di Franco Buffoni
[E’ stato riedito ieri, dopo 23 anni dalla sua pubblicazione, Il profilo del Rosa di Franco Buffoni (Luigi Pellegrini Editore). Pubblichiamo la postfazione di Guido Mazzoni, che recupera una recensione scritta nel 2000].
Postfazione
di Guido Mazzoni
Come un polittico che si apre
E dentro c’è la storia
Ma si apre ogni tanto
Solo nelle occasioni,
Fuori invece è monocromo
Grigio per tutti i giorni,
La sensazione di non essere più in grado,
Di non sapere più ricordare
Contemporaneamente
Tutta la sua esistenza,
Come la storia che c’è dentro il polittico
E non si vede,
Gli dava l’affanno del non-essere-stato
Quando invece sapeva che era stato,
Del non avere letto o mai avuto.
La sensazione insomma di star per cominciare
A non ricordare più tutto come prima,
Mentre il vento capriccioso
Corteggiava come amante
I pioppi giovani
Fino a farli fremere.
Come un polittico, una delle più belle poesie di Buffoni, racconta la crisi dell’esperienza e della memoria personale. L’io teme di non possedere più, tutta intera, la propria biografia. Solo nelle «occasioni» straordinarie la vita si schiude e mostra il proprio senso, come la storia dipinta in un polittico che viene aperto solo nei giorni di festa. Di solito se ne vede la superficie esterna, monocroma come la vita quotidiana, che nei giorni normali sembra chiusa a sé stessa e immemorabile. Molti hanno vissuto l’esperienza che Buffoni racconta, spesso all’uscita dall’adolescenza, quando la vita smette di essere avventura o formazione e si entra in un destino, si diventa qualcosa. È allora che il tempo si trasforma da lineare in circolare, «grigio per tutti i giorni», come quello di chi lavora e sa che il giorno dopo farà e penserà le stesse cose che ha già fatto e pensato. Questa lacerazione del tempo assomma un elemento antropologico e uno storico: mentre l’uscita dal narcisismo infantile e giovanile, la scoperta della serialità di ogni esperienza e di ogni io fa parte della condizione umana, il modo in cui questa uscita si declina nel tempo sociale cambia da epoca a epoca. Se per il romanziere ottocentesco ogni esperienza è narrabile, e i preparativi di Natascia Rostova per andare al ballo in cui debutterà meritano lo stesso spazio dell’esistenza ripetitiva di sua madre o delle decisioni di Napoleone nella campagna di Russia, per il piccolo-borghese o per l’escluso delle società di massa odierne, cioè per ognuno di noi, l’esistenza è radicalmente discontinua e di norma inenarrabile. Si vivono e si ricordano solo dei frammenti, i giorni di festa di un tempo quotidiano che è ripetizione e spreco. In un’opera letteraria l’appello alla memoria e alla memorabilità degli eventi significa qualcosa di diverso da quello che significa per la coscienza reale. Mentre quest’ultima, nella sua vita desta, non sempre ricorda l’essenziale, in letteratura ricordare vuol dire sempre rappresentare, cioè, letteralmente, ripresentare, riportare alla presenza. In altre parole, se la coscienza reale può spesso dimenticare la sostanza delle cose, la letteratura ha memoria solo di ciò che ha senso e riporta alla presenza solo quello che, nella dispersione della vita empirica, si è segnalato e si è sottratto alla fuga degli eventi inessenziali. La coscienza reale è divisa in una parte che resta presente a sé stessa e in una parte inconscia, assente a sé stessa, sonnambolica, ma che contiene spesso la verità su di noi; in letteratura tutto ciò che esiste esiste nel presente dell’opera, e dev’essere o detto o alluso. «La sensazione di non essere più in grado/ di non sapere più ricordare/ contemporaneamente/ tutta la sua esistenza» vuol dire dunque questo: pochi eventi ormai sono capaci di rompere la continuità della vita normale, insensata e immemorabile; i frammenti autentici, pieni e degni di essere rappresentati sono rari. La totalità della vita è inenarrabile; solo le «occasioni» si ricordano. Come un polittico comparve per la prima volta in I tre desideri, una raccolta del 1984. In quegli anni Buffoni reagiva alla crisi dell’esperienza con l’ironia e l’understatement: scherzava sul monocromo grigio o cercava di narrarlo in forma straniata. Solo molto tempo dopo avrebbe tentato la cosa più difficile: il racconto dettagliato e tendenzialmente completo delle «occasioni», l’autobiografia in versi. Ne sarebbe nato uno dei migliori libri di poesia fra quelli mai scritti dagli autori della generazione cui Buffoni appartiene: Il profilo del Rosa.
