di Francesco Rocchi
Simone Giusti, tra i protagonisti del dibattito in Italia sulla didattica della letteratura, tra questo e l’anno passato ha dato un ampio contributo sulla materia, da un lato con un libro di testo per la scuola superiore (L’onesta brigata, insieme con Natascia Tonelli), dall’altro con una riflessione di carattere generale sull’affermazione della didattica della letteratura come disciplina autonoma.
I due progetti evidentemente non sono separati e si sostengono a vicenda. Io qui intendo soffermarmi soprattutto su La didattica della letteratura italiana, La storia, la ricerca, le pratiche (Carocci 2023), facendo solo in chiusura riferimento a L’onesta brigata, per confrontare l’applicazione concreta dei principi teorici enunciati nella monografia.
Devo anche confessare che, nonostante lo sforzo generoso in favore di un balzo in avanti della didattica della letteratura, non sono riuscito ad entrare in sintonia con l’impostazione di Simone Giusti.
Il libro, come da quarta di copertina, “fornisce gli strumenti concettuali necessari a intraprendere lo studio dell’insegnamento letterario con consapevolezza e responsabilità”. Questa formulazione degli scopi del libro è accurata, ma dal mio punto di vista assai problematica. Lo scopo dichiarato infatti non è pratico, bensì astratto o, per meglio dire, valoriale: più che capire come in concreto si faccia didattica della letteratura (in classe o altrove) l’intenzione è quella di far capire qual è la postura intellettuale giusta per diventare insegnanti sinceramente democratici.
Questo però è, dal mio punto di vista, il minore dei problemi. Sul senso dello studiare letteratura a scuola e sui principi generali di un’istruzione democratica e di massa c’è già un consenso abbastanza generalizzato, che infatti è stato sussunto nelle indicazioni ministeriali ed europee in maniera abbastanza pacifica.
Abbiamo risultati scolastici ancora modesti, una grande dispersione scolastica e una grande messe di problemi di cui ancora non si vede la soluzione, ma l’idea che l’istruzione secondaria di massa sia necessaria e fondamentale è ormai un punto fermo acquisito non solo in Italia, bensì a livello pressoché mondiale.
E’ sul lato pratico che è piuttosto urgente lavorare, ovvero sul come si può arrivare a inverare il progetto in generale di una scuola valida ed efficace per tutti, e più in particolare di una buona didattica della letteratura italiana. Il mio senso di urgenza non mi viene soltanto dalla fatica quotidiana di lavorare in un sistema scolastico, quello italiano, ancora assai poco funzionale, ma dalla convinzione che senza una didattica davvero efficace, che produca risultati concreti, certi atteggiamenti immobilisti ancora presenti nella scuola italiana (e che non necessariamente si auto-caratterizzano come conservatori) avranno sempre gioco facile nell’affondare ogni proposta di miglioramento didattico.
Un problema assai grande nella scuola in Italia (e altrove, a dire il vero) è infatti che i principi sono assodati e asseriti da tutti, ma le pratiche quotidiane non cambiano -e per ragioni che sarebbe semplicistico derubricare a disattenzione o superficialità dei docenti: la didattica d’aula resta stantia, la valutazione inaffidabile e arbitraria, la gestione dell’istruzione appesantita da un dilettantismo esasperante, a livello ministeriale e non solo. Si badi bene che tali difetti affliggono anche quelli che, entusiasti e innervati di spirito democratico, finiscono per dare credito a approcci che la psicologia cognitiva va smentendo in maniera sempre più convincente.
Se non si forniscono delle alternative da dispiegare rapidamente sul campo o, peggio, se ne forniscono addirittura di sbagliate, accadrà alla didattica della letteratura quel che è accaduto alla medicina ippocratica del V sec. a.C.: acuta, rivoluzionaria, sicuramente modernissima, ma sostanzialmente impotente, perché le considerazioni pratiche non potevano tradursi in trattamenti efficaci.
E’ per questo che ritengo che il troppo poco spazio concesso all’aspetto “praticone” del nostro mestiere di insegnanti finisca per essere dannoso anche dal punto di vista “teoretico”. Se anche si può obiettare che questo libro alla fine non voleva essere un manuale di didattica, ma semplicemente una riflessione accademica, è pur vero che senza dare delle risposte calabili nel contesto reale della scuola italiana, la riflessione finisce per non ancorarsi a nulla, e a disperdersi rapidamente.
