di Francesco Orlando e Vincenzo Cerami
[A dieci anni dalla scomparsa di Vincenzo Cerami (Roma 1940 – 2013), il Dipartimento di Studi Umanistici dell’Università Roma Tre organizza due giornate di studi, letture e testimonianze.
Il programma di “Mediamente Cerami” si svilupperà in tre momenti di incontro: un convegno in Aula Magna del DSU (lunedì 29 maggio, h. 9-18), una sessione mattutina in Biblioteca Nazionale che darà la parola a chi ha conosciuto l’autore, ha collaborato con lui o riconosce nella sua opera un solido riferimento (“Officina Cerami”: martedì 30 maggio, h. 10-13) e, infine, una serata di racconti, letture e proiezioni al Teatro Palladium, con la partecipazione di Nicola Piovani, Giovanni e Sandro Veronesi (“Cher ami! Storie di un incontro”: martedì 30 maggio, h. 21 / “Tutti al mare”: proiezione del film e dialogo col regista Matteo Cerami, h. 22.30 – intervengono Ugo Fracassa e Giordano Meacci).
Per l’occasione riproponiamo il testo della laudatio che Francesco Orlando ha pronunciato per il conferimento a Cerami della laurea honoris causa in Letterature e filologie europee (Università di Pisa, 25 ottobre 2006) e la lectio dello stesso Cerami]
L’umanità racconta i suoi segreti. Una riflessione sulla narrativa di Cerami
di Francesco Orlando
Purtroppo […] io non ho letto tutto di Vincenzo Cerami, e tanto meno sono informato a fondo sull’importantissima parte della sua attività che riguarda il cinema, il teatro, i giornali, la radio. In ogni caso, credo che gli farei torto a non cominciare dalla sua opera, dalla sua statura, di narratore. E […] farei male a non dire subito che cosa lo fa amare da me – come senza dubbio da mille, centomila altri lettori. In primo luogo, la sua moderna e solidissima referenzialità. La vanto volentieri oggi, quando siamo da decenni insidiati dal sinistro pregiudizio inverso, che la letteratura debba essere autoreferenziale, che possa e debba parlare soltanto di se stessa (pensate che noia!), oppure di un altro mondo (ma quale?), oppure di niente (ma come?). Ecco, Vincenzo Cerami per fortuna ci parla sempre di qualche cosa, qualche cosa che non può non trovarsi nel nostro mondo, l’unico che esista: ci parla del nostro mondo […]. Una referenzialità tanto più solida quanto più è ancorata, uno al quotidiano, e due al soggettivo: cercherò di spiegarmi meglio. Al quotidiano, nelle ambientazioni sociali. Sì, immagino bene quanto Vincenzo possa andar fiero del giudizio di Pasolini che sta in una riga nella quarta di copertina di Un borghese piccolo piccolo, il romanzo che per primo gli ha dato fama: “Un bellissimo romanzo neocrepuscolare, atroce”. Posso capire che a un uomo della generazione di Pasolini, più anziano di me, quella scelta piccolissimo-borghese sembrasse echeggiare un certo momento non lontano della storia letteraria italiana. Ma per me né quella prima ambientazione, né le successive per quanto conosco, hanno niente di “crepuscolare”: è la realtà, è la società che ci circonda ad essere prevalentemente così, o per meglio dire a poter ispirare un narratore che la racconti così.
Inoltre, una referenzialità ancorata, dicevo, al soggettivo. Il lettore viene immediatamente installato all’interno di una coscienza, fa esperienza di un’intimità umana necessariamente non identica o addirittura molto diversa dalla propria.
E ciò, quale che sia il grado di simpatia, d’identificazione che può riscuotere da parte nostra il tale o il tal altro personaggio, e sulla loro scorta il tale o il tal altro romanzo; basta soltanto leggere, basta non aver la minima voglia di chiudere il libro. La coscienza in cui entriamo corrisponde a uno sguardo sul mondo, e Cerami che possiede così bene la scienza detta narratologia (ne riparleremo) lo sa: a partire da Henry James, questa riproduzione di una coscienza-sguardo, coi limiti rigorosi che pone all’informazione dei personaggi e coi conseguenti dispiegamenti di bravure tecniche degli autori, è diventata a lungo andare, diciamolo francamente, un po’ meccanica o scolastica. Non così in Cerami, che sa arrivare all’autentica ricreazione della visione propria di un individuo immaginario, ma sa farlo esentandosi da ogni obbligatorio atteggiamento sperimentalista.
