a cura di Tommaso Di Dio

 

[Esce oggi il volume Poesie dell’Italia contemporanea 1971-2021 (Il Saggiatore), un racconto, a cura di Tommaso Di Dio, per testi, paesaggi e approfondimenti di cinquant’anni di poesia in lingua italiana. Qui di seguito si propone un estratto dalla prefazione del volume. Buona lettura.]

 

1. Felicemente in contrattempo

 

Avvicinarsi alla poesia contemporanea significa fare i conti con un multiverso di forme che ha del vertiginoso e dello sbalorditivo insieme.

La poesia è divenuta, nel giro di un secolo e mezzo – dalla fine delle poetiche normative e l’inizio della libertà costruttiva del verso – una riserva di linguaggio praticamente senza limiti: un genere letterario così accogliente, radicalmente permeabile e plurivoco, che la sua perimetrazione è un vero e proprio calvario teorico. Per bizzarro che possa sembrare, una buona definizione approssimativa della poesia contemporanea potrebbe essere la seguente: quel genere letterario che è tutto ciò che ancora non è (più tutto ciò che è già stato)[1].

 

È come se la poesia fosse felicemente prigioniera di un contrattempo, di un paradossale e intempestivo contro-tempo storico. La grande distesa delle future (e ancora non scritte) poesie è già in qualche modo compresa nei non-limiti del genere, in un continuo e variato ritorno di forme di intensità e delle loro scoperta. Ciò avviene proprio perché ogni poesia, nella sua concretezza linguistico formale, è uno straordinario strumento di contemplazione del possibile e, insieme, una frattura del probabile: una sorpresa del linguaggio che si fa, in una manciata di sillabe, abisso di potenza.

 

Lo scriveva già Ingeborg Bachmann quando, nelle sue Lezioni di Francoforte, provava a descrivere i «presupposti “utopici”» della letteratura. Bachmann scriveva che la letteratura «non è un fatto compiuto»; e per questo non è mai né «datata» né «inoffensiva», è «il territorio più aperto»: in ogni sua realizzazione, «con la forza che le viene da tutte le età», «tutto il suo passato si riversa nel presente»[2].

Bachmann sembra ricordare che le muse che presiedono alla parola poetica sono figlie di Mnemosyne e Zeus, l’antica titana Memoria e il sovrano degli dèi olimpici, garante della legge e della misura. Così sembra che la poesia non possa che darsi se non come frattura delle leggi che fondano la propria possibilità di esistere e, al contempo, essere la loro rammemorazione. La poesia moderna, del resto, è nata come crisi: come una «crisi squisita»[3]. Ed è diventata quel regime di discorso sociale che, ogni qual volta trova un modo di darsi nella realtà, ogni volta decade e si depone: vive sfigurandosi. La poesia si erge verso le vette più astratte del linguaggio – proprio Mallarmé scriveva che le parole nel verso «si incendiano di riflessi reciproci come una virtuale scia di fuochi su pietre preziose»[4] –, ma mentre si fa suono reale, le fondamenta stesse del suo dire si sgretolano: una frana si compie e quella parola rimane sospesa nel vuoto, tremante, incerta, sbalordita[5].

 

La parola della poesia resta, oggi, la parola più indifesa e più misconosciuta. Se per l’intrinseca povertà dei mezzi adoperati è il linguaggio artistico più aperto e disponibile alle rapine e ai fraintendimenti della cultura di massa, la poesia è anche una riserva di forza, capace di rompere i meccanismi automatici e i piani confortevoli della parola comune. La parola della poesia confonde, imbarazza, squaderna le zone represse e i tabù in cui siamo immersi. Lavora «con quella parte del nostro popolo interiore che è ilota o informe»[6] e la sua lingua è ancora «la più vicina all’articolarsi dell’emozione e del pensiero in linguaggio»[7]. Proprio per questa prossimità ai processi iniziatici del dire, è anche quella forma d’arte che è più capace di mostrare che «la vita regna, sola, certo, sola, ma non orfana»[8]: la poesia si rivela indicazione delle nostre origini poveramente umane, ci mette di fronte alla nostra condizione marginale di animali parlanti, ci sprona a divenire consapevoli della mortalità che abita i nostri discorsi. Scrive Amelia Rosselli: «Propongo un incontro col teschio/ una sfida al teschio»[9].