Per narrare una storia che si rivela per frammenti Buffoni si affida a due tecniche complementari, che diventano, in virtù della loro stessa forma, due figure dell’esperienza. La prima, annunciata in Come un polittico, è l’«occasione», l’epifania; la seconda, così legata alla prima da risultare indiscernibile, è il sopralluogo. Un giorno, proprio come il polittico della poesia di molti anni prima, la casa nella quale l’io di queste poesie ha vissuto la propria infanzia si riapre. Ritornandovi, egli rivede delle cose e dei luoghi che contengono il suo passato. In un saggio famoso Jakobson associava i due assi che rendono possibile il linguaggio, quello della selezione e quello della combinazione, alle figure della metafora e della metonimia: la posizione personale dello scrittore in queste coordinate ne definisce lo stile. Quello di Buffoni è costruito su tagli violenti lungo l’asse della continguità: gli spazi bianchi fra poesia e poesia separano i ricordi; i quadri del ricordo, a loro volta, dicono dei frammenti che il lettore deve ricomporre da solo per capire l’intero della scena. Il recupero del passato è episodico e oggettuale. Quasi sempre il ricordo nasce da un luogo o da una casa; in questo caso l’atrio della casa riaperta. Si capisce che, tornandovi, l’io rivive una serie di episodi infantili che riemergono per epifanie e illuminazioni: il tentativo infantile di nascondersi contro il muro portante, il solo della casa che non avrebbe ceduto in caso di crollo; l’attesa quasi ferina dei regali la mattina del giorno di natale, il rumore del «reguitti» (un tipo di gruccia sul quale di solito si ripongono la giacca e i pantaloni da uomo) che, chiudendosi, annuncia l’uscita del padre da casa, «alle otto col caffè» e un litigio fra i genitori. Le scene riappaiono per tagli metonimici che coinvolgono ogni aspetto della percezione: il legame fra il ricordo emerso e il resto della vita, la continuità fra le parti che lo compongono, i dettagli del paesaggio. Ecco un esempio di questa tecnica:
Guarda come ha le radici piantate
E gli alberi davanti ancora a trattenerla
La casa dei malati di polmone,
E il ramarro dei colori è restato sopraterra
In ottobre addormentato e loco ormai sugli scalini
Col cappotto slacciato della statua davanti,
Doppiopetto imbrinato dalle foglie.
E cani volpi lupi cavalli pronti per un’altra
Chiesa in legno, affresco con l’unghia
Di ferro del cavallo, la scopa nell’angolo
Dietro la porta. Oppure lui al violino,
Amico mio. Biennale. Oh le termiti hanno
Un sistema nervoso centrale
Intese come termitaio, comunità.