Da quegli atteggiamenti che nel corso del Novecento ci hanno lasciato, per un Joyce o per un Faulkner, per pochi altri genii o maestri, tanti testi atti a fare scandalo ma destinati a rivelarsi abbastanza presto datati. Perché c’è questo guaio: lo sperimentalismo, né più né meno che la più umile delle poetiche bollate in suo nome come tradizionali, dura artisticamente solo quando le scelte che impone risultano in profondità motivate, quindi, ogni volta, rimotivate.
Vorrei indicare dopo la referenzialità, come mio secondo motivo di amare la narrativa di Cerami, la qualità della sua lingua. Una lingua capace di rendere, nei frequenti, copiosi, vivissimi dialoghi, qualunque sfumatura che caratterizzi classe, ceto, cultura, regione, sesso, età dei parlanti. Ma anche questo elogio è per me la contropartita di un difetto evitato, di una tendenza a cui si è resistito, e qui penso a mode più recenti e più devastanti dello sperimentalismo. La caratterizzazione precisa e minuziosa mi sembra cioè in Cerami, almeno nella voce d’autore, esente da ogni compiacenza verso il particolarismo. Verso mode che oggi hanno i loro avalli più ufficiali negli Stati Uniti, precisamente nella cultura che, in un paese anche culturalmente egemone, si vuole d’opposizione. Rivendicazioni sociali e sessuali minoritarie o maggioritarie; ideologismo vendicativo dei cultural studies; preferenza a priori per tutto ciò che divide gli esseri umani rispetto a tutto ciò che li unisce; voluto screditamento di quel che ancor oggi dovrebbe poter chiamarsi senza falsi sensi di colpa l’universale. In Italia, poi, questa ventata può andare a sposarsi a un regionalismo di diversissima marca, derivato all’origine dalla lezione di Carlo Dionisotti: il maestro che dimostrò quanto c’era di arbitrario nell’idea di una unità costante della nostra lingua e letteratura, in un paese diviso nei secoli. Ma un conto è che siano gli studiosi a dirci cos’era centripeto e cos’era regionale in ciò che i testi italiani ebbero di vivo prima (e dopo) l’unità nazionale, un altro conto è che i narratori si compiacciano di tenersi lontani da ogni lingua che possa immediatamente esser compresa dal maggior numero possibile di lettori. Saper praticare una tale lingua è assai più difficile dei più scaltriti mimetismi locali e gergali, ed è uno dei più grandi meriti civili di cui possa gloriarsi un artista. Sentite dal mio tono di voce che, come mi succede sempre appena parlo di universale e di particolare, non ho tardato ad arrabbiarmi; ma leggendo Cerami non mi sono arrabbiato mai.
Torno velocemente al piano dei temi, dei contenuti, e confido a Vincenzo una mia personale tipologia del tragico […]. Si tratta di distinguere due tipi di tragico, forse i due soli possibili. Ce n’è uno, mi pare, il quale sottintende che il mondo è bello, ma che la bellezza di esso non può essere goduta; tragedia è allora precisamente questo, il sottinteso dell’impossibilità di goderne, che a sua volta sottintende la bellezza stessa. Sentirete immediatamente quanto è diverso l’altro senso possibile del tragico, il quale sottintende invece che il mondo non è, non può essere bello, che anzi è in sé brutto, meschino, cattivo.