 

Eppure, dinanzi a questa sfida, persiste nella maggioranza dei discorsi condivisi un’idea pigra e rassicurante della poesia: che sia solo – o peggio: debba essere – un genere oleografico, in cui un “io” esprime i propri sentimenti in uno stile stereotipato e confessionale. Sebbene questa sia una delle situazioni possibili – e non delle più rare – il percorso di testi che qui si offre in lettura vuole essere, innanzitutto, una smentita di ogni preconcetto o ideologia precostituita: un modo per restituire, sia a chi conosce bene il territorio della poesia sia a chi abbia desiderio di inoltrarsi per la prima volta, un percorso di realizzazioni poetiche che renda conto della straripante ricchezza linguistica e formale che la poesia contemporanea in lingua italiana ha saputo costruire negli ultimi cinquant’anni.

 

Hic sunt leones. È questo un territorio – come dirò fra poco: “un paesaggio” – che nella sua articolazione e complessità è ancora di fatto poco conosciuto: perché di difficile reperibilità, perché oscurato dal volume e dal rumore di altre scritture, perché non sempre divulgato e promosso adeguatamente; ma soprattutto perché la grande varietà di soluzioni che la poesia contemporanea ha saputo trovare, la sua radicale pluralità, ha sorpreso innanzitutto gli stessi critici e i poeti. Questo lavoro intende restituire un percorso attraverso i decenni di uno dei più vivaci, fertili, inventivi laboratori di esperienze linguistiche ed esistenziali in lingua italiana.

 

2. Un immane groviglio di ife

 

È assai probabile che non si sia mai scritta così tanta poesia come negli ultimi cinquant’anni.

Il maggiore accesso alla scrittura, l’estendersi e il moltiplicarsi delle realtà editoriali, la diffusione capillare di internet e delle piattaforme on line di condivisione di testi, una sempre più ampia accettazione pubblica delle espressioni idiosincratiche di ciascuno: l’insieme di questi elementi ha fatto sì che un numero crescente di persone si sentisse libera di pensarsi come uno scrittore e di ambire a pubblicare il proprio progetto di poesia[10]. Questa situazione ha cominciato a diventare evidente dagli anni Settanta del Novecento: ed è proprio da lì che ho pensato fosse necessario cominciare il nostro viaggio – e in particolare dal 1971, vero e proprio annus mirabilis della poesia italiana[11]. A partire da quel decennio, il territorio della poesia italiana si trasforma e avverte di entrare in una nuova fase che guarda agli anni precedenti con un senso già storico, addirittura parodico. Non solo gli scrittori più anziani trovano nuove soluzioni che riformulano e riarticolano l’idea di poesia così come si era affermata fin ad allora, ma si affaccia anche una nuova generazione con caratteristiche stilistiche e sociali molto diverse da quelle che l’hanno preceduta. A fronte delle molte differenze, fra ciò che accadde in quegli anni e questi primi decenni del nuovo millennio c’è una continuità che si è voluto sottolineare adottando per i nostri testi un ordine cronologico: la pluralità di scritture che caratterizza il contemporaneo meglio si comprende risalendo alle radici che affondano lì.

 

