di Luca Piantoni

 

Appunti e spunti, cioè a dire l’incompiuto, l’analitico, il manchevole, ma insieme anche la forma, la visione, il progetto: possibilità connesse ad un orizzonte di significati che la prassi dischiude, tra errori ed azioni efficaci, al complesso delle prove verificate e nuovamente sollecitate dal suo stesso fare. È in questa prospettiva di ricerca che si pone fin dal titolo Educare al testo letterario. Appunti e spunti per la scuola primaria (Mondadori Università, 2022, pp. 270), libro che Matteo Giancotti ha pensato per chi voglia trovare nell’insegnamento della letteratura anche un «punto di incontro e di comunicazione tra le generazioni». Punto labile ed incerto, come quello che ogni relazione determina nella convergenza provvisoria di forze giammai presupposte, sibbene scaturite nell’atto del suo costituirsi come tale. O può darsi contatto senza che le parti coinvolte differiscano l’un l’altra, ciascuna rinviando a quell’oltre avanti il quale essa torna nuovamente ridefinita a sé? In ambito didattico, è questa un’antica verità del rapporto paideutico che il cumulo degli odierni tecnicismi, dietro ai quali sta forse il timore di esporsi ad una viva e diretta scambievolezza con gli alunni, sembra aver reso ancor più irriconoscibile.

 

Non però in questo libro, al cui spirito è invece conforme l’idea che insegnare sia anzitutto un fare che produce esperienza, mentre l’etimo di esperienza sgombra ogni equivoco sulla direzione percorsa da chi sa farne memoria. Per l’insegnante la direzione è orientata alla classe, luogo eminente dell’inatteso e dell’ignoto: saprà educare oltre che istruire? Aristotele non dubiterebbe: sì, se l’agire didattico trasforma l’ignoto in una condizione di possibilità, rivelando ciò che già appartiene ai ragazzi ma che non si conosce finché non si mostra «in azione»; no, se quell’agire cade al di fuori di essi e non opera sulle potenzialità che al contrario dovrebbe promuovere (Met. 1050a 15-23). Perciò i due verbi greci perao e peirao, che la comune radice combina in esperienza e che significano, l’uno ‘muoversi a traverso, passare da parte a parte’, il secondo ‘provare, cercare di’, suggeriscono insieme un movimento che volge dal noto al non ancora esplorato, nel tentativo di penetrarvi a fondo.

 

Ecco, insegnare è questo cimentare gli studenti in prove alle quali si è al contempo sottoposti, sicché il docente onesto e curioso (i.e. che ha cura) sa bene che la risposta dell’allievo in primo luogo valuta il maestro, e che l’esperienza non sedimenta in un deposito inerte ma consegue da una memoria intuitiva e sempre arrischiata, sempre proiettata sull’inatteso. Questo libro lo dimostra con esempi ed ipotesi di lavoro maturati dall’autore negli anni del precariato accademico e scolastico, quando combinare le due cattedre comporta, non di sospendere gli studi, ancorché distanti all’apparenza, ma di verificarne il percorso con altre forme. Lo si evince sin dai primi due capitoli, che insieme rivelano il principio strutturante del libro. Nel primo, l’esempio cade su Pascoli e incrocia quel tanto di esperienza e di imprevisto da trasformare «una bella grana» in «un momento di interazione autentica, a margine – sulla soglia – di un testo». Qui si allude alla «didattica d’emergenza», cioè alla situazione di chi prenda servizio a scuola da un momento all’altro, magari convocato «alle 7.30, per una supplenza di un giorno, con inizio alle 8.20». Nel secondo si parla invece di «competenze implicite», ossia della preparazione culturale del docente, quella che «non necessariamente emerge nella parola e nel gesto dell’insegnante, ma che tuttavia costituisce il fondamento del suo agire». Come i due capitoli siano correlati si deduce dal brano che riporto e che riassume la dinamica di un episodio al quale Giancotti dà un chiaro valore di exemplum:

 

«Mentre provo a tenere in piedi, in quell’equilibrio precario, la prima ora di quella mia supplenza di un giorno, quel contatto instabile con venti bambini/ragazzi che vedrò per quelle tre ore e mai più nella vita, un dubbio lavora in sottofondo nella mente. Il titolo della poesia è Neve. Non mi dice niente. Pascoli ha scritto una poesia che si chiama Neve? Neve e basta, così, schietto schietto? Non mi torna, ma non ho certo a disposizione l’edizione critica di Myricae o il «Meridiano» Mondadori curato da Garboli per controllare… E la memoria non mi aiuta a orientarmi; oltretutto sono un po’ teso perché ho anche altro da fare – tenere d’occhio i ragazzi – e così la memoria lavora male. In questa situazione di incertezza, un bambino alza la mano. “Sì?”. “Ma dov’è la mamma?”».