Chi abbia una qualche cultura letteraria potrà capirmi se suggerisco che i due maggiori prototipi sono le due opere vertice del teatro moderno, a esclusione della tragedia greca: Fedra di Racine, Amleto di Shakespeare. Di che cosa è innamorata Fedra se non della bellezza? potrebbe mai dirlo in modo più commovente? E splende il sole al di sopra della scena, dal momento che proprio al sole Fedra si rivolge, e intuiamo intorno a lei un mondo straordinariamente luminoso: solo che una condanna fatale, la condanna in cui consiste la tragedia, vieta che di questa bellezza del mondo si possa godere. Di contro vedrei il pallido, nevrotico principe Amleto, per il quale il mondo è nauseabondo, il sesso letteralmente schifoso; mondo e sesso sono paragonati nel primo monologo di lui a un giardino non sarchiato che va in seme, tutto posseduto da cose lussureggianti e grossolane. Qui non è che il desiderio sia frustrato, è piuttosto pervertito e impedito alla radice, e tragedia è a priori questo impedimento. Non credo che la nausea del sinistro principe danese sia più tragica dello strazio della solare regina greca, e nemmeno viceversa. Fra i due prototipi non c’è da scegliere, contano poco le sensibilità personali, ma è chiaro che la narrativa di Cerami corrisponde al secondo prototipo, non al primo. C’è soltanto un contrappeso indiretto di non poco conto: la razionalità stessa con cui sono gestite quella coscienza-sguardo, quella lingua.
Prendo un unico spunto. Il tema delle azioni antisociali, gratuitamente e ferocemente aggressive è ricorrente in questa narrativa. E ciò – lo attestano le date – prima che nella realtà sociale italiana si arrivasse all’atrocità dei massi gettati contro le macchine in autostrada, non si sa perché, per ammazzare non si sa chi; ricordo il fatto di cronaca perché sono convinto che la letteratura, quella buona, conosca intuizioni profetiche. In Un borghese piccolo piccolo Giovanni, il padre del ragazzo ucciso per un violento assurdo caso, rinuncia totalmente a servirsi della giustizia ufficiale che pure è andata a cercarlo, se la farà da sé la giustizia, e in quale terribile modo! In Ragazzo di vetro Stefano, il giovane protagonista, è tentato senza ombra di motivo di uccidere quel vecchio signore che secondo lui somiglia ad Aschenbach, al personaggio di Thomas Mann – prima di capovolgere l’aggressività, nel giro di due facciate, dall’esterno verso l’interno e altrettanto immotivatamente suicidarsi. In Tutti cattivi, più di passaggio, abbiamo il piccolo Giustino che fa iniezioni velenose a un alberello di fico. E fa da sottotema la crudeltà verso gli animali: nel primo di questi tre romanzi s’insiste sull’orrendo strazio inflitto a un pesce ancora vivo, nel secondo sul minuto di pazza sopravvivenza d’una gallina senza testa. Far comprendere dall’interno d’una coscienza di personaggio le tentazioni della crudeltà e dell’antisocialità ha un alto valore precisamente sociale, perché soltanto di fronte a ciò che preferiamo non comprendere siamo del tutto indifesi e impotenti.
Infine, desidero chiudere sui Consigli a un giovane scrittore. La materia che insegnavo fino a pochi mesi fa, all’Università di Pisa, si chiama Teoria della Letteratura: esiste da un ventennio e non va confusa con la tradizionale Estetica. Questo libro di Cerami rientra a buon diritto, e degnissimamente, nell’ambito della bibliografia relativa. Potrebbe far parte delle letture consigliate per un esame, e ciò anche come modello di chiarezza razionale nella scrittura; per me è stato un vero paradiso di confronti, convergenze, scoperte, sui quali non la finirei presto. Cerami narratologo è affidabile nel tentativo di accostare in una serie omogenea concetti nati, rispettivamente, per l’analisi del racconto letterario fatto con sole parole, e di quello cinematografico fatto con immagini più colonna sonora. È affidabile perfino nel tentativo, ancora più ardito, di fondere qua e là concetti nati per l’analisi dell’uno e dell’altro. E c’è nel libro un senso costante di quella dialettica fuori dalla quale per me non si ha comprensione dei fenomeni artistici, la dialettica, come amo dire, fra mimesi e convenzione: fra l’istanza immancabile di una qualche realtà rappresentata, e l’istanza non meno immancabile di un qualche patto fra l’artista e il pubblico, che deve accettarlo per capire. Trovo [a pagina 159 dell’ultima edizione ampliata, Mondadori 2010] una perfetta spiegazione del perché la semplice registrazione di una conversazione fra amici non sarebbe mai teatro o arte; e poi: “Se invece vogliamo restituire quella conversazione come si è svolta, bisogna riscriverla tutta secondo le convenzioni del palcoscenico. Il vero si può riprodurre solo con il falso”.