Non è un caso che uno degli ultimi lavori antologici autorevolmente riconosciuti da quasi tutti coloro che frequentano il mondo della poesia (ma certo non l’unico), pubblicato nel 2005, quasi vent’anni fa, si chiami appunto Parola plurale: fin dal nome, il lavoro di quell’équipe di critici rivendicava una condizione che da allora non è cambiata, ma semmai moltiplicata esponenzialmente. Nella prefazione, dal titolo 1975-2005: Odissea di forme, già si parlava apertamente come da tempo ormai (proprio dalla metà degli anni Settanta) ci si trovasse in una dimensione di convivenza caotica fra scritture assai diverse, che si trovavano a condividere la dicitura “poesia”, «pur ignorandosi bellamente» una con l’altra[12]. A partire da quegli anni, la poesia italiana è come se andasse incontro ad inevitabili «effetti di deriva» e la metafora che è stata spesso ripresa è stata quella dell’«astro esploso»[13]; e si è riconosciuto che il pubblico di lettori e il pubblico degli scrittori da quegli anni tendevano sempre più a coincidere, a fronte di una individualizzazione stilistica sempre più accentuata. Il critico Alfonso Berardinelli, nel 2004, guardando gli anni che erano seguiti alla sua fortunata antologia del 1975, dal titolo emblematico Il pubblico della poesia, ha scritto che «per tutti i venticinque anni successivi in realtà non si è riuscito a capire che cosa fosse diventata la poesia italiana»[14]. E pensare che nel 2005, quando Parola plurale fu data alle stampe, si era ancora qualche anno prima dell’avvento in Italia dei social network (Facebook nasce nel 2004, ma è del 2009 il suo exploit in Italia e YouTube è nata proprio nel 2005) e della conseguente trasformazione che ha operato sulla vita sociale delle persone e anche quindi sul panorama letterario.[15]

 

Ad oggi, le scritture contemporanee si trovano connesse le une alle altre in uno svariato, anarchico e pulsante continuo sottofondo, composto da riviste cartacee e on line, pagine Facebook, festival, libri, case editrici e profili Instagram ecc. La diffusione di internet, nel netto predominio della forma dei social network, ha creato una sorta di struttura-micelio, in continuo movimento senza che sia possibile trovare un centro. Insomma, chi si volesse affacciare alla scena della poesia contemporanea si troverebbe davanti ad immane groviglio di ife. Questa dimensione mediale, nella sua radicale novità, anche rispetto ai primi anni Duemila, è stata di recente descritta nelle sue conseguenze cognitive ed estetiche dal critico Alberto Casadei come un’epoca del Cloud, caratterizzata dalla compresenza potenziale e simultanea «di tutte le informazioni in cui siamo immersi».[16]

 

Proprio a fronte di questa accelerazione, che ha trasformato il quadro esistente accentuandone ancora di più le dinamiche centrifughe, nasce l’esigenza di trovare una forma di rappresentazione della poesia contemporanea che mostri adeguatamente le radici del fenomeno e il suo sviluppo storico, ma dall’altro non rinunci a rappresentare gli esiti ricchissimi della poesia degli ultimi vent’anni; e che provi, al contempo, a spingersi al di là delle forme tradizionali, tentando di rendere ragione di questa simultaneità apparentemente ingovernabile, senza per forza cadere nel tranello di un canone ristretto di anacronistica faziosità.

 

3. Dalla scena al paesaggio

 

Definito lo spettro temporale, come costruire allora un racconto che voglia essere rappresentativo non di una sola tendenza poetica contro le altre, ma di questo mondo interconnesso di scritture?

La forma antologica classica – fondata sugli assi cartesiani del profilo dell’autore e della cornice generazionale – pur restando un’opzione praticabile, non credo riesca a farsi carico della radicale pluralità che è una delle novità sostanziali della poesia del nostro tempo[17]. Non si tratta solo di aumentare il numero degli autori e dei testi selezionati. La forma antologica classica pone comunque al centro un canone di scrittori e la loro parabola autoriale che si staglia su di un fondo che resta implicito, sottratto alla vista del lettore. Mi sono domandato se non si potesse tentare un approccio completamente diverso e trattare l’antologia come un esperimento letterario, concedendo al curatore una libertà sugli assi fondamentali di cui è costituito.

 

