di Sandro Abruzzese
Sono passati più di vent’anni anni da quando, studente universitario all’Università Federico II di Napoli, ricevetti come regalo di compleanno un abbonamento alla Curva A per il campionato di Serie A 2000-2001. Era il disastroso Napoli di Zdenek Zeman, che poi divenne il mediocre Napoli di Emiliano Mondonico. Quell’anno, col beneplacito del curioso tandem presidenziale Corbelli-Ferlaino, la squadra retrocesse in Serie B e la Roma di Totti e Del Vecchio vinse lo scudetto. Il fallimento era alle porte e ci sarebbero voluti molti anni per tornare a essere competitivi. Avrei imparato in seguito a diffidare del mondo del calcio, delle sue regole non scritte, dei suoi presidenti e calciatori, degli arbitri e del doping, delle tifoserie, ma questa è un’altra storia.
Oggi che il Napoli ha conquistato il suo terzo scudetto viene da chiedersi quali e quanti siano i significati di questo successo, se è giusto parlare di riscatto morale cittadino, e se è giusto che la riduzione mediatica dell’evento conduca al folclore e a conseguenti sedicenti quanto improvvisate analisi sociologiche sulla città e i suoi abitanti.
Insomma, è davvero soltanto un successo sportivo e nient’altro?
Lo sarebbe, forse, se non fossimo in Italia. E se non ci fosse la Questione italiana, fatta di intollerabili divari territoriali tra sud e nord del paese, basti dire che secondo il Sole24ore* il reddito pro capite di un napoletano è pari a circa 20 mila euro rispetto ai 33 mila di un milanese, e stiamo parlando di aree sviluppate, la forbice si allarga inesorabilmente nel confronto con le altre aree meridionali.
Napoli è dunque la capitale di un Meridione che in 170 anni non ha mai smesso di migrare, sviluppando, al pari di tutte le aree globali affette da spopolamento, un rapporto ambivalente con la modernità e la nazione. Se dunque nel discorso comprendiamo questa storia l’Italia, e se ci mettiamo la geografia, che dice che negli ultimi 22 anni, dallo scudetto della Roma, il tricolore non è mai sceso dalla linea pedemontana, la linea Torino-Milano, per intenderci, allora i significati dello scudetto del Napoli aumentano eccome.
Il Napoli Calcio è sì una società privata, di Aurelio De Laurentiis, il successo aziendale è suo, tuttavia il contesto, il brand, l’immaginario non è secondario nel costruire qualsiasi azienda, a maggior ragione nel calcio, dove il tifo produce un reale vantaggio psicologico nelle partite casalinghe, oltre a contribuire economicamente.
La vittoria del campionato porta con sé il dato che anche in quello che l’Istat definisce “(…) il territorio arretrato più esteso dell’area euro” è possibile organizzare, progettare, conseguire obiettivi razionali di medio e lungo periodo, di carattere nazionale e internazionale. Anche al sud, a dispetto delle difficoltà di lungo periodo, o nel breve della recrudescenza in seguito alla crisi pandemica, ebbene, si può costruire una realtà pienamente competitiva col resto d’Europa.
In questa prospettiva lo scudetto del Napoli dimostra che con le giuste capacità, risorse e preparazione, i risultati sarebbero possibili anche al di fuori dello sport, per esempio nelle istituzioni.
In un meridione endemicamente rachitico per quanto riguarda le istituzioni**; in un Sud in cui, grazie all’emigrazione giovanile, gli abitanti decrescono del 2% mentre al Nord gli abitanti crescono del 9,3%***, il successo del Napoli è sintomo di una relazione positiva tra tessuto economico e tessuto sociale, che mostra un altro volto della città all’esterno come all’interno.
A questo stato di cose, il Governo Meloni, come i predecessori, risponde riproponendo il progetto di Autonomia differenziata firmato dal ministro leghista per gli affari regionali Roberto Calderoli, ovvero l’attribuzione a una regione a statuto ordinario di autonomia legislativa sulle materie di competenza concorrente e in tre casi di materie di competenza esclusiva dello Stato. Progetto con cui si continua a cercare surrettiziamente di trattenere il gettito fiscale delle regioni ricche al Nord, per incrinare i meccanismi perequativi nazionali e con essi il concetto stesso di contribuzione e cittadinanza secondo la Costituzione italiana. Nel frattempo il ministro pugliese per gli affari europei, la coesione sociale e il Pnrr Raffaele Fitto dichiara che non sarà possibile utilizzare nei tempi previsti una parte consistente dei fondi PNRR, che sarebbero destinati per circa il 40% alla riduzioni dei divari di cittadinanza, quindi volto al finanziamento di riforme e interventi, anche esclusivi per le regioni del Sud.
