di Michele Paladino
È il 28 dicembre del 1931, Michel Leiris e gli amici Lutten e Schaeffner viaggiano in camion verso il Camerun. Non sono soli, la carovana è piena di lenoni, cuochi e prigionieri di tuareg. Il boy Bakili ha appena squartato una bella cerbiatta, un prete emissario dal Vaticano (lo si pensa un ambiguo personaggio del controspionaggio belga) e sua nipote, contessa anch’essa sospetta di essere una spia, sono stati lasciati in asso prima del loro arrivo a Madaouah. Imperversa la carestia, i servizi offerti dagli anfitrioni locali sono invadenti: le richieste di un’orgia vengono rispedite al mittente. Leiris non ne può più, discute con Schaeffner del suo amore verso i diari privati, in particolare per il suo ponderoso Afrique fantôme: «Si deve raccontare tutto? Si deve scegliere? Si deve trasfigurare? Io sono del parere che bisogna raccontare tutto. Il guaio è che non ce n’è il tempo…». Poco male, il giorno dopo entrano in Nigeria, a Kano: «Luci elettriche, vie diritte, aspetto da grande periferia con stazione di smistamento, agenti negri da operetta, con fez e mantelline da cospiratori e polpacci inguainati di cuoio. Inattesa sensazione di trovarsi all’estero. […] Il campo francese, tenuto dal sergente che assicura i traffici tra Lagos e Zinder, è sinistro.» Ciò che colpisce l’orizzonte visivo-immaginativo di Leiris è il carattere tetro della Nigeria, ci descrive una burbera donna pantagruelica dal «collo come il fumaiolo di un piroscafo e dei polpacci come un pilone di ponte» irosa nella sua lingua pidgin; l’impudica teatralità della cinesica nigeriana è presente anche nella cultura italiana e, per la per la massiccia presenza di policeman e di città fortificate, le accurate descrizioni leirisiane non sarebbero poi lontane dalle rappresentazioni dei paesaggi urbani occidentali. La missione etnografica Dakar-Gibuti dell’autore delle Carabattole proseguirà fino al 1933 in un grande intasamento di note personali, precise annotazioni di natura etnografica e straordinarie, quanto insolite, avvertenze dell’angosciante mondo magico africano. Nel momento in cui scrive, Michel Leiris non dimentica il suo assoluto punto di vista di viaggiatore fazioso, anticonformista, da surrealista anarchico. Questo lo pone in uno spazio che conferisce al suo diario una consistenza postuma. Le intenzioni di Leiris, come di Trevisan, appartengono a una poetica esplicita, simile ai Ludi africani del contemplatore Ernst Jünger: il continente africano permette di entrare in un inferno disperato, catastrofico, con un certo atteggiamento da crudi reporter che non ammettono passaggi di scrittura trionfali da ingannevole commedia progressista. Per loro, la realtà africana, simile in tutto a quella progressista-occidentale, è percepita come contrassegno dell’esperienza disvelante della scrittura, vista sempre come aufklärung, resoconto finale, ribaltamento del luogo comune, taccuino di registrazione, densa, intensiva, lancinante interpretazione che afferra il reale. Entrambi non si lasciano coinvolgere interamente dagli universi privati, vengono tentati dall’evocazione simbolica di una civiltà ancora premoderna, ma subito se ne ritraggono, lasciandone una stratificata, quanto inquietante, scrittura-saldatura umoristica, peculiare alle loro palesi riserve di disprezzo per larga parte dell’umanità. Entrambi sono in Africa come strumenti di cattura del racconto. Si direbbero gemelli diversi, ma non poi così lontani: l’uno sottratto dal peso della sua missione etnologica grazie alla sua scostante vocazione di poeta surrealista, l’altro, misterioso commerciante di pezzi d’auto usati nello stato federale del Lagos, si chiede in dialetto vicentino «perché