello che mi interessava notare non sono connessioni causali (x ha prodotto y), quanto piuttosto connessioni metonimiche (prendo x come y, perché x fa parte di y) e analogiche o metaforiche (prendo x per y, perché x assomiglia a y nei tratti a, b, c,… o condivide con y quei tratti, ma non altri). Nelle discipline umanistiche i fraintendimenti, le incomprensioni e le perplessità nascono spesso dal fatto che si scambiano connessioni metonimiche o analogiche con connessioni causali. Lei può trovare queste connessioni sbagliate o irrilevanti.
(2) continuerei a promuovere un uso del termine “morale” di tipo più descrittivo, perché è difficile immaginare esseri umani che agiscano e patiscano senza sentire o credere che ciò che fanno, subiscono e accade loro è anche buono, utile, piacevole, degno, ecc., per se stessi o per altri – cioè è difficile immaginare e raccontare la vita di qualcuno che agisca consapevolmente in modo assolutamente malvagio o insensato (il racconto assumerebbe dei tratti fantastici o soprannaturali) – parlerei di morali in conflitto, più che di amoralità. Ma discutere di questo ci porterebbe troppo lontano e non ne avrei comunque le competenze. La ringrazio molto per avere accettato il dialogo.
Se questa ricostruzione è plausibile – e non ho motivo di metterlo in dubbio – allora fornisce una pezza d’appoggio a chi si è recentemente lanciato nell’impresa di manifesti e dibattiti internazionali sul realismo, in funzione antidecostruzionista e allo scopo di frenare la deriva delle interpretazioni che produce conseguenze, non solo filosofiche, nefaste. Anche il promotore di quel manifesto, Ferraris, riconduce, grosso modo, la responsabilità al (anche da lui) già amato Federico Nicce. Mi trovo in imbarazzo: potrei anche prendere sul serio Ferraris, se non mi urtasse che abbia fatto della citazione polemica del nietzschiano “non ci sono fatti, solo interpretazioni” un mantra ormai tanto ripetuto da essere diventato vacuo slogan. Eppure la ricostruzione di Balicco mi persuade. Urge allora trovare un terza via: riusciamo a salvare Nietzsche ed eredi francesi dall’accusa, in qualche modo fondata, di essere all’origine di una deriva del sistema dei valori? Riusciamo però a non finire nella propugnazione di (neo)realismi un poco ovvi come quello di Ferraris? Da non addetto ai lavori filosofici e – mi rendo conto – con una certa crassa betise (avrebbe detto Flaubert) – provo a proporre anch’io, consentendo con quanto scrive De Gennaro: se la differenza sostanziale tra Nietsche, Foucault, Deleuze e il milieu newyorkese artistico-finanziario fosse davvero “solo” una differenza etica? Intendendo ovviamente etica in senso assiologicamente connotato, ovvero (altra crassa manifestazione di betise), “buona, umana, umanistica” (ha infatti ragione Baldini: anche quel milieu ha una sua morale, intendendo stavolta il termine in senso neutro). Insomma, perché leggere Federico è commovente (in senso alto) e vedere certa (certa) arte contemporanea o un postyuppie della Grande mela fa rabbrividire?
Ringrazio davvero tutte le persone che hanno letto questo articolo e che lo hanno commentato. (Grazie a Valetino Baldi per il consiglio bibliografico e a La Gru per il rinvio alla traduzione del testo di Monville, che conosco, che è citato in nota, e che però credo sia un po’ troppo sbrigativo).
Provo a riprendere alcuni punti della discussione. Il senso dell’articolo ovviamente non è quello di sostenere che Nietzsche, o Deleuze suo interprete, abbiano fornito un milieu teorico alla speculazione finanziaria: sarebbe una follia, la stessa che porta molti a ritenere Marx all’origine dello stalinismo. Niente di tutto questo. Ringrazio Marco Maurizi che ha chiarito molto bene questo punto, e Alessio Baldini che nel suo secondo intervento chiarisce la differenza fra connessioni causali e connessioni metonimiche, metaforiche e analogiche.
Non può essere trovata alcuna connessione causale fra il pensiero di Nietzsche e dei suoi interpreti e il modello di accumulazione oggi dominante. Questo deve essere chiaro. Mentre sono persuaso che possono essere ricostruite alcune connessioni metaforiche fra una certa idea di soggettività nichilista, ribelle, aristocratica e trasgressiva che quella tradizione costruisce, per altro con innegabile fascino e raffinatezza, e alcune pratiche estetiche e politiche contemporanee.