Dinanzi alla natura proteiforme della poesia contemporanea, ho sentito l’esigenza di una metafora diversa per direzionare il mio lavoro. Non più la metafora teatrale, ma quella panoramica: non volevo ricostruire la scena della poesia, nel teatro immaginario della letteratura, dove pochi volti sono illuminati, di volta in volta, da un occhio di bue. Piuttosto, intendevo rappresentare la poesia contemporanea come un paesaggio. Questa metafora mi è sembrata maggiormente adatta per dare figura a quello che percepivo non più come un catalogo di autori eroici e delle loro gesta librarie (magari in guerra fra loro), ma come una molteplicità selvatica e dialogante di scritture: un ecosistema, dove forme diverse erano nondimeno in contatto perché coesistenti nella medesima nicchia ecologica. Più di un secolo fa, già Georg Simmel in Filosofia del paesaggio, traccia un legame strettissimo fra l’esperienza del paesaggio e la poesia[18]. Innanzitutto – sostiene il filosofo –, perché vi sia paesaggio, ci dev’essere un punto di vista preciso e una delimitazione dell’orizzonte. Al contempo, però, in ogni punto dove lo sguardo cada, vi dev’essere la percezione di quella «totalità assoluta della natura che continua a sussistere a un altro livello, al di sotto del paesaggio». Simmel la definisce anche come «un’oscura consapevolezza di quell’infinito inerirsi di ogni cosa». Questa esperienza è simile a quella che ci accade quando leggiamo una poesia: la percezione della forma e la particolare atmosfera che veicola sono un tutt’uno, ciascuna essendo causa ed effetto dell’altra, in una circolazione unica e peculiare, nella quale non si può assegnare la priorità a nessuno degli elementi in gioco e che continuamente fa appello ad una dimensione di sfondo che non è riducibile mai alla mera somma degli elementi rappresentati.

 

Seguendo queste suggestioni, ho costruito una narrazione della poesia contemporanea che mettesse al centro di ogni attenzione il testo di poesia, inteso come dettaglio di un vasto panorama di scritture. In un’epoca di forte concettualizzazione dell’arte e, all’opposto, di asfissiante narcisismo, in cui sempre più la spiegazione razionale di un’opera e le informazioni sul contesto o la personalità dell’autore e le sue emanazioni si sovrappongono all’incontro fra il lettore e la poesia, mi è sembrato plausibile cercare un modo per riportare il testo al centro dell’attenzione: nelle sue caratteristiche formali, nella sua integralità, nella sua nudità. Mi interessa preservare la lettura come ipotesi di zona franca, in cui l’incontro fra il lettore e quella singola realizzazione poetica possa emergere pienamente, carico di tutti i pregiudizi e i preconcetti che ci portiamo dietro, ma anche, dall’altro lato, di una forza frontale che non abolisca il trauma, la dimensione oscura e potentemente spiazzante, che la lingua della poesia porta con sé fra le sue virtù, dall’inizio dell’epoca moderna e non solo.

 

Per fare questo è evidente che ho dovuto mutare radicalmente i rapporti fra autore e testo. Mi chiedo se davvero nel modo in cui fruiamo la poesia contemporanea, mediante questa interconnessa moltiplicazione di schermi, secondo molteplici account e avatar, la funzione autore e quella generazionale siano ancora così importanti; e se ancora lo sono, cosa succederebbe se fossero disinnescate temporaneamente?

[…]

Nelle pagine che seguiranno, ho provato a dare forma a una narrazione della poesia contemporanea in cui la funzione autore non è più la soluzione di continuità fra una sezione e un’altra. Ho diviso allora l’arco di tempo che ci separa dagli anni Settanta in cinque sequenze, una per ciascun decennio (1971-1979, 1980-1989, 1990-1999, 2000-2009, 2010-2021), all’interno delle quali, disposti secondo la cronologia di pubblicazione, troverete per ogni anno – e liberamente ordinate da me – le poesie che mi sono sembrate più significative tra quelle edite nel periodo di riferimento.

 

Note

 

[1] Uno scrittore francese contemporaneo, Jean Marie Gleize, una ventina d’anni fa ha scritto: «la poesia preferirebbe essere il contrario di ciò che pensi, sempre il contrario, e anche se sarebbe semplicemente l’opposto, la sua definizione più semplice sarebbe essere l’opposto». Si veda Jean Marie Gleize, La poesie n’est pas une solution in Les chiens noirs de la prose, Éditions du Seuil, Paris, 1999, p. 15: «non, la poésie, encore elle, n’est pas du tout ce que vous croyez, d’ailleurs pour commencer il ne s’agit pas de croire, la poésie n’a pas lieu de se réjouir de ce que vous croyez et encore moins de ce que vous croyez croire, la poésie serait plutôt le contraire de ce que vous pensez, toujours le contraire, et même elle serait tout simplement le contraire, sa définition la plus simple serait d’être le contraire […]».