cazzo sono venuto fino a qui», in Nigeria, catalogato come bianco e scrittore orientalista. Al di là dei propositi, è chiaro l’intento dello scrittore Trevisan di creare una mobilità radicale alla sua Opera che, come nell’autore di Aurora, si catalizza nell’espressione dicotomica opera-vita, quasi a creare un autotestamento volontario, sperimentale, diluito in un paesaggio nigeriano spogliato di ogni calco mitografico. In Trevisan ogni modello letterario si riflette in un rapporto di discordanza esperienziale: «Curioso fatto che io tenda a identificarmi in uomini come Williams, o Orton, o Fassbinder, o Bacon, o Burroughs, al punto da farne dei modelli, oltre che artistici, anche di vita – vita che, per quanto mi riguarda, non è mai altro dall’opera, e intendo la mia non meno della loro; o la loro non più della mia. So bene che molti vorrebbero, anzi pretenderebbero le due cose nettamente separabili.» L’adozione di queste figure da sancta sanctorum laico ha un valore notevole perché ci aiuta a stornare lo sguardo dalla costruzione di un feticcio romantico. Ci porta in prossimità di una scrittura che cerca di espiare la mimesi didascalica attraverso l’utilizzo illusorio dello spettro delle immagini. La scrittura realistica di Trevisan rende profonda la realtà per ribaltarla nel suo negativo. Specie nei Black Tulips, la funzione perseguita dalla scrittura pidgin performativa è sondare un’immagine dell’Africa che non fosse decorativa o raffigurata meccanicamente nella registrazione realista: «E non avevo portato con me la macchina fotografica; né niente da leggere, né da scrivere, niente, nemmeno l’a casa inseparabile taccuino che non si sa mai. E l’avevo fatto apposta, del tutto scientemente, perché volevo solo vedere con i miei occhi e sentire con le mie orecchie eccetera; cioè, in definitiva, non volevo registrare niente, all’infuori di me, di tutto ciò di cui sapevo che prima o poi avrei scritto.» Puntellando il discorso, è bene creare una fluidità di sguardo con l’acuto lavoro di Jonathan Littell sull’opera di Francis Bacon in Trittico. Tre studi da Francis Bacon: «Per Bacon la questione della vera immagine era una questione di realismo. Il suo amico Michel Leiris incentrò su questo problema l’ultimo, e il migliore, dei suoi saggi dedicati a Francis Bacon, Francis Bacon, di faccia e di profilo, pubblicato nel 1983. Citando una lettera che Bacon gli aveva inviato nella quale il pittore, scrivendo in francese, definiva il realismo «il tentativo di catturare l’apparenza con l’insieme di sensazioni che essa suscita in me», Leiris cercava di interpretarlo come un «realismo creatore […] e non solo trascrittore, un realismo che tende a instaurare un reale piuttosto che a raffigurarlo.» Black Tulips è un libro che si distanzia dall’intera opera narrativa di Trevisan. La coltissima tensione ossessiva all’architettura implode prediligendo il frammento, l’ekfrasis, si diluisce la «funzione Beckett-Bernhard» dei precedenti romanzi, il ritmo si snellisce, gli arabeschi si attenuano in suite narrative che inglobano autofiction e beffarde esortazioni al lettore a imbarcarsi negli effluvi di note. Le chiose provocano nel lettore un alterato stato di percezione della lettura, sbalzandolo dalla contemporaneità delle vicende narrate, donandogli una visione frammentata, singultata, del flusso narrativo. Black Tulips si presenta come un libro biforcato tra scrittura sperimentale e struttura romanzesca (mobilità formale) dislocata ad anelli, anch’essa sperimentale, dove è il tempo a dominare la circolarità dell’autobiografia (autofiction) e della velocità narrativa (fiction). Trevisan è comunemente accettato come un oyibo, uomo occidentale, uomo