a cura di Andrea Afribo
L’Istituto Italiano di Cultura a Mosca ha pubblicato in edizione bilingue l’antologia Nuova poesia italiana dal 1980 a oggi, a cura di Andrea Afribo. Si tratta dell’antologia più ampia di poesia italiana contemporanea in lingua russa degli ultimi quarant’anni. Ha coordinato il progetto la direttrice dell’Istituto Italiano ci Cultura a Mosca, Daniela Rizzi. Il libro include le poesie dei seguenti autori: Milo De Angelis, Valerio Magrelli, Vivian Lamarque, Patrizia Valduga, Fabio Pusterla, Umberto Fiori, Silvia Bre, Mario Benedetti, Stefano Dal Bianco, Antonella Anedda, Guido Mazzoni, Stefano Strazzabosco, Massimo Gezzi, Gherardo Bortolotti, Franca Mancinelli, Italo Testa, Stefano Carrai. L’antologia è frutto di un lavoro collettivo: tutti i testi sono infatti stati tradotti in russo dai collaboratori dell’Istituto con l’eccezione di tre poeti (Antonella Anedda e Vivian Lamarque tradotte da Evgenij Solonovič, indiscusso maestro della traduzione poetica dall’italiano in russo, e Franca Mancinelli, tradotta da Vera Kazarceva).
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Introduzione
di Andrea Afribo
L’antologia contiene 17 poeti e poetesse e, se non abbiamo contato male, ben 194 testi. La raccolta più ‘antica’ risale al 1980. È Ora serrata retinae, esordio originale e fortunatissimo (che piacque molto al regista Federico Fellini e allo scrittore Italo Calvino) dell’allora poco più che ventenne Valerio Magrelli. Del 2021, praticamente ancora fresche di stampa, sono le raccolte più recenti: Linea intera, linea spezzata di Milo De Angelis e Equinozio di Stefano Carrai. Diciamo in sintesi che la presente antologia ambisce a rappresentare (con tutti gli ovvi limiti soggettivi e di spazio) la storia o una storia della poesia italiana dal 1980 a oggi. Con qualche eccezione, tutte le autrici e gli autori antologizzati appartengono a quella che è stata chiamata la generazione dei boomers e tutte e tutti o hanno ‘debuttato’ o addirittura sono nati dopo il 1968.
Il Sessantotto non è, ovviamente, una data qualunque. È uno snodo e una faglia, una cesura. Lo è per la storia in generale (politica, culturale, del costume e dello spettacolo, dei rapporti tra generazioni, tra padri e figli eccetera) e lo