Cornici e narrazioni
Eppure, nell’assistere ai servizi televisivi sui festeggiamenti della città, si avverte una rappresentazione orientalista di Napoli. Nei discorsi giornalistici si teme per i festeggiamenti proprio come se si trattasse di un luogo e di una popolazione sconosciuta e capace di chissà cosa. Posto che i tifosi organizzati del calcio in generale ci hanno abituato a fatti di cronaca molto gravi e inattesi a qualsiasi latitudine, il giorno dopo la vittoria matematica dello scudetto Rainews e Sky Tg24 puntualmente finiscono per associare un omicidio ai festeggiamenti cittadini. Il Prefetto si affretta a smentire, ma il gioco è fatto.
Non basta, nella narrazione dei significati simbolici per la città, ospiti in trasmissioni varie, partenopei e non, si lanciano in analisi sociologiche autopunitive che si faticherebbe a sentire in altri contesti, e che puntualmente, quasi inconsciamente, affiorano quando si parla di Meridione.
Non è solo sport? E non è soltanto uno scudetto? Oppure nei media e nell’opinione pubblica compare un riflesso condizionato nell’affrontare il successo della capitale del Mezzogiorno?
A trent’anni dall’uscita de La razza maledetta di Vito Teti (Manifestolibri), Carmine Conelli nel suo Il Rovescio della nazione (Tamu ed) risponde al pregiudizio antimeridionale evidenziando il problema della subalternità del Mezzogiorno, anche in termini di rappresentazione e narrazione, avendo cura di ricordare che “il rapporto di dipendenza che oggi lega il sud al nord del paese è il frutto (…) di strutture di classe preesistenti all’unificazione e delle successive scelte dei dirigenti politici, molti dei quali meridionali”. Se Il rovescio della nazione sposa la tesi della subalternità come prodotto del capitalismo, non dimentica che il problema è innanzitutto la disuguaglianza, lo sfruttamento di classe globale e locale, e che c’è pure, oltre al rapporto distorto col nord, soprattutto un sud che sfrutta il sud.
Identità
C’è poi, su Facebook, la foto che ritrae la Curva del Napoli mentre espone lo striscione con un enorme scudetto issato a testa in giù seguito dagli slogan “Bottino di guerra” e “Campioni in Italia”. Mi pare ci sia una diretta correlazione tra la rappresentazione mediatica orientalista di tv e giornali e i rigurgiti antinazionali della Curva. Lo scudetto revancista diventa un bottino. Laddove vi è un rapporto distorto, fatto di ambivalenze, forti contraddizioni, di conflitti e rimozioni, fanno capolino l’identitarismo, la reazione quasi etnica di rivalsa, da parte di chi è oggetto di una narrazione che spesso riduce e anzi conduce all’alterità. Succede che a un certo punto non solo l’alterità arriva, ma si riproduce nelle sue fattezze più reazionarie ed esclusive, all’orientalismo puntualmente risponde la balcanizzazione, a cui in tempi non sospetti, e con un’ironia e uno stile disarmanti, rispondeva Massimo Troisi in Ricomincio da tre attraverso il refrain che lo voleva, ogni volta che si diceva napoletano, additato dagli interlocutori quale migrante anziché turista. Anche nel film, dopo numerosi tentativi, alla fine l’autore rinuncia ad auto-rappresentarsi e accetta la distorsione e la soggezione allo sguardo altro.
Ma forse, sull’autorappresentazione, vale la pena di ricordare Eduardo De Filippo in Napoli milionaria, quando, alla leggenda che a Napoli scompaiono le navi dal porto, risponde che una nave è troppo grande per scomparire e, nel monologo che segue, individua proprio nella leggenda, nelle favole narrate sui napoletani, l’approccio che contribuisce all’immobilismo generale. Vi è qui un richiamo alla ragione che rimanda al rapporto violentemente troncato tra la città e l’illuminismo nel 1799, testimoniato dagli scritti di Vincenzo Cuoco e dall’affresco romanzesco di Enzo Striano ne Il resto di niente.