Anche nella raccolta di brevissimi racconti La gente c’è un pezzo di grande interesse teorico, che ha per titolo la famosa scritta di Magritte sotto una pipa perfettamente disegnata, Questa non è una pipa: ma certo! dice Cerami trasformando in ovvietà rigorosa il paradosso, ma certo che il disegno d’una pipa non è la pipa stessa!
Tornando ai Consigli (122-123), cito il più lungamente che posso (non potendo citarla per intero) una pagina splendida: sul monologo teatrale come ritorno del represso per eccellenza, rispetto ai rapporti fra parola e silenzio nella vita di noi tutti. Mi pare giusto che, così, resti affidata a Cerami stesso la più degna chiusa:
Se ognuno di noi contasse il tempo in cui parla con gli altri nel corso di una giornata, si accorgerebbe che si tratta di minuti e non di ore. Supponiamo, con molta generosità, di concentrare il nostro ‘parlato’ di un intero giorno in un’ora, a disposizione del silenzio ce ne restano ventitré. Se otto le passiamo dormendo, per ben quindici ore non usiamo la parola. Passiamo insomma il novanta per cento della nostra vita senza dire niente, chiusi in noi stessi. Ma quante cose succedono in quel silenzio. Quasi tutto. Prendiamo decisioni, pensiamo, progettiamo il futuro, però facciamo anche cose di cui neppure ci accorgiamo. […]. Dentro il silenzio torniamo più bambini oppure ci confessiamo l’inconfessabile, ci rivolgiamo a Dio, non ci vergogniamo dei nostri impulsi, non siamo terrorizzati dai tabù, desideriamo ciò che gli altri ci vietano, ci viene voglia di uccidere, di fare l’amore, di scappare. E tutto questo avviene quando siamo seduti nel vagone della metropolitana, mentre attraversiamo una strada, prendendo un caffè al bar, nelle sale d’aspetto, davanti allo specchio con il pettine in mano, accendendoci una sigaretta. […]. Uno scrittore non può fare a meno di attingere a questa zona muta dei suoi personaggi. In fondo il suo mestiere è proprio questo: far emergere in superficie ciò che gli uomini rimuovono. Il suo sembrerebbe quasi un ruolo terapeutico. L’umanità racconta i suoi segreti solo attraverso l’arte.
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Il racconto della Storia
di Vincenzo Cerami
Il più giocoso e astratto degli scrittori europei, Raymond Queneau, non ama l’umorismo, il surrealismo, la retorica dell’ispirazione, la letteratura del sublime, del frammento lirico. La sua concezione “tradizionalista” della letteratura, per la quale l’opera va costruita con sapienza e coscienza del marchingegno, non è in contraddizione con lo sguardo “patafisico” della sua scrittura, efficace quant’altri nell’evocazione del vero. Egli non rinuncia a una concezione materialistica e antropologica della letteratura, vista come luogo della Storia, storia che egli definisce “scienza dell’infelicità degli uomini”.
In un saggetto del ’45 Queneau ricorda che sono stati scritti romanzi che non hanno tenuto conto del contesto storico in cui si svolge la vicenda. In molte opere inglesi, da Tom Jones a David Copperfield, non si fa cenno ad alcun evento politico o a situazioni sociali. Ma precisa, tra parentesi, che non si tratta di opere fuori della Storia: come dire che ogni racconto situato nella realtà è fatalmente dentro la Storia, anche quando non compaiono date, guerre e rivoluzioni. Queneau non approfondisce una questione apparentemente marginale ma essenziale: il racconto non situato nella realtà ha una stretta connessione con la Storia?
Di specifico interesse è l’epilogo del breve saggio, là dove egli afferma che la presenza della Storia, in una narrazione, ha significato soltanto se consente allo scrittore “di scoprire i primi germi di quella che domani diventerà la banale realtà, di rendere pubblici valori che restano ancora inosservati”. Queneau si domanda, implicitamente, se il romanzo debba o no far concorrenza alla narrazione storiografica. E qui si annida la sua vera provocazione, entrando di traverso nel dibattito esploso in Europa ai tempi delle Annales di Marc Bloch. Stendhal, Balzac, Flaubert hanno proposto personaggi e uomini che sarebbero apparsi sulla scena francese di lì a poco. “Balzac è grande non perché ha descritto bene la società del suo tempo, ma perché l’ha descritta come generatrice di quella che sarebbe succeduta”.