[2] Ingeborg Bachman, Letteratura come utopia. Lezioni di Francoforte (1969), Adelphi, Milano, 2011, p.110: «Con la forza che le viene da tutte le età, essa preme contro di noi, contro la soglia del tempo sulla quale noi sostiamo, e avanzando armata di tutte le sue profonde conoscenze, le antiche e le nuove, ci fa intendere che nessuna delle sue opere è datata e nessuna può essere resa inoffensiva, perché esse contengono tutti quei presupposti che si sottraggono a ogni accordo e catalogazione definitivi. Questi presupposti insiti nelle opere stesse vorrei provare a definirli presupposti “utopici”».

[3] Stephane Mallarmé, Crisi di verso, in Id., Poesie e prose, testo francese a fronte, V. Ramacciotti (ed.), Garzanti, Milano 1992, p. 285: «La littérature ici subit une exquise crise, fondamentale».

[4] Ivi, p. 299.

[5] Mario Benedetti, Tersa morte, Mondadori, Milano, 2013: «E piange la parola che riesce a dire».

[6] Franco Fortini, Le mani di Radek, in Verifica dei poteri (1965), Einaudi, Torino, 1989, p. 95.

[7] Sono parole di Nanni Balestrini, da Linguaggio e opposizione, apparso in «La Fiera letteraria», 3 ottobre 1960, poi in I Novissimi. Poesie per gli anni ’60, a cura di Alfredo Giuliani, Rusconi e Paolazzi, Milano, 1961; ora in Gruppo 63, L’Antologia a cura di Nanni Balestrini e Alfredo Giuliani, Critica e teoria a cura di Renato Barilli e Angelo Guglielmi, Bompiani, Milano, 2013.

[8] È una frase estratta dal commento che Mario Benedetti dedica ad una poesia di Milo De Angelis, Luci di una malattia, in Terra del viso, Mondadori, Milano, 1978. I versi di Milo De Angelis sono: «[…] ogni molecola/ accoglie il male/ di una scheggia, confine/ piantato dentro l’addome – sola/ ma non orfana – perché scenda/ questo urlo ossidato.» Per il commento si veda: Mario Benedetti, Dinanzi al nulla, su Terra del viso, De Angelis, in «Scarto minimo», n. 0, pp. 25-26, novembre 1986.

[9] Amelia Rosselli, da Documento, Garzanti, Milano, 1976.

[10] Si veda Guido Mazzoni, Sulla storia sociale della poesia contemporanea in Italia, in «Ticontre. Teoria Testo Traduzione», N. 8 (2017), p. 13.

[11] Si veda Andrea Afribo, Aspetti e tendenze della poesia italiana dal 1970 ad oggi, in Poesia italiana postrema, Carocci, Roma, p. 14. Annus mirabilis per l’incredibile qualità dei libri editi in quell’anno. Su questo anche Berardinelli, Casi critici, Quodolibet, Macerata 2007, p. 11, ma anche p. 307: «perché davvero gli autori emersi dagli anni settanta in poi appartenevano non solo a un’altra storia, a un diverso Novecento, ma apparivano in sostanza ed evidentemente inconfrontabili, per statuto letterario e storico, con gli scrittori venuti prima.»

[12] Giancarlo Alfano et alii, Parola plurale, Luca Sossella Editore, Roma 2005. Ivi, p. 7.

[13] Effetti di deriva in Alfonso Berardinelli e Franco Cordelli, Il pubblico della poesia, Lerici, 1975; poi anche in L. Anceschi, Variazione su alcuni equilibri della poesia che san di essere precari, in «Il Verri», 1, 1976, pp. 5- 20.

[14] Alfonso Berardinelli, Il pubblico della poesia trent’anni dopo, Castelvecchi Editore, Roma, 2004, pp. 229-230.

[15] Per uno sguardo generale sul problema, si legga Filippo Milani, Rete (1993-2013), in Poesia e storia, a cura di N. Lorenzini e S. Colangelo, Milano, Mondadori, 2013, pp. 307-325; e Id., Interferenze informatiche nella poesia italiana contemporanea, in Id. «Between» IV (2014), 8, http://ojs.unica.it/index.php/between/article/viewFile/1318/1119.