Napoletanità
Poco ci si è interrogati, inoltre, e non è questo lo spazio per farlo, sui danni derivanti al resto del sud dalla presenza di una città ingombrante e complessa come Napoli. Poco ci si interroga pure sul fatto che le regioni policentriche in Italia si sviluppino in maniera più equilibrata delle grandi città metropolitane. Gianfranco Viesti in Centri e periferie (Laterza) licenzia un corposo studio comparato che offre numerosi spunti per un cambio, o almeno una variazione di paradigma rispetto alle tante analisi prodotte sull’Italia e il Meridione. Insomma sarebbe auspicabile che i futuri studi sul Meridione intrecciassero il solco dell’economista Viesti.
Detto ciò, se Napoli è una città che, in ritardo rispetto ad altre realtà italiane, grazie all’esplosione dell’aeroporto e dei treni veloci, ha subito un repentino processo di gentrificazione dovuto all’arrivo del turismo di massa, occorre chiedersi ancora cosa spaventi l’opinione pubblica rispetto a questa città.
È la massiccia presenza di una criminalità organizzata? È, per dirla con Francesco Barbagallo, il potere della camorra?
Oppure è la conformazione sociale pressoché unica del suo centro storico in cui il sottoproletariato metropolitano, non essendo stato espulso dal centro storico come accaduto nelle altre capitali europee, coabita da sempre, anche se spesso in regime di separazione, con i ceti medi?
Mi pare che quest’ultimo sospetto sia corroborato dalle campagne televisive e giornalistiche d’odio contro la povertà in genere, dalla campagna denigratoria sul reddito di cittadinanza, a quelle xenofobe. Parafrasando gli Afterhours potremmo dire che non si esce vivi non dagli anni ’80, ma dagli anni del neoliberismo che ha inoculato a dovere i suoi germi lessicali e ideologici.
Nell’uno e nell’altro caso, il sintomo di questo rapporto distorto con l’Italia produce in una parte di Napoli la reazione ostentata e orgogliosa, da cui un complesso psichico che porta all’alibi della napoletanità. A Giorgio Bocca che scrisse Napoli siamo noi si ribatteva che un piemontese non può capire Napoli.
Mario Pezzella, col consueto acume, si è interrogato (Altrenapoli, Rosenberg Sellier) sul rapporto tra plebe e borghesia cittadina e ha notato che se per Anna Maria Ortese la città si è fatta assorbire dal suo ventre, per Ermanno Rea è la Storia e non la Natura ad aver determinato i risultati odierni. L’esito della Seconda guerra mondiale, il laccio americano sul porto e la città, vanno a sommarsi al trauma del 1799, o più indietro alla rivolta seicentesca di Masaniello. Se l’alibi della Natura finisce per giustificare le classi dirigenti, la versione borghese addossa al sottoproletariato gli aspetti negativi della napoletanità: il caos e il mito della città speciale, il primitivo, l’arcaico della città-mondo, ricorda Pezzella.
Raccontare Napoli, come scrisse Franco Costabile riguardo al Meridione, può voler dire espungere la napoletanità, o la sicilitudine per la Sicilia, per oggettivare, ed essere il più possibile scabri e lucidi:
Ecco,
io e te, Meridione,
dobbiamo parlarci una volta,
ragionare davvero con calma,
da soli,
senza raccontarci fantasie
sulle nostre contrade.
Noi dobbiamo deciderci
con questo cuore troppo cantastorie.
Politica
Sotto il profilo politico, negli anni ’90, Antonio Bassolino aveva fatto sperare nel Rinascimento napoletano, come pure la rivoluzione arancione di De Magistris pur proponendo un populismo di sinistra, mentre Vincenzo De Luca oggi tenta addirittura una dinastia. Già Percy Allum parlava del populismo di destra laurino come derivazione di un isolamento culturale, che genera provincialismo, di cui l’orgoglio identitario è un sintomo.