europeo, post-colonialista che ora va a vedere con i suoi occhi, «U must see with ur own eyes», il paese di Ade, Benin city, set delegato al terreno creativo dello scrittore di Cavazzale. Se l’intera opera ci aveva abituato a un largo ricorso alla dromomania stilistica («È musica / È architettura» dice la Vedova ne Il delirio del particolare) e all’agonismo proletariat della forma autobiografica dei Works, qui si può leggere l’abbandono di ogni prospettiva, che funge da spia prescrittiva a ogni interpretazione dell’opera in prospettiva politica, odeporica, pamphlettistica. – l’interrogazione sul codice del Potere espressa nel Petrolio di Pasolini, permeata da un forte contenuto estetizzante, sembra deflettere dai propositi decostruttivi della forma dei Black Tulips -. La rinuncia alla prospettiva, mediata dalla lezione di Panofsky, lascia il campo alla mobilità psichica:
La verità, se per verità si può intendere la causa prima di tutti questi problemi infiniti, è che non sono mai stato in grado di pensare in prospettiva, come si dice, né verso il futuro né verso il passato, e meno ancora sono stato (e sono) in grado di pensare me stesso in prospettiva. […] Lo scrittore, non è in rapporto prospettico con lo scrittore in cui, gli piaccia oppure no, si è effettivamente evoluto ed è. Le modalità con le quali il soggetto si è mosso, nel tempo e nello spazio, nel suo ambiente e fuori di esso, o meglio nei suoi vari ambienti, e fuori di essi, sono sempre state dettate dalle contingenze, le quali, dovendo moltissimo al caso, non permettono di rendere il suo percorso in metafora prospettica. In definitiva, che io guardi in avanti o indietro, sono stato, resto, sarò e sarò stato un uomo privo di qualsivoglia prospettiva. (Sul concetto di materialismo psichico rimando a Andrea Cortellessa: https://www.leparoleelecose.it/?p=23386).
Da qui la mobilità di uno scrittore che si addentra nel demi-monde della prostituzione sempre with ur own eyes, intercettando gli universi creativi che muovono le fiabe spietate e immaginifiche delle Butterfly stories di William T. Vollmann. Una singolare educazione sentimentale che si allontana dalle sponde borghesi e risarcitorie di Plateforme di Michel Houellebecq: il Sesso presente nei Black tulips orna la prosa facendo risaltare le cromature hardcore del romanzo, e in questo non possiamo ricordare la prosa lirica e baroccheggiante del lusitano António Lobo Antunes di Os Cus de Judas, cruda partitura al fenolo dell’Angola coloniale salazariana. In questo senso, la Benin City di Black Tulips non è che una allucinazione di una civiltà occidentale annerita:
[…] Particolarmente inquietanti sono i sistemi di difesa della proprietà, tanto che il mio occhio, concentrandosi su di essi, trascura il resto. Così, il tragitto dall’aeroporto all’hotel che Ade ha trovato per me, anzi per noi, si riduce a uno scorrere di recinzioni, in muratura o cemento o rete metallica, orlate di cocci di bottiglia e/o di filo spinato d’antan, o del più moderno barberina-wire americano, che sostituisce le lamette alle spine; e di pesanti inferriate a porte e finestre; e di alti e ancor più pesanti cancelli, anch’essi orlati di filo spinato, che addirittura chiudono o aprono alla circolazione, sia pedonale che automobilistica, interi quartieri, o almeno così mi sembra – a una periferia che si configura come un arcipelago mobile non sono abituato. E tutta quest’ansia securitaria, che respiro a pieni polmoni, per così dire, mi opprime almeno altrettanto dell’aria che respiro effettivamente, sulla cui composizione posso solo riportare il dato olfattivo: materia organica animale e vegetale che se ne va a male e forte presenza di idrocarburi e fumi vari.