[16] Alberto Casadei, Biologia della letteratura, il Saggiatore, Milano, 2018, p. 188: « Non si tratta più quindi della semplice connessione punto a punto di singoli computer, ancora miracolosa negli anni Ottanta del XX secolo; né di una costruzione a rete con maglie sempre più fitte (e comprensiva degli aspetti nascosti-rizomatici); bensì di una momentanea giustapposizione di elementi da salvaguardare rispetto alla richiesta di una significatività immediata, che poi andranno soggetti ad una continua ricollocazione, come particelle subatomiche. Da questo punto di vista si sta ormai generalmente generando una condizione mediale inedita che cominciamo a definire Cloud, intesa come l’insieme di tutte le informazioni in cui siamo immersi.» Più oltre, ivi, p. 189: «Se in una rete gli incontri e le sinapsi, anche casuali e fulminee, son limitati da rapporti di prossimità, in un ambiente estremamente mobile e riconfigurabile come una nuvola le connessioni imprevedibili sono più frequenti e realizzano in effetti la potenziale compresenza di tutti gli oggetti disponibili.»

[17] Importanti eccezioni a cui abbiamo guardato con profondo interesse sono l’antologia a cura di Antonio Porta, La poesia degli anni Settanta Feltrinelli, Milano, 1979 e quella a cura di Alberto Bertoni, Trent’anni di Novecento, Book Editore, Castel Maggiore, 2005. Per una discussione più approfondita su questi modelli, rimando al mio: Al lavoro per un’antologia. alcune riflessioni di sfondo e di metodo, in «Polisemie», III, 2022, in particolare pp. 26-31, consultabile al seguente indirizzo: https://doi.org/10.31273/polisemie.v3.822. Per una rassegna delle antologie degli ultimi decenni, si veda anche Claudia Crocco, Le antologie di poesia italiana nel XXI secolo, in «Enthymema», XVII 2017, pp. 60-78.

[18] Il celebre saggio è stato edito la prima volta nel 1913: Philosophie der Landschaft, in «Die Güldenkammer. Eine bremische Monatsschrift», III (1913), n. 2, pp. 635-44. Ora è leggibile in Georg Simmel, Stile moderno, a cura di Barbara Carnevali, Einaudi, Torino, 2020, pp. 329-34. Lo studioso Paolo D’Angelo a proposito di questo saggio di Simmel scrive: «Sappiamo all’incirca quando è nata la parola ‘paesaggio’, ma certo non chi l’ha inventata. Invece sappiamo con precisione quando è nata la filosofia del paesaggio, e chi l’ha inventata. È stato Georg Simmel (1858-1918), filosofo e sociologo, con una serie di scritti a cavallo tra l’Ottocento e il Novecento, culminanti in un saggio del 1912 che reca appunto questo titolo, Filosofia del paesaggio.»; si veda Idem, Georg Simmel e la nascita della filosofia del paesaggio, in Il paesaggio. Teorie, storie, luoghi, Editori Laterza, Bari, 2021.

10 thoughts on “Poesie dell’Italia contemporanea 1971-2021

  1. Visto che al Saggiatore piacciono questi libri-mappa sulla poesia contemporanea e valutano proposte di saggistica come da loro sito web, mi permetto di suggerire una traccia a studiosi critico-quantitativi in cerca di motivo, per ulteriore passo avanti nel discorso. Ipotizzando un quadrante con Frasca (lingua) a ovest, De Angelis (ispirazione) a nord, Catalano (non-lingua) a est e Arminio (non-ispirazione) a sud, si collochino di conseguenza e su evenienze testuali metodologicamente presentate un numero di, diciamo ad esempio, cento poeti contemporanei, considerando per un ognuno un campione rappresentativo di, diciamo ad esempio, cinquecento versi riconosciuti e validati. Avremmo a questo modo un riferimento meno qualitativo o pre-testuale della Mappa di Pugno e meno soggettivo o particolare di questa Narrazione di Di Dio.

  2. “mi permetto di suggerire ” (Il fu GiusCo)

    Non suggerire, fa’ (se puoi). Chi fa da sé fa per tre ( ancora oggi o sopratutto oggi, purtroppo).