La politica, i partiti deboli e sradicati, appaiono un passo indietro rispetto alla pur lacerata società. Eppure il voto progressista, da Bassolino a Jervolino, da De Magistris ai Cinque stelle, dimostra che la popolazione più volte ha saputo chiedere un cambio di rotta.
Napoli, come il resto del Paese, è una città a cui occorre rifondare linguaggi, forme, valori etici e codici simbolici, che includano nuovamente il sottoproletariato, la cui ostilità è frutto anch’essa dell’isolamento, fino alla trasformazione dei quartieri popolari nella base per l’estrema modernità tribale di Gomorra, arcaica e globale, da cui rinasce il mito della città primordiale.
Per questo coacervo di conflitti e contraddizioni, a discapito dei pregiudizi, Napoli è anche una città frenetica, laboriosa e veloce, la sua stessa conflittualità a livello individuale e sociale produce stimoli continui, è quindi il luogo che potrebbe elaborare, da ibrido tra pre-moderno e post-moderno, una risposta altra, ma solo se riuscisse a creare un rapporto più equilibrato con l’area metropolitana e le province interne, nonché a costruire un rinnovato rapporto con la nazione e il suo sottoproletariato, per battersi contro le forme più aggressive e monopolistiche di capitalismo, opponendovi non il clientelismo, bensì le ragioni della democrazia, della giustizia sociale, della cittadinanza globale. Per questo occorre fare i conti con se stessi, perché la visione discriminatoria di Napoli parte in primis dalla sua borghesia cittadina, va dunque condotta una lotta endemica, di classe, e il contesto non risulta certo favorevole visti i partiti e sindacati in crisi, in un’Italia egoista e miope.
Dunque, in un mondo interdipendente, siamo alla ricerca di soggetti e sponde, di autori del cambiamento, di un consenso di massa che, come accaduto col calcio, si crei per spostarsi però verso più alti orizzonti, mentre la napoletanità è a volte rimozione di traumi, risentimento e storia che ritorna nel mito, e senza progresso la città mitizzata non può che ripercorrere le sconfitte della sua storia. Della tradizione, ricordava Ernesto De Martino, occorre conservare la parte progressista, la tradizione non è di per sé valida, ma va passata al setaccio dei nostri valori attuali più alti.
Linguaggi
Basterebbe interrogarsi su quando Napoli raggiunge autenticamente la nazione e il mondo per trovare più di un successo nella sua autorappresentazione. Non è un caso che in anni recenti il sottoproletariato e le sue ragioni arrivino altrove grazie alla musica di Pino Daniele, che nonostante il dialetto, anzi grazie alla forza espressiva della lingua napoletana, fonde tradizione e avanguardia varcando i confini nazionali fino a diventare un unicum nel panorama europeo.
La scena napoletana, dal basso, dalla stagione dei Centri sociali occupati, con un occhio all’Inghilterra, a Berlino o magari alla Giamaica, ha prodotto l’avanguardia musicale degli anni ’90 con i 99 posse, gli Almamegretta, da cui la musica elettronica degli ultimi anni ha avuto abbrivo. Napoli è stata poi alla testa dei movimenti No global in Italia. Insomma, quando la città si apre al genere umano, e vi porta le sue istanze, la città più giovane, viva e energica d’Italia non solo si racconta a dovere, ma rimuove i fantasmi del passato, da frattura diviene ponte e avanguardia, fino a farsi protagonista.
Raramente invece questo accade a livello istituzionale-politico dove invece l’Eternapoli che Giuseppe Montesano ha narrato nei suoi romanzi, un parco giochi e divertimenti in cui tutto si fonde nell’espropriazione e spoliazione della città, nel particolarismo a danno dell’interesse generale, è l’inveramento del berlusconismo nazionale e della demagogia populistica italiana, non l’alterità. Perché nei luoghi più fragili ogni fenomeno negativo si abbatte con una virulenza maggiore, e questo fa del sud del paese il termometro d’Italia e di Napoli una città non altra, bensì arci-italiana.
In ultimo, se l’elaborazione di questo rapporto orizzontalmente trova riscontri progressivi nella società, valga per tutti l’esempio della meritoria lotta contro la gentrificazione del gruppo Set, i diritti al tempo del turismo, la parte verticale resta il problema, anche perché nel breve periodo l’isolamento e l’assenza di trasparenza possono risultare convenienti a chi governa per costruire consenso.