@ Rosa Ridolfi
A Rosa Ridolfi chiederei di spiegare meglio, se ha voglia e tempo, questo passaggio del suo commento che non riesco davvero a comprendere:
“Questa geopolitica di Harvey David(non l’amato Harvey che, coniglione enorme, nel film appare solo ai puri di spirito) se pur di filone forse marxista, a me invece pare , lo scrivo, filonazista nel demarcare cosi’ fortemente l’ossessione di chi si scavasse la nicchia per ottmizzarla”
Per la cronoca: David Harvey è il più importante teorico marxista americano. Ha scritto un’interpretazione magistrale del Capitale intitolata “Limits to Capital”; da anni le sue letture sul Capitale sono online; è intervistato dai media di mezzo mondo come esperto sulla crisi attuale, etc…..
@ Filippo Grendene
Totalmente d’accordo: capire come a partire dagli anni ’70 questo modello inizi ad esercitare un suo specifico potere assimilativo anche sull’arte contemporanea italiana potrebbe mostrare alcuni nodi centrali della “mutazione” nostrana. io sono persuaso che, nelle semi-periferie, per usare un’espressione di Wallerstein, come l’Italia, questi modelli agiscono in modo obliquo (forse più che all’arte contemporanea, – che resta uno spazio estetico puro, da centro di comando, e poco adatto ad un mondo di produttori semi-periferici, quali siamo) dovremmo guardare ai simboli con cui è stato caricato il made in Italy di quegli anni, intendo, moda, design e prodotti di lusso. E’ un discorso complicato, ma lì potremmo trovare conferme facilmente individuabili dell’effetto di conoscenza di questo flusso concettuale neonietzschiano e delle sue ricadute sociali (e qui possiamo pensare a come questo modello abbia determinato esigenze precise di organizzazione della produzione – quindi del tipo di comando sul lavoro, sullo spazio e sul tempo: si guardi a come si sono trasformate, per esempio Roma e Milano, in questi ultimi trent’anni). E’ un ragionamento complicato, ma bisognerà farlo prima o poi.
@ Michele Dal Lago
Giusto per intendersi: non credo che il problema di Fortini sia l’anticomunismo PCI. Fortini non è un anti comunista; sa che il PCI è un grande partito, che è stato capace di alfabetizzare politicamente metà nazione, etc…. Tuttavia, durante la Guerra Fredda, lui – come molti altri grandi intellettuali politici di quegli anni (un nome su tutti: Panzieri) è in conflitto con una parte delle sua classe dirigente, in particolare quella intellettuale; nonché, ma questo è ovvio, con la linea precisamente politica che la dirigenza comunista ha scelto. Un conto è il popolo comunista, un conto le dirigenze.
@ Daniele Lovetere
“se la differenza sostanziale tra Nietsche, Foucault, Deleuze e il milieu newyorkese artistico-finanziario fosse davvero “solo” una differenza etica?” Personalmente non credo sia solo una differenza solo etica; è una differenza anzitutto politica, di status e di potere. Un conto è come un flusso di pensiero si cristallizza nell’opera e nel pensiero di alcuni autori; un conto è come un pezzo di classe dirigente internazionale agisca in una paradossale “sintonia” con le premesse di quel flusso, radicalizzandolo all’estremo, dal centro di comando del capitalismo mondiale.
“Un conto è il popolo comunista, un conto le dirigenze” (Balicco)
Eh, sì, il popolo è sempre puro e inossidabile (sia che aderisca al fascismo sia che aderisca al comunismo) ed infatti le dirigenze sono diventate DS, PD etc ed il popolo chissà con chi sta…!
Ma si sta parlando di Fortini o di Pasolini?
@ Ennio Abate
l’espressione “popolo comunista” è ambigua, forse. Fortini non è un populista, ovvio; ma il termine non è per forza spregiativo. A Fortini, per esempio, i populisti russi piacevano assai; e, va detto, contro Lenin, anche a Marx. Fortini però non è neanche un settario/minoritario/avanguardista. Con popolo comunista intendevo un processo storico, di alfabetizzazione politica che ha coinvolto una frazione davvero estesa di italiani, per più di cinquant’anni. Piaccia o non piaccia. E’ andata male, lo sappiamo tutti. Però basta andarsi a rileggere “la difesa del cretino” per capire il senso di questo discorso. Suvvia Abate, non sia sempre così capzioso.
caro Baldini, sono io che ringrazio lei per le sue precisazioni. io purtroppo, rispetto ai fenomeni politico-sociali, sono sempre più propenso – anche in un dibattito filosofico – a privilegiare le connessioni causali rispetto a quelle metaforiche. è un mio difetto, forse. a questo proposito, non intendo fare sconto alcuno ai protagonisti della grande speculazione finanziaria internazionale, che giudico una forma di nuovo nazismo per le conseguenze che, con lo spostamento istantaneo di grandi masse monetarie, determina all’improvviso sulla vita materiale di milioni di persone, spesso trasformando a piacimento alcune aree del pianeta in qualcosa che si avvicina ai campi di concentramento. non credo di esagerare. mi permetta, poi, soltanto, di ricordare che il concetto di amoralità non è una mia invenzione. grazie ancora.