 

Il resto è lezione. Si torni però alla domanda del bambino, che allude al testo e non al proprio genitore, visto che nel testo non appare «la mamma» accanto alla culla bensì una «una vecchia», figura senz’altro enigmatica in assenza del titolo corretto che è Orfano, non Neve («certo, c’è anche la neve; ma quella poesia non parla di neve»). Se per un verso l’episodio dimostra che il bambino non è mai così «tonto» come suggerisce «un’idea meno che dimidiata dell’infanzia e dell’adolescenza» – idea anche più estesa, soltanto che si pensi al presupposto operante e nel mercato della manualistica in genere e negli schemi didattici che per lo più ne dipendono, per un altro evidenzia quel rapporto tra memoria ed esperienza che è alla base del libro e degli esempi di cui si ragiona. Perché nel libro anzitutto si ragiona con i testi, mostrando che le competenze letterarie di un insegnante sono parte fondamentale di una cultura attiva, in movimento, capace di accogliere o provocare l’inatteso a seconda degli eventi o degli interessi destati, e con ciò d’interpretarne il significato per mediarlo attraverso gli strumenti di cui si dispone. Come dunque scrive Giancotti, parlando dell’episodio in particolare e dell’incontro con il testo in senso lato, l’esegesi ha luogo tra «mille possibili scoperte e mille possibili fraintendimenti», ma è solo l’abilità dell’interprete a comprendere in quale situazione egli si trovi, sicché da lui anche dipende se archiviare come ingenua una domanda che soltanto all’apparenza lo è, od includerla invece in un sistema di ulteriori approfondimenti. Va da sé che nel primo di questi due casi, che è quello del docente impreparato, disattento o indifferente, non sarebbe stato possibile intendere, né dunque gratificare, la richiesta di quell’alunno la cui sensibilità «aveva imboccato direttamente, senza saperlo, la strada dell’ermeneutica».

 

Strada ben percorsa nel libro, come prova il ricco e variegato corpus testuale sul quale si appunta l’attenzione critica ed esplicativa dell’autore. Si consideri questa volta, tra gli esempi che ho sperimentato personalmente in una classe seconda di un istituto superiore, la poesia di Sandro Penna Il mare è tutto azzurro, che appare nella sezione antologica ed è corredata, come gli altri testi, di un’introduzione analitica e di un riquadro contenente una specifica attività da proporre a scuola. La riporto nella sua brevità, che per certi versi ricorda la forma di un haiku: «Il mare è tutto azzurro. / Il mare è tutto calmo. / Nel cuore è quasi un urlo / di gioia. E tutto è calmo». Seguendo il discorso di Giancotti, che tuttavia ho adattato alle mie esigenze, con essa ho potuto illustrare una metodica e lavorare progressivamente su più fronti, distinguendo la raccolta dei dati dalla loro successiva interpretazione. Nella ricerca di un equilibrio tra spiegazione e interazione con la classe, principio sostenuto a più riprese nel libro, ho innanzitutto proceduto ad esaminare a sé ciascun elemento di quelli indicati nel volume, suddividendo l’insieme in base alle seguenti categorie: (1) lessicale, limitata in prima istanza alla struttura puramente visiva dello scritto, giacché un testo è come un quadro che «parla anche all’occhio» (E. Raimondi, Poesia come retorica, 1980) e l’occhio dei ragazzi, gravemente assuefatto alla ricezione passiva dei social media, ha un bisogno urgente di essere allenato o meglio disincantato; (2) grammaticale, col ripetersi della parola tutto prima nella funzione di aggettivo e poi di pronome; (3) sintattica, centrata sui costituenti frasali dei primi due versi e quindi sul parallelismo rispetto agli altri due; (4) metrico-sintattica, che individua nell’enjambement la ragione formale dello scarto rispetto alla precedente simmetria; (5) ritmica, per cui l’uniformità dello schema accentuativo è in frizione con la diversa velocità di lettura che dipende, nel penultimo verso, dalla forte inarcatura sul sintagma preposizionale in rejet, nell’ultimo, in virtù del punto fermo tra i due emistichi.