Da ciò ne consegue uno spazio che rifiuta ogni soggettività o avvertenza di identificazione, persino il paesaggio è dilatato nella psiche, e viceversa. Potremmo parlare di sistemi di influenze burroughsiane, ovverosia la ricerca di una Blackened Interzone che vede nella realtà un reagente lisergico. Esemplare è il fulmineo segmento narrativo Dundee United, forse il primo esempio di cut-up burroughsiano nella letteratura italiana. Ci sarebbe da dire che Black Tulips si presenta come un libro che ha poco a che fare con la letteratura italiana. Vengono rappresentati presunti alterchi tra un oyibo e alcuni Okada-boys, che possiedono la stessa fisica vitalità degli emarginati pasoliniani. La vicenda si conclude con un’interminabile successione di conversazioni appena abbozzate in pidgin e in italiano, l’effetto speciale è dato da una sublime esortazione: «Pessimo romanzo come ce ne sono tanti. Ma non è colpa mia se arrivarono appena in tempo per evitare il peggio. Realtà non è romanzo. Questo scritto nemmeno. Tutto quanto scritto nemmeno, e nessuna scrittura di nostra mano potrà mai essere stata ciò che non è mai stata. Non mio problema.» Burroughs può risultare una lanterna utile per restituirci la luce di un sogno inquieto che non manca di confrontarsi con la morte. – sebbene Black Tulips, rispetto al clima da morgue de I Quindicimila passi, abbia paradossalmente un solo rapido sguardo sull’ethos della morte culturalmente definita, da un lato la morte gratuita africana (il paesaggio urbano è contornato dalla presenza dei cadaveri) e dall’altro la pesante rimozione della morte da parte della società occidentale, abile a occultare la fastidiosa presenza dei morti -. Si diceva della totale estraneità di questo libro alla tradizione della letteratura italiana del Novecento; solo l’espressionista Bruno Barilli nel suo periplo d’Africa del 1931 è riuscito a restituire la natura ferina e atrabiliare dello straniante territorio africano, senza dimenticare gli irricevibili e inappropriati giudizi razzisti espressi in alcune sue avventate considerazioni sulla popolazione locale. Come non è estranea la vis polemica commisurata alla notoria mobilità demolitrice trevisaniana: il cinico umorismo di fondo capace di cancellare la finta patina innovatrice dei costumi ecclesiastici. Il romanzo termina, incompiuto, con una temibile dissertazione sulla fondazione della prostituzione da parte di Papa Sisto IV, che adottò un sistema di tassazione per le prostitute del suo bordello personale: «Nei primi anni Ottanta i cristiani nigeriani, imitando i connazionali musulmani che per lunga tradizione si recavano in visita alla Mecca, iniziarono a recarsi in pellegrinaggio a Roma. […] Le donne nigeriane i resero conto che la prostituzione rendeva bene, e che potevano approfittare del soggiorno per esercitare la professione e investire poi il guadagno acquistando appunto capi di vestiario da esportare. […] Spiegazione suggestiva perché ci mostra come la via del marciapiede passi per San Pietro.» L’ago della bussola indica di nuovo l’infelix Italia, quasi a indicarne un incubo postumo, già estinto nei vuoti degli ultimi frag che preparano il destino dello scrittore che meglio ha rappresentato il conflitto astratto tra linguaggio, psiche e realtà soffocante d’oggi; alla misura di un’opera priva di illusioni, infallibilmente tersa, stoicamente allucinata. Qualcosa che ricorda la figura inquieta del poeta-filosofo Carlo Michelstaedter e la concettosa densità di pensiero delle opere di Ottiero Ottieri. E Trevisan, che aveva letto Sterne e il suo umorismo sardonico, rifiuta ogni sensazionale risarcimento ideologico dalla sua opera, ben consapevole che «un po’ di poesia ci sta sempre bene» (sul concetto di “risarcimento ideologico” tra modernità e antimodernità rimando a Matteo Marchesini,” Gli antimoderni”, apparso in Doppiozero, 14 aprile 2018. Si veda anche M. Marchesini, in “L’estremo contemporaneo”, a cura di Emanuele Zinato, Milano, Treccani, pp. 181-189).