Napoli si muove e le sue realtà locali possono, come il Calcio Napoli, vincere e compiere altre imprese, ma i blocchi storici politico-criminali trasversalmente persistono, barattando il futuro del Meridione per il vecchio e consueto tornaconto privato, fino a quando la costruzione di un consenso di massa nazionale, una volontà politica intorno alla sfida partenopea e meridionale, produrranno la spinta per costruire una realtà nuova.
Siti
I dati e le statistiche forniti a carattere esemplificativo vengono utilizzati qui per dare al lettore dei parametri meramente approssimativi, consapevole che i dati emergono da criteri valutativi parziali, non sono sempre condivisibili, e che, anche quando ben approssimati, vanno utilizzati con cautela, in prospettiva e analisi multivariata.
* I dati citati sono relativi al 2021, fonte https://www.infodata.ilsole24ore.com/2023/04/21/redditi-2021-la-ricchezza-e-sempre-piu-concentrata-nelle-mani-di-pochi-ecco-dove/#:~:text=I%20dati%20diffusi%20dal%20Ministero,detrazioni)%20è%20di%2020.745%20€.?refresh_ce=1
** Secondo il Sole24ore al 2018 “si contano poco più di 91 mila istituzioni fra sud e isole per un totale di 164 mila dipendenti, contro i 175 mila enti al nord, che danno lavoro a 465 mila dipendenti”, inoltre “I valori più bassi si riscontrano in Campania e in Calabria” dove i dati sulle istituzioni che si occupano di cultura, sport e ricreazione scendono ulteriormente fino al lumicino rilevato nelle isole. Fonte Sole24ore https://www.infodata.ilsole24ore.com/2018/10/18/la-nuova-questione-meridionale-dellitalia-del-no-profit/
*** Fonte https://www.confcommercio.it/-/mezzogiorno)
Bibliografia essenziale
Francesco Barbagallo, Il potere della camorra, 1793-1998, Einaudi, Torino, 1999
Giorgio Bocca, Napoli siamo noi, Feltrinelli, Milano, 2006
Carmine Conelli, Il Rovescio della nazione. La costruzione coloniale dell’idea di Mezzogiorno, Tamu ed., Napoli, 2022
Vincenzo Cuoco, Saggio storico sulla rivoluzione napoletana del 1799, Napoli, 1807, ripubblicato in Bur, Milano, 1999
Eduardo De Filippo, Napoli milionaria!, Einaudi, Torino, 1972 (opera edita nel 1945)
Giuseppe Montesano, Di questa vita menzognera, Feltrinelli, Milano, 2003
Anna Maria Ortese, Il mare non bagna Napoli, Adelphi, Milano, 1953
Mario Pezzella, Altrenapoli, Rosenberg Sellier, Torino, 2019
Ermanno Rea, Mistero napoletano, Feltrinelli, Milano, 1995
Roberto Saviano, Gomorra, Mondadori, Milano, 2006
Matilde Serao, Il ventre di Napoli, Prima edizione dei F.lli Treves, Milano, 1884, riedito da Universale Rizzoli, Milano, 2012
Enzo Striano, Il resto di niente, Feltrinelli, Milano, 1986
Vito Teti, La razza maledetta. Origini del pregiudizio antimeridionale, Manifestolibri, Roma, 1993
Gianfranco Viesti, Centri e periferie. Europa, Italia, Mezzogiorno dal XX al XXI secolo, Laterza, Bari, 2021
leggete questo articolo del bravissimo Marcello Anselmo sulla festa napoletana: Il 4 maggio napoletano
https://www.rivistailmulino.it/a/il-4-maggio-napoletano?&utm_source=newsletter&utm_medium=email&utm_campaign=Strada+Maggiore+37+%7C+8+maggio+%5B9105%5D
Mi metto all’ascolto di “Forza Napoli!”, inno “triste-gioioso” dei tifosi della squadra azzurra, e mi commuovo. E dire che non mi interesso di calcio. Ma amo la squadra del “Ciuccio fa’ tu” per ciò che essa rappresenta per i Napoletani, verso i quali provo simpatia e lealtà ed anche affetto.