Il libro, a dire il vero, non manca di una sezione intitolata “Strategie e tecniche didattiche per la scuola del tempo presente”, ma è in coda al libro, quasi a mo’ di appendice, per di più quasi tutta assorbita da riferimenti normativi e tassonomie definitorie su ciò che un’opera letteraria è o non è. Per arrivare a “Risorse didattiche per insegnare la letteratura” (par. 4.4) bisogna aspettare di arrivare a pag. 167 di un libro di 219 pagine.
Anche lì però si è molto lontani dall’entrare nel merito di cosa fare, come e quando. Simone Giusti cita meritoriamente studi e proposte valide, ma sebbene i loro fautori (Poletti Riz, Falcetto, Lemov, ecc.) le abbiano illustrate e presentate per parte loro in maniera analitica e precisa, Giusti, nelle sue sintesi pur interessanti, sembra invece considerare l’aspetto pratico quasi un dettaglio rispetto a quello valoriale.
Si ha l’impressione di trovarsi di fronte ad un generale che vuole spronare i propri soldati a combattere valorosamente e senza risparmiarsi, ma abbia trascurato di spiegare come si impugna la spada e si carica l’archibugio. Il rischio di diserzione diventa piuttosto grosso nonostante l’enfasi e il sincero trasporto.
Questo è illustrato icasticamente dal consiglio finale offerto da Giusti alla fine del libro, in una chiusura che riprende elegantemente e circolarmente l’incipit, ma che didatticamente lascia un po’ stupiti: la lettura ad alta voce in classe di un brano dalla Vita scolastica di Bonvesin de la Riva.
I principi ivi espressi sono sicuramente validissimi, ma davvero si pensa che tolti di peso da un’opera medievale minore e recitati ad alta voce lasceranno un qualche segno sugli studenti, sia pure cercando di favorire un dibattito aperto al riguardo? Cosa rimarrà a un docente di tutta l’impalcatura concettuale del libro, dopo che avrà constatato gli effetti sulla classe, e su lui stesso, di una pratica didattica che ricorda più un collegio gesuitico che una scuola del XXI sec.?
Questa incredibile gaffe è resa possibile dalla prospettiva in cui Giusti si è messo: il perno del suo approccio, che risale a Freire e ad altre pedagogie assimilabili, è che se ci si smarca dal sussiego borghese e ci si cala nelle realtà popolari con l’idea di farne emergere le potenzialità, esse sicuramente emergeranno, grazie al fatto che l’intenzione è nobile, l’animo democratico e lo spirito latamente rivoluzionario. Che le pratiche didattiche rimangano vaghe, definite più per il loro empito comunitario, comunicativo ed ideologico che per la loro efficacia, è secondario.
Simone Giusti è colui che ha portato in Italia Doug Lemov e il suo Teach Like a Champion, cioè la summa maxima dell’approccio efficientista e “mani in pasta”. E’ un peccato che lo spirito di quel libro (ma anche della proposta di Poletti Riz o di altri ancora) sia rimasto al di fuori di questa riflessione. La preoccupazione di Giusti sembra essere quella di porgere la mano alle masse popolari, che a loro volta, trasfigurate dall’attenzione e dalla considerazione che viene rivolta loro su un piede di parità e con riconoscimento sincero, saranno senz’altro in grado di impadronirsi della letteratura e fruirne efficacemente.
E’ per questo che qua e là Giusti parla di “negoziazione” con gli studenti nella stesura dei programmi di lavoro e nella preparazione della didattica: coinvolgendo gli studenti, restituendo loro una voce che questa volta sarà ascoltata con attenzione, il resto non potrà che seguire. Il mio dubbio è che il resto non seguirà: il professore penserà di aver fatto una didattica progressista, gli studenti penseranno di aver fatto tutt’altro e il punto di incontro non si materializzerà mai -un po’ come nei racconti di Starnone.
L’idea della negoziazione tra docente e studenti è seducente, ma bisogna dirsi chiaramente che non regge al confronto con la realtà: nella maggioranza dei casi, e in special modo nelle scuole più difficili, gli studenti non possono negoziare granché, perché hanno un’idea piuttosto nebulosa, se pure ce l’hanno, del percorso su cui li vuole portare il professore. Non è una critica agli studenti, questa: è il punto di partenza riconosciuto anche da Giusti e dalla pedagogia progressista, che lamenta proprio l’esclusione delle masse popolari da un mondo di cui gli studenti marginalizzati a stento sospettano l’esistenza. In tal senso la negoziazione appare squilibrata: è come un medico che non solo cerchi di essere il più chiaro e onesto possibile, ma voglia anche contrattare la terapia con il suo paziente, dal quale però è ingiusto pretendere cognizioni mediche.