Qual è il senso di “rendere pubblici valori che restano ancora inosservati”? La risposta ce la offre indirettamente Ortega y Gasset nel definire intellettuale chiunque si chieda cosa succederà fra un’ora. Balzac è dunque uno scrittore intellettuale. Ma c’è da chiedersi se non sia intellettuale anche Mallarmé quando tenta una letteratura autonoma e tesa all’assoluto, verso la pura letterarietà.
La fuga dalla Storia ha caratterizzato diversi momenti della letteratura europea, ed è sempre stata lo specchio di un conflitto insostenibile tra libertà individuale e condizionamento culturale. Ci sono momenti in cui è forte nell’uomo la tentazione di svincolarsi dalle influenze esterne, dal laccio di un comportamento parassitario, coatto. Il desiderio di essere totalmente padroni delle proprie azioni è il sogno della piena libertà, negata sia da Marx che da Freud, emblemi della sottomissione alla storia e alla psiche. L’ultimo esempio risale agli anni Sessanta, quando l’Europa, in una estrema vocazione positivista, ha introdotto nello studio della realtà lo strumento del metalinguaggio. Althusser ha tentato di destorificare il marxismo; Lacan la psicoanalisi, attraverso l’autoreferenzialità dell’inconscio e Lévi–Strauss l’indagine antropologica, usando metodologie linguistiche astoriche. Molta semiotica di quegli anni, analizzando le strutture, emarginava i contenuti semantici e i valori estetici dei testi, cioè l’extratesto.
La domanda che si pone è questa: la Storia è necessaria alla metonimia del racconto realistico, cioè alla trama, o non è piuttosto immanente alla scrittura stessa? La lingua, che è figlia della Storia, quindi corpo “in movimento” e in continua trasformazione lessicale, sintattica e stilistica, un immenso contenitore di oggetti, paesaggi, anime, può essere destorificata, svuotata dei contenuti accidentali di un’epoca e usata solo strumentalmente, come fosse super partes?
La lingua di Gadda, il romanesco del Belli o il milanese del Porta o il siciliano di Vincenzo Consolo o lo stile mimetico di Verga non sono mai esistiti in natura: sono un’invenzione che allontana il racconto dalla realtà o, al contrario, il risultato di uno sforzo per offrire della realtà l’immagine più essenziale e veritiera, nascosta appunto dalla lingua naturalistica, in circolazione, fuorviante e inquinata dalla cultura del momento? L’inglese di Raymond Carver non riproduce ma mima la voce dei suoi personaggi: solo così ne coglie l’essenzialità e l’anelito segreto; solo così evoca il sogno della provincia americana degli anni Settanta e Ottanta, frustrato e rimosso. Ogni opera letteraria non ha solo un “come”, ma anche un “quando”.
Se nel romanzo l’aggancio con la realtà si verifica attraverso la lingua, fatalmente mutuata da quella extratestuale del quotidiano, vuol dire che qualsiasi testo letterario, compreso il racconto fantastico, contribuisce al ritratto di un’epoca. Anch’esso ha un “quando”. La lingua si appropria del presente storico sempre e comunque. La filologia, che si prefigge la corretta interpretazione dei testi letterari, opera contemporaneamente sul testo e sull’extratesto, sul linguaggio letterario e sulla storia della lingua, al di là dei generi e dei livelli stilistici.
Nella conclusione del memorabile saggio Mimesis, il realismo nella letteratura occidentale, Erich Auerbach afferma che “Stendhal e Balzac, facendo oggetto di rappresentazione seria, problematica, o addirittura tragica, persone comuni della vita quotidiana, condizionate dal tempo in cui vivevano” hanno inaugurato il realismo moderno. Questa impostazione prevede che i suddetti autori conoscano obiettivamente il tempo storico che fa da sfondo alla vicenda, mentre è lecito il sospetto che con i loro racconti scoprano e rivelino via via, attraverso la storia dei personaggi, il tempo in cui essi vivono, cioè la Storia. Il paradigma di partenza, lo schema ideologico dell’opera, fa da pre-testo. La scrittura, indagando i comportamenti e raccontandoli anche nelle fughe dal freddo schema prestabilito, finisce per rappresentare una società che si muove, che cambia faccia, che vincola le persone.