  3. Il commento di IlFuGiusCo è divertente nella sua provocazione, ma ben più affetto dal soggettivismo che si rimprovera a questa proposta, che invece mi sembra molto attenta a individuare criteri in dialogo con la situazione attuale della poesia e delle sue possibilità di ricezione. Interessante lo svincolamento dall’autore a favore del testo. Lasciamo parlare le cose. Promette bene, viene da leggerla.

  4. Ennio! Qualcosina feci e sto facendo, parzialmente nel senso di Debora “individuare criteri in dialogo con la situazione attuale della poesia e delle sue possibilità di ricezione” e in quello di Di Dio “le poesie che mi sono sembrate più significative tra quelle edite nel periodo di riferimento”, cercando di scansare il pensiero magico che vorrebbe tutte le poesie auto-evidenti e l’effetto confusi & felici comunitario che si trova nel generico brodo poetico. Stammi bene, ciao.

  5. Chiedo a Il fu GiusCO e a Debora se ho ben capito: “individuare criteri in dialogo ” significa il tentativo di perimetrare la molteplice poesia di questi anni? individuarne radici e traiettorie? “le sue possibilità di ricezione” significa attenzione ai principi della neuroestetica? “le poesie che mi sono sembrate più significative” significa squadernarle senza criterio alcuno se non quello personale e lasciarle in un ” generico brodo poetico”? Grazie per un chiarimento

  6. Paola: ricezione intesa oggi come pratica aggregante, volutamente non complessa e quindi non divisiva. Attitudine da non biasimare se la poesia diventa un bene-rifugio, un orto botanico nel quale disporsi con fiducia nell’incontro di persone un minimo piu’ aggraziate della media. Certo, siamo al grado zero della verticalita’, ma i libri di poesia considerati salienti negli ultimi anni provano a mettere in forma quello, come immagino verra’ fuori dalla ricostruzione dell’ottimo Di Dio. Saluti.

  7. Buongiorno,
    I criteri della scelta non riesco a capirli. Potrebbe l’autore spiegare? Così, a leggere una parte dell’introduzione, al di là delle solite citazioni franco-culturali, non trovo nulla di scientifico. Non sarebbe stato più corretto parlare allora di un’antologia personale, smagrendo l’idea originaria forse non riuscita a pieno. Una scelta di poesia di Di Dio? Non vedo l’interesse dell’evento.

  8. Della possibile arbitrarietà e rischi delle scelte di chi cura un’antologia ne è pienamente consapevole l’autore: rinvio a un suo articolo molto approfondito in Polisemie ( leggibile qui http://www.tommasodidio.it/wp-content/uploads/2022/09/prima-pagina-lavoro-antologia.jpg – o anche dal sito dell’autore, http://www.tommasodidio.it/ ), in cui ci sono le spiegazioni richieste da Giacometti.
    Trovo inoltre rilevante quanto detto da IlFuGiusCo: “…scansare il pensiero magico che vorrebbe tutte le poesie auto-evidenti e l’effetto confusi & felici comunitario che si trova nel generico brodo poetico” – è proprio il problema da cui parte Di Dio, e, se vogliamo, il rischio…. ma, del resto, non è proprio in quel “brodo” che viviamo?
    Sarà da leggere l’antologia per valutarne gli esiti.

    Estrapolo alcuni passi dell’articolo (che vanno però letti in quel contesto) che mi sembrano riflessioni interessanti, problematizzano anche l’idea del “non trovo nulla di scientifico” e pongono interrogativi su cui c’è da discutere.