Su poche città al mondo si riversa da secoli un tale flusso di amore e di voci e di sentimenti come su Napoli. Che si pensi alle canzoni. Ma più che luogo fisico, afflitto ormai da tanti mali, Napoli è un’aspirazione di bellezza, di generosità, di vivezza di spirito, di umanità, di fantasia, d’ingegno… Ed è suscitatrice di un grande rimpianto per ciò che questa ex capitale di un Regno, nella quale di notte si aggirano i fantasmi del suo passato, avrebbe potuto essere…
Maradona, il vincitore – la città delle sconfitte storiche ama i vincitori – ha dato la speranza che l’atteso riscatto per Napoli stesse per giungere. Se non altro sul campo da gioco, dove il “Pibe de oro” ha fatto veramente miracoli. E nel neobattezzato campo di calcio San Paolo, divenuto Maradona, si è compiuto il miracolo.
La passionalità su Napoli raggiunge un livello sconosciuto ad altre città. “Napoli è stata tradita dagli uomini” è un tema ricorrente, quasi che Napoli fosse una creatura vivente alle cui speranze gli uomini sono venuti meno, tradendola. Ma Maradona non l’ha mai tradita. Un merito immenso. E così il funambolico, inclassificabile, improbabile personaggio Maradona si è aggiunto ai grandi personaggi che alimentano il corpo mitico e mistico di Partenope, fatto di pagine storiche, leggende, racconti, aneddoti…
In Totò abbiamo, nello stesso uomo, la sintesi e la conciliazione dei due poli imprescindibili di questa città. Essi sono “miseria e nobiltà”, ossia la sconfitta e la vittoria, il mondo dei miserabili e quello dei “signori”. Da un lato, c’è l’Antonio de Curtis dominato dall’ansia di appartenere alla nobiltà e divenuto infine “principe di Costantinopoli”. E dall’altro c’è il Totò “principe dei poveri” rimasto fedele alla sua gente.
E dopo di lui è venuto Maradona, questo “Napoletano carnale” ma d’adozione, sintesi di “miseria e nobiltà”: “cabecita negra” e scugnizzo divenuto principe del calcio, celebrità mondiale, milionario. Un vincitore.
Attraverso le vittorie sul campo di calcio Maradona ha riscattato Napoli. Ha fatto miracoli come San Gennaro. Lui, un Argentino dei quartieri poveri di Buenos Aires, una “cabecita negra”, è divenuto scugnizzo ed è assurto a re dei quartieri spagnoli e della Napoli intera dove sotto la sua immagine ormai la gente accende i lumini. E Maradona santo è, alla napoletana. Trasgressivo attraverso la cocaina e l’amicizia coi camorristi e i figli avuti da donne diverse; pulcinellesco alla Totò; senza una vera famiglia se non i suoi tifosi; generoso; amante degli eccessi anzi del barocco, e il barocco è lo stile normale dei Napoletani; cultore dell’amicizia; vicino ai semplici, ai poveri e ai devianti; fisicamente improbabile perché un po’ tracagnotto, ma capace d’incredibili magie fisiche come un beffardo “munaciello”, il piccolo monaco dispettoso della superstizione e del paganesimo napoletani. È riuscito, pur milionario, ad essere il rappresentante ideale dei poveri del terzo mondo del pianeta, compreso il terzo mondo partenopeo. L’amicizia con Castro lo ha fatto assurgere a simbolo dell’anti establishment planetario e a nemico della globalizzazione e dell’omologazione all’americana.E con la morte, Maradona è entrato, così come fu per Totò, nel corpo mitico e mistico di Partenope, città-mondo, luogo di nostalgie e di rimpianti, eterno teatro. E patria ideale di tanti di noi.
Gentile Turi Palidda, ho letto l’articolo di Anselmo dall’interno della città, trovandolo ottimo e compatibile con quanto scritto dall’esterno.
Claudio Antonelli, il suo discorso è suggestivo e ha una sua legittimità poetica, qui nell’articolo si rivendica un approccio storico-critico il più razionale possibile per Napoli e il Meridione. Di mistico e mitico, di poeti che poi sotto il profilo politico guarda caso sfociano nel reazionario e regressivo, ce n’è fin troppi in questo Paese.
saluti
sa