Al netto di questo, con tutta l’insistita e minuziosa enfasi impiegata nelle prime tre sezioni, dedicate al riepilogo dell’arco storico della scuola italiana (già ampiamente studiato da Galfré 2017), all’esegesi delle fonti normative e infine all’elaborazione degli ambiti propri della didattica della letteratura (in connessione con la crisi della critica), il libro finisce per peccare di astrazione e di un’ansia definitorio-accademica assai prossima all’astruso: “Poiché non esiste una conoscenza del testo che non passi attraverso la lettura, si legge ancora in Nemesio, è necessario riconoscere che “il solo soggetto di studio testuale che possiamo avere è costituito dall’esito di un atto di lettura” (p. 113). Quel che io ricavo da questo passaggio, con fatica e con sforzo, è che un testo che non legge nessuno non val la pena di studiarlo, e bisogna studiare soltanto quei testi che hanno una qualche circolazione, ovvero qualche lettore, il quale di tal testo avrà una sua opinione. Riconosco la verità di questo passaggio, ma non mi sembra una grande acquisizione. Se ho citato questo passaggio è perché il tenore del libro è spesso questo.
La ragione per cui una persona intelligente si perda in una tassonomia e in disquisizioni da novello Manfurio aristotelico mi sfugge. Devo limitarmi a constatare con amarezza che in questo come molti altri libri dell’accademia italiana (ma non tutti), la prosopopea fa aggio sulla chiarezza e sulla perspicuità. Di didattica e pedagogia mi è più facile leggere in inglese che in italiano, e non per una mia particolare familiarità con la lingua di Shakespeare.
Tanto più grande è l’amarezza se poi vado a vedere il distillato di queste riflessioni nell’opera che fa da contraltare pratico e operativo alla riflessione di Giusti, L’onesta brigata. Questo libro ha alcuni pregi significativi (su tutti, l’aver tolto l’estenuante riferimento alle figure retoriche sulla falsariga di quanto già proposto da Claudio Giunta), ma si discosta poco dalla prassi didattica tradizionale.
Lo schema rimane quello di introduzione storica, biografia, opere e poi testi ed esercizi: quel che nella sua monografia Giusti stesso avrebbe definito un approccio passivizzante, accentuato anche dagli esercizi e dalle parafrasi rigidamente guidate. Il numero sorprendentemente ridotto dei testi proposti (nel primo volume, ad es. solo sei testi dalle origini a Dante) non solo rinforza l’idea tradizionale di una storia letteraria fatta di medaglioni (i grandi autori che nel libro diventano “i monumenti”), ma ravviva la vecchia idea che lo studio letterario nella scuola superiore altro non sia che una riduzione più o meno estrema del sapere accademico (soprattutto negli indirizzi non liceali).
Per cambiare approccio non basta inserire testi ammiccanti alle nuove generazioni (gli adolescenti già non leggono più Martin, bensì Erin Doom, e domani chissà) o compiti di realtà che per essere tali dovrebbero essere elaborati dal docente, piuttosto che forniti in versione standard dal libro di testo. Non basta nemmeno usare una prosa apparentemente chiara (e sicuramente più chiara di certe astruserie di altri libri di testo) per ottenere una didattica nuova: la semplicità della prosa è infatti a servizio di una sintesi talmente densa che il lettore novizio rischia di perdere molto della comprensione e di ritornare ad uno studio mnemonico scarsamente critico.
In conclusione, lo sforzo di Giusti in La didattica della letteratura italiana è generoso, le sue letture ricche e l’empito ideale sincero e vissuto, ma forse tutto questo rimane al di qua di un vero cambiamento della didattica della letteratura italiana. Ed è un peccato.
Grazie per questo intervento.
Il difficile rapporto tra teoria e pratica continua a essere il problema della scuola italiana.
Condivido l’analisi in pieno: leggendo il testo di Giusti ho pensato lo stesso e, pur applicando il WRW e la lettura ad alta voce da diversi anni e credendo nella loro validità, sono lontana dal ritenerli risolutivi e davvero capaci di rendere i ragazzi lettori e scrittori per la vita. Molte domande su come rendere la didattica della letteratura davvero efficace restano a mio parere aperte. Anch’io ho notato una discrepanza tra i proclami teorici di Giusti e l’impostazione molto tradizionale de “L’onesta brigata”, oltre che un certo disprezzo per altri autori, come Zinato, che nel suo saggio ha avanzato proposte didattiche molto più concrete, benché forse riferite prevalentemente a contesti liceali.