Ma è lo stesso Auerbach a dirci che l’argomento dei suoi studi è “l’interpretazione della realtà per mezzo della rappresentazione letteraria”. Quindi il rapporto tra letteratura e realtà è circolare: una prima realtà fa da scena al racconto, e il racconto ne palesa alla fine una seconda, non più trasognata questa volta, ma prossima al vero.
La frase di Auerbach “interpretazione della realtà per mezzo della rappresentazione letteraria” può perfettamente essere adottata dagli storici. Cos’è lo studio della Storia se non una interpretazione della realtà? Già agli inizi degli anni Ottanta il nostro storico Carlo Ginzburg, come ricorda nel suo Il filo e le tracce, vero falso finto, cancella la distinzione tra narrazioni storiche e narrazioni di finzione. Vede le une e le altre in competizione nella “rappresentazione della realtà”. Se una ricostruzione storica è indiziaria, il romanzo è senz’altro una miniera di tracce utili al racconto del vero, è un libro di Storia a tutti gli effetti.
Il racconto di finzione può giocare, insieme con altro materiale documentario, un ruolo importante nella narrazione storica. Sappiamo ormai quanto poco senso abbia nei libri di Storia l’elencazione cronologica dei fatti accaduti, legati tra loro più o meno meccanicamente. Il filo rosso della Storia prende un’andatura casuale, fatalistica. Il Manzoni, nel suo saggio in forma di lettera Del romanzo storico, parla del racconto letterario usando la terminologia di uno storico: “La storia che aspettiamo da voi non è un racconto cronologico dei soli fatti politici e militari e, per eccezione, di qualche avvenimento straordinario d’altro genere; ma una rappresentazione più generale dello stato dell’umanità in un tempo, in un luogo…”. Manzoni fa l’esempio di una carta geografica: lo storiografo descrive le catene di monti, le pianure, le città; lo scrittore descrive invece i villaggi, le viuzze, le case isolate… e anche i costumi, le opinioni, l’essere e il fare degli uomini.
Se lo storico non vuole dare l’impressione della casualità dei fatti, è necessario che costruisca una drammaturgia narrativa, che faccia in qualche modo letteratura. Serve un punto fermo di riferimento per la decodificazione degli accadimenti. In poche parole, per capire ciò che è successo ieri egli deve sapere com’è fatto l’oggi, perché le cose accadute hanno prodotto il presente, si sono sviluppate e intrecciate in modo da dare il risultato che oggi è davanti agli occhi di tutti. Senza questo zodiaco di orientamento ogni tentativo di dare senso alla cronologia paga il prezzo della interpretazione soggettiva.
Ma come “fotografare” il presente, come offrirne l’immagine obiettiva? È impossibile, non bastano dati, date, statistiche e sondaggi per restituire complessità e contraddizioni di un momento storico. Chi scrive è immerso e perso nel presente, tuttavia elabora un testo che presume di inquadrare la contemporaneità, di distanziarlo da sé. Di situarlo in un “quando”. Il romanzo, nella sua vocazione originaria, ha proprio questo come obiettivo, ma sa di inseguire una lepre di pezza, di rincorrere vanamente un mito. Tuttavia può succedere, come nel caso di Stendhal e di Balzac, che la letteratura metta a disposizione “testi impregnati di Storia” (per citare Ginzburg). Si pensi anche a Pasolini: nessuno meglio di lui, di un poeta, ha descritto, in presa diretta, la massificazione e la rivoluzione antropologica del nostro paese.
Per concludere: se ogni romanzo è un libro di Storia, il narratore ha gli stessi doveri deontologici dello storico. L’etica dello scrittore è la stessa dello storico. La coscienza linguistica, che differenzia lo scrittore da chi semplicemente scrive, coincide con la consapevolezza di raccontare un “quando”. La realtà del reale è l’utopia dell’artista. Da sempre.