analisi senza dubbio interessante, che mi ha fatto trovare alcuni spunti di riflessione. ha il suo perchè. (grazie, dirà a ragione, l’autore, bontà sua ;-) ma per il mio personale gusto, e non molto di più, la trovo un pò professorale, freddina, stracolma di puntali, ma alla lunga eccessive citazioni, appunto, troppo d’appoggio. ma come dice la voce fuori campo di quello che si trova cadendo da un grattacielo, nell’incipt del film l”odio” di kassowitz : “fin qui, tutto bene”.
poi arrivo al terzultimo passo. e qui l’esatto erudito infine, come spesso accade in questi casi, non si può più trattenere, ha aspettato questo momento fin troppo, quindi scappa dal professore attento per farsi avventato spyderman, va di uscita azzardata, e sferra il colpo pesante. ma… azz, no! ha ciapà traverss, ha scbagliato il ricore! e dire che si era preparato con misurata calma giocando di fioretto, disegnato preciso e pulito, per tutta la partita. l’ironia dell’oggetto. che sta alle fatalità del soggetto (j.b. ;-)
e qui allora riconsidero una volta di più la geniale giustezza della frase seguente nella situazione del sovracitato film: “il problema non è la caduta, è l’atteraggio”.
un cordiale saluto nietzschiean-gauschiste(non surrealiste)-unpeaucasiniste. pure un pò patafisico, già che siamo lì nei dintorni, alla ubu, quindi una flatulenza (come il mio intevento, del resto), con questo senza voler involontariamente offendere nessuno.
;-)))
@ Riccardo De Gennaro
Non ho cercato di convincerla, ma solo di richiamare l’attenzione su alcune connessioni che mi sembravano emergere dal post pubblicato – sperando di non deformarne troppo il senso. Se alcune di queste connessioni o il modo in cui le ho interpretate non la convincono, credo che lei abbia delle ragioni profonde per non essere convinto.
Mi sento però di ritornare sulla questione dell’uso di connessioni metaforiche e metonimiche come forme di argomentazione nel discorso umanistico. Le relazioni causali, quelle documentabili, le correlazioni statistiche e tutte le forme di argomentazione e connessione simili a queste non bastano. Forse è questo il salto che percepisce @Nemo: dopo una serie di dati e connessioni documentabili, ci si trova di fronte a una connessione diversa o distante rispetto a quelle a cui si è abituati – e che non per questo è necessariamente più produttiva delle connessioni abituali. Vedere le cose in un altro modo comporta sempre un rischio; ma a volte vale la pena correrlo – almeno è un esercizio spirituale.
La stessa interpretazione della “grande speculazione finanziaria” come “nuova forma di nazismo”, proposta da @ Riccardo De Gennaro, è frutto di una connessione metonimica, se non metaforica. Questo solo per dire che se rinunciassimo a un uso controllato, argomentabile e consapevole delle connessioni metaforiche e metonimiche, ci troveremmo in grande difficoltà nel discutere di questioni storiche, culturali, ecc… Anche questo, ahimè, è un argomento la cui discussione ci porterebbe molto lontano.
@ Balicco
Non è capziosità, è rifiuto dell’approssimazione. Non capisco come un Michele Dal Lago, che si dice ( e non voglio dubitarne) lettore attento di Fortini possa affibbiargli l’etichetta di anticomunista. Né come lei metta in fila se non assieme ‘popolo comunista’ (che è concetto nazional-popolare più togliattiano che gramsciano, poi degradatosi ancora a concetto elettoralistico e di costume) e i populisti russi. Per sottolineare che il PCI ha alfabetizzato politcamente una bella frazione di italiani? Ma, appunto, che qualità ha avuto questa alfabetizzazione, se «è andato male, lo sappiamo tutti»? Quanto alla “difesa del cretino”, che Fortini poteva legare ancora (siamo nel 1967 alla vigilia del ’68-’69) a un’ipotesi comunista, se la rilegge bene, vedrà che ha poco a che fare con questa (per lei benemerita, per me generica e da rileggere ben più criticamente, specie oggi) «alfabetizzazione politica» da parte del PCI:
«”L’onestà, la purezza, la bontà, l’ingenuità, il sacrificio” non solo possono ma debbono essere considerate “forze essenziali dell’umana convivenza” perché lo sono realmente dove si combatte per il comunismo. I *“valori” sono una circolazione fiduciaria garantita da una intenzionalità politica collettiva, da un fare del gruppo che li accetta*. In questo senso è rigorosamente vera la frase di Lenin: morale è quel che serve per la rivoluzione. Il torto del nostro «cretino» non è di credere a quei valori ma di non sapere che «solo se il socialismo si definisce come fase estrema e demistificatoria delle contraddizioni borghesi, può farsi portatore di quei valori in funzione socialista» (F.F., Saggi ed epigrammi, p.190)