    “Quando mi hanno proposto di lavorare sul genere antologia, mi sono subito posto la questione della forma. Mi sono immediatamente domandato se non si possa tentare un approccio diverso al genere e trattare l’ antologia come un genere letterario, concedendo al compilatore una libertà creativa sugli assi fondamentali di cui è costituito, che di solito non è assegnata al critico, ma allo scrittore sì.
    Mi chiedevo perché non si potesse tentare con l’antologia quanto è stato fatto lungo il
    Novecento con il saggio, che è ormai diventato un genere d’arte a sé, anzi sempre più ibridato con la fiction tanto da esso non più distinguibile. (…)
    Ho provato allora ad immaginare una forma antologica inedita, in cui la funzione autore non fosse più la soluzione di continuità fra una sezione e un’altra. Proviamo ad immaginare: come se i testi delle poesie scelte si snodassero dal 1971 fino al 2021 senza interruzione; o meglio, con la sola interruzione dei decenni. È come se la lingua della poesia italiana, intesa quasi come un essere vivente e metamorfosante, ad ogni pagina trovasse una sua forma – stazione concreta, incarnandosi in una forma – testo particolare, tratta appunto dai libri notevoli editi in quell’anno. Quale effetto di lettura poteva dar luogo? Quale scarto nella percezione della poesia? Forse – mi dico –questa forma può dare accesso ad una diversa comprensione della lingua della poesia degli ultimi cinquant’anni, che non fosse in contrasto con la tradizionale forma antologica, ma sicuramente in concomitanza dialogica: che mostrasse un lato della vitalità della poesia che non era stato ancora adeguatamente enfatizzato. (…)
    Naturalmente, l’impostazione che si sta immaginando presenta anche diversi svantaggi, rischi e distorsioni: essere il solo curatore condurrà inevitabilmente ad una certa arbitrarietà nella scelta dei testi… Sicuramente, come possibile antidoto, sarà importante che il curatore sia pronto a chiedere continuamente consigli e conferme ad altri lettori esperti (poeti e ricercatori) che lo aiutino a mediare la propria percezione con quella di chi è più coinvolto in una determinata area di scrittura.
    Se in questo modo non verrà mai meno il rischio di autarchia del curatore, al quale del resto sarà attribuita nel bene e nel male la responsabilità della scelta, esso sarà nondimeno contemperato dagli apporti di esperti esterni che in qualche modo vigileranno sulle scelte del curatore, al fine di rendere meno autoreferenziali e così più rappresentative le sue decisioni.Inoltre, il sapersi il solo responsabile della cura della scelta dovrebbe rendere il curatore assai più guardingo: non potrà in nessun caso derogare ad altri la responsabilità delle proprie scelte. Rafforzando la responsabilità del curatore, paradossalmente, si rafforza anche la necessità di scelte che non siano del tutto arbitrarie. (…)
    Facciamoci una domanda scomoda: cosa significa, infatti, leggere un testo di poesia? Per leggere un testo di poesia è necessario sempre essere in possesso di un avanzato armamentario critico? Si può accettare l’occasione di un confronto con un testo che non abbia sempre prima di sé un’avanzata teoria costruita, un formale pregiudizio estetico, una sorta di strada già assegnata? (…)
    ll testo della poesia deve essere sottratto ad ogni facile riduzione e così non deve mai apparire risolto una volta per tutte dal gesto critico, così come dal gesto antologico, ma
    deve mantenersi come potenzialità, possibilità di risuonare sempre altrimenti: è di questa forza che l’antologia deve essere propagatrice.”

  9. “Ho diviso allora l’arco di tempo che ci separa dagli anni Settanta in cinque sequenze, una per ciascun decennio (1971-1979, 1980-1989, 1990-1999, 2000-2009, 2010-2021), all’interno delle quali, disposti secondo la cronologia di pubblicazione, troverete per ogni anno – e liberamente ordinate da me – le poesie che mi sono sembrate più significative tra quelle edite nel periodo di riferimento.” (Di Dio)
    *
    Mi colpisce il soggettivismo rivendicato nel finale (“e liberamente ordinate da me”, ” che mi sono sembrate più significative”). Vengono in mente brutti ricordi (Loi Franco e Davide Rondoni, Il pensiero dominante Poesia Italiana 1970 – 2000 Garzanti). Ma non ho letto il libro e per il momento mi fermo qui.

  10. Debora: “è proprio il problema da cui parte Di Dio, e, se vogliamo, il rischio…. ma, del resto, non è proprio in quel “brodo” che viviamo?”… beh, a chi non segue, vive o lavora dentro queste faccende 24/7, basterebbe magari un selected di dieci, venti o anche cinquanta poesie opportunamente commentato, invece che un tomone da mille+ pagine? Il Gennari de Le poesie che amo del 1998 (con audiocassetta inclusa!) ha fatto felici molti lettori occasionali, al tempo… e senza brodo! Saluti.

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