Ancora una volta l’io rivive un’esperienza presumibilmente infantile: la scoperta di un sanatorio di tubercolotici, «la casa dei malati di polmone», come ancora ne esistevano all’inizio degli anni Cinquanta. I primi dodici versi la descrivono. Si intuisce che il sanatorio ha, al suo interno o nei paraggi, una chiesa in legno con degli affreschi, e davanti la statua di un uomo in doppiopetto. Alla fine della descrizione paratattica, come se fosse un altro particolare del paesaggio, appare, nell’atto di suonare il violino, uno dei malati. «Biennale» è probabilmente un aggettivo sostantivato che allude alla durata della sua permanenza in sanatorio e definisce la gravità della malattia, come fanno i malati della Montagna incantata quando classificano sé stessi specificando sempre il numero di anni che hanno passato o che devono passare a Davos. L’ultimo verso è un’associazione spontanea: la vita dei malati appare legata da una solidarietà comunitaria e organica, la stessa che fa di un termitaio un corpo solo, un solo sistema nervoso. Come nella poesia precedente, la totalità dell’episodio rappresentato è scissa in frammenti. Questa volta anche lo sguardo dell’io subisce la stessa frantumazione, giacché la voce che associa i malati a un termitaio appartiene a uno stadio della coscienza diverso da quella che rivede il sanatorio con uno sguardo infantile. L’origine del ricordo, come si diceva, è quasi sempre un oggetto o un luogo. Di solito, in letteratura, il sopralluogo è la forma che prende la coscienza del tempo come durata. In Proust, per esempio, il ritorno dei paesaggi e delle cose è sempre associato alla vita che si è consumata fra una visione e l’altra, o al suo annullamento nel miracolo dell’intermittenza. La distanza fra il secondo e il primo sguardo è carica di tutto quello che è accaduto in mezzo. Anche quando i due istanti non divergono, come accade nell’estasi metacronica, il tempo perduto rimane nell’orizzonte della coscienza: è la grandezza negativa che permette di riconoscere e definire gli istanti nei quali viene sospesa, e a loro volta le intermittenze sono gli attimi di vita adempiuta che permettono di giudicare l’insensatezza della vita quotidiana. Anche in uno dei poeti che più hanno influenzato Buffoni, Sereni, il sopralluogo è sempre associato all’esperienza del tempo sperperato: si pensi a Un ritorno, per esempio, o ad Ancora sulla strada di Zenna. Invece nel Profilo del Rosa il secondo sguardo si contrappone al primo senza che nel mezzo fluttui la presenza della vita che si è persa. Del sopralluogo rimane soprattutto la distanza teoretica dei due momenti: il secondo, autentico, colloca l’episodio rivissuto nella sua verità, ma senza meditare sul tempo e senza giudicare l’inganno passato. Buffoni intende mettere i due sguardi l’uno accanto all’altro, con effetti di fusione più che di contrasto. Si vuole che le cose vengano viste secondo il loro vero significato, ma che conservino la forza e lo stupore col quale sono state vissute la prima volta. Così, nella prima delle poesie citate, il dolore del bambino di fronte al litigio fra i genitori, alla rottura di quell’unità primaria a cui deve la vita, è resa da una sintassi mentale convulsa che sembra registrare solo i dettagli e la superficie dell’accaduto; ma poi la voce che commenta all’ultimo verso, come uscendo da sé e guardandosi dall’esterno, all’imperfetto e non al presente, «Erano genitori», chiosa il senso dell’episodio e lo rende esplicito con le categorie dell’io adulto. Nella seconda poesia l’accostamento delle due voci diventa visibile negli ultimi tre versi: l’associazione interiore fra il sanatorio e il termitaio non può appartenere allo sguardo infantile che è stato usato fino a quel momento, ma solo allo sguardo maturo. Ora, l’esperienza che unisce la forza dell’impressione originaria e la verità del secondo sguardo è quella del trauma, e più precisamente del trauma che ritorna. Oltre che metonimica, la luce che il trauma, ripresentandosi, getta sulle cose è piena sia dell’immediatezza della prima impressione, sia della coscienza che quanto sta accadendo è decisivo per l’intera vita. Il trauma che nel libro si ricorda è soprattutto quello della scoperta, infantile, adolescenziale e giovanile, di sé e del mondo, che è meraviglia:
Lugano e poi Varese, le aie
Dal profumo di bagnata
Campagna grata
E i cortili in profonde ferite
Filtranti un mite celeste
O forse
Fare sentire le cose
Senza il nome che hanno
ma soprattutto dolore, come nelle due poesie citate in precedenza, o in questa, che è di significato ambiguo, potendo alludere sia a un gioco infantile violento, sia a un’iniziazione sessuale:
Nel mistero profumato della stanza sacrestia
Alla funzione del mese di maggio
Rosario predica benedizione
Quando spariva con tutto il rosso il sole
Ci si immetteva scollinando verso Crenna
Il Sacro Monte nero sullo sfondo.