 

In questa prima fase del lavoro la comprensione della struttura profonda è stata deliberatamente preparata ma non esplicitata, poiché il testo di Penna, che «si presta ad approcci di complessità crescente», ha servito nel contempo altre funzioni didattiche, di consolidamento o assimilazione di competenze già acquisite, ancora incerte o al tutto nuove: dal riconoscimento delle parti del discorso al computo sillabico e ad altre nozioni di carattere metrico e retorico. Soprattutto, però, ha dato spazio ad un esercizio di osservazione, ed in tal senso si è voluto recepire il significato se vogliamo anche etico della scelta di Giancotti, che infatti ammonisce sul rischio di sottovalutare «l’apparenza naïve» della poesia «e di non ‘vederla’ neppure». Solo in un secondo tempo si è riflettuto, dati conquistati alla mano, sulle unità semantiche e sul rapporto organico delle singole componenti con l’insieme, sicché lo studente che ha attribuito al pronome il valore onnicomprensivo che di fatto riveste («a differenza degli aggettivi rimanda a una realtà più vasta», per citarlo alla lettera) ha colto nel segno da nient’altro guidato se non dalla tabula presentiae che lui stesso, con la sua sensibilità, ha saputo ben interpretare. A questo punto, il varco per un attraversamento del testo a più ampie latitudini discorsive è aperto, e ancora una volta saranno le «competenze implicite o sommerse» a stimolare nei lettori più giovani l’impressione di trovarsi di fronte a qualcosa di «vivo ed esistente»; qualcosa che ci riguarda e che l’insegnamento non deprime «in un accumulo superficiale di nozioni improduttive» e di «pacchetti» destinati a riproporre, come direbbe Althusser, l’ennesimo dei savoir-faire, ossia l’ennesima delle «cose da dire» o «da fare», magari sotto forma di schede, unità di apprendimento od altre pseudo-innovazioni didattiche più o meno prostituite (il termine è di Ceronetti) al pedagogismo anglosonante dei tempi correnti.

 

Ma attenzione. Il disappunto emergente contro «il circolo vizioso della ripetitività e del nozionismo» non significa affatto, nella prospettiva dell’autore, sminuire il valore strumentale delle conoscenze. Ciò che invece s’intende affermare, e lo si fa col supporto indiretto di una tradizione molto antica, è l’importanza didattico-pedagogica della persuasione nel senso più nobile della paideia. I luoghi del libro in cui si ragiona di «gusto» e di «personalità» sono infatti decisivi per chi voglia insegnare e non soltanto istruire: «educare il gusto» a partire dalle «proprie letture», «costruendo nel tempo una propria antologia», e quindi scegliere i testi «più interessanti e belli» affinché la classe partecipi di un atteggiamento in primo luogo «morale ed intellettuale», equivale, sotto questo profilo, ad insegnare «con la personalità». Giancotti lo esprime molto bene in questo passo di evidente reminiscenza zanzottiana, che in più riepiloga alcuni dei concetti sinora affiorati: «l’insegnante è sempre un interprete. Essere interpreti significa sentirsi attratti da un testo e chiedersene la ragione […] Chi si lascia prendere dalla curiosità e inizia un percorso di avvicinamento al testo finirà sempre per sapere qualcosa in più su come quel testo funziona. Questo primo incremento di consapevolezza, per l’insegnante, è qualcosa di molto importante e fruttuoso, perché aiuta a trasmettere. Trasmettere cosa? Non contenuti, ma interesse. L’educazione letteraria di base (e forse non solo quella di base) può funzionare solo per contagio: si cerca di estendere ai bambini qualcosa che ha colpito in primo luogo noi docenti. Ma se non siamo ‘contagiati’, nulla potrà iniziare».

 

Il senso è chiaro, né la sua validità può ridursi al campo applicativo della scuola primaria, come sembra, peraltro, suggerire lo stesso sottotitolo dell’opera, il cui unico difetto è di offuscare in tal modo la più ampia destinazione che merita e alla quale è invero rivolta. Eppure basterebbe leggere la quarta di copertina per trovare una significativa correzione al programma: il libro è indirizzato ai «futuri ed attuali insegnanti della scuola (primaria, ma non solo)», e se ancora non fosse sufficiente il canone degli autori rappresentati, anche solo dal punto di vista metodologico il capitolo dedicato a Primo Levi e alla Shoah dovrebbe interessare «soprattutto i docenti della secondaria». Anche in questo caso si tratta pertanto di curiosità, giacché il collega delle scuole superiori che si fermi alla soglia del titolo è forse il medesimo che, per analoghe e maldestre ragioni di settorialità, presume di non aver nulla da imparare da ‘maestri’ come Rodari, Lodi, Pasolini o Zanzotto, nessuno dei quali ha mai insegnato in un liceo; senza contare, come si ricorda nella premessa al volume, la «pedagogia dei non pedagogisti» di cui parla Tullio De Mauro nella nota introduttiva alla più recente edizione dei Fiori italiani di Luigi Meneghello, un brano del quale è oltretutto antologizzato.

 

È infatti una questione di metodo e di apertura al possibile, non di asfittica pertinenza a corridoi presolcati, come quelli che abituano ad un concetto di «cultura come cosa già organizzata» e impigriscono nella forma, così dura a morire, del «programma-contratto», per ricordare Mario Lodi (Lettere a Katia, 1978) che alludeva al peggiore statalismo della classe docente: quello, per intenderci, che ingenera i più grotteschi e per certi versi comprensibili e verificabili loci communes sugli insegnanti. Che si ragioni, come si fa in queste pagine, della Montagna incantata di Thomas Mann o delle poesie di Sandro Penna, della prosa di Primo Levi o degli haiku di Bashō, della saggistica di Garboli o delle favole di Leonini, o ancora di Valeri, Ungaretti, Zanzotto, Meneghello o Trevisan; o che si prendano in esame serie TV e videogiochi anche violenti come Squid Game e GTA, l’approccio che Giancotti propone è sempre interpretativo, cioè sempre esposto, per dirla con Barthes, nume tutelare del libro, a quelle «coesistenze di senso» che strutturano il linguaggio simbolico del testo sul quale si è chiamati a decidere.

 

Questo spiega l’attenzione rivolta non soltanto alla letteratura in senso stretto, ma anche alle «cosiddette sottoculture» che ormai nutrono l’immaginario dei ragazzi e che la scuola, come più in generale il mondo degli adulti, non sa o non vuole filtrare con i mezzi di un’autentica critica. Eppure si tratta di prodotti culturali che non soltanto esercitano una forte presa sugli adolescenti, ma veicolano per giunta, ed in modo pressoché esclusivo, temi allettanti come il suicidio, la violenza o la pornografia, il cui dato finzionale è però, come invita ad osservare Giancotti, un dato costruito sulla base di categorie fondamentalmente letterarie, sicché le pagine che lo riguardano si prestano ad almeno due considerazioni. La prima è che i giovani, abbandonati ad un’insana «pressione del reale» e privi nel contempo di un adeguato contrappeso dialettico in termini d’immaginazione (ma sul rapporto di «realtà» ed «immaginazione», al centro degli interessi dell’autore, si affianchi l’importante W. Stevens, L’angelo necessario, 2000), cercano da sé le risposte e le emozioni che altrove non hanno, col risultato di «navigare nel deep web o comunque tra risorse che gli adulti considerano ‘vietate ai minori’», in un circuito perverso dal quale non si esce. Il secondo attiene agli strumenti della filologia, che sono tra i più adatti a rilevare, e dunque a disinnescare, la matrice mitopoietica sul quale si fonda l’ordine pur sempre linguistico di quelle narrazioni, di là da inoperosi allarmismi e raccomandazioni demagogiche di sorta.

 

È un argomento, questo, che il libro inscrive nella cura complessivamente prestata all’osservabile in quanto orizzonte di segni manifesti soltanto a chi sappia riconoscerli per tali («the evidence of things not seen», per dirla con Harold Bloom), e che viene svolto in particolare in un capitolo dal titolo eloquente: Un equivoco. Letteratura ai margini, immaginario letterario al centro. Certo, poiché se per un verso è innegabile che la letteratura nel suo aspetto istituzionale abbia perso di prestigio e di visibilità, per un altro essa agisce attraverso categorie dissimulate o depotenziate, ma comunque redivive e talvolta anche strategiche «in molte discipline scientifiche e pratiche sociali, dalla politica alla storiografia, dall’economia alla teoria dei media, dal marketing alle neuroscienze», per dirla con Federico Bertoni che Giancotti menziona con l’intento di ribadire l’esistenza di un problema aperto, se soltanto lo si prendesse sensatamente in carico e se la scuola sapesse organizzarsi alla luce di un’interdisciplinarità autentica e non di facciata.

 

Appunti e spunti, dunque, gli uni che annotano e gli altri che si offrono alla prova, testimoni di azioni efficaci fino a prova contraria. Il libro di Giancotti, si parva licet, è un libro ‘per tutti e per nessuno’, quindi non soltanto per gli insegnanti della scuola primaria. Libro di esperienza e di intenzioni, offre spunti preziosi e insieme pretenziosi, giacché il principio che lo informa è anche il medesimo che rivolge al lettore affinché possa esso stesso operare mostrandosi in azione. Del resto, se uno dei capitoli riguarda, in conformità di un’analogia ben nota alla retorica antica, il ruolo dell’insegnante come interprete in un senso anche istrionico della parola, gioverà allora ricordare che ‘spunto’ è voce d’ambito teatrale e denota il suggerimento fornito a chi sta recitando. Già, ma ora che la battuta è data, chi la riceve saprà anche declamarla?

 

[Questo testo è apparso su “Nuova Secondaria”, n. 7, marzo 2023, pp. 183-186]

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