In un soffietto per zolfo
Nascosto sotto la panca del coro
Lupi e corvi spogliandosi
Della loro natura selvaggia
Pregavano. Aumentava intorno odoroso il mistero
Bachi da seta botti di rovere liutai
E pannocchie pannocchie all’uscita
Per la scorciatoia, la villa col prato in alto
Senza recinzione. Si acquietava il cane da guardia
Luna mula che sapore sul cancello
Dai cardini di ferro lavorato
E férmati solo quando sanguino.
In generale, Il profilo del Rosa racconta l’uscita dai confini dell’io, la scoperta che il reale è altro e indominabile: l’esperienza del bambino che incontra i conflitti primari e i limiti della persona, quella dell’adolescente che con fatica e dolore scopre chi è davvero, che cosa e chi desidera, e poi quella dell’uomo che ha ormai un destino e che comincia a sentire, nell’indebolirsi della memoria, lo scorrere del tempo. I suoi temi sono l’incontro con la morte, con la violenza, con il desiderio che domina l’io, ma anche con le cose nella loro verità, «senza il nome che hanno». La forma del trauma è l’espressione naturale di un contenuto anch’esso traumatico, perché la scoperta dell’alterità del mondo è sempre dolorosa. Sul suo rovescio si legge infatti l’irrilevanza di ogni biografia, l’insufficienza della vita personale. Buffoni appartiene a una generazione di poeti che non ha avuto difficoltà a rappresentare la propria vita, a ricordarla in letteratura. I suoi coetanei hanno parlato di sé senza schermi, né vergogna; come se tutti stessero ad ascoltarli, come se la loro vita particolare e limitata contenesse un significato universale. Naturalmente si sbagliavano: oggi, in un mondo sempre più conosciuto, prevedibile e prosaico, nella normalità come nell’avventura, ascoltare chi racconta un viaggio da Calais a Southampton su un traghetto di linea come se si parlasse degli Argonauti fa solo ridere. Quando le esperienze dotate di senso sono poche, raccontare la propria vita diventa difficile. La poesia lirica, il più soggettivo dei generi letterari, è il primo che registra questa crisi. I poeti contemporanei danno quasi tutti un’impressione di enorme debolezza: alcuni, i migliori, sono laconici, essendo poche le cose che meritano di essere rappresentate; altri, stravolgendo la superficie insensata degli eventi, diventano manieristi e si allontano da ciò che è comune e condivisibile; altri ancora, i peggiori, non si accorgono di nulla e rimangono degli ingenui. Buffoni ha cercato le poche esperienze autentiche che è ancora dato di vivere nelle stagioni dell’esistenza nelle quali la prosa del mondo non si è ancora solidificata attorno all’io: nello sguardo maturo sull’esistenza attraversata dal tempo o negli stadi dell’uscita da sé, dove il mondo si mostra nel bene e nel male come scoperta, e non ancora come ripetizione o come vuoto. Ne esce svalutata la vita normale che si svolge in mezzo agli altri, fra le convenzioni della vita sociale. Nella Casa riaperta le esperienze che si ricordano sono quelle, normalmente invisibili, che svelano i limiti e le potenze da cui la vita personale è governata. Solo in queste occasioni il polittico si apre. Di fuori, nello spazio bianco che separa le poesie, il lettore intuisce, come uno sfondo sul quale si stagliano le occasioni, la vita di ogni giorno, il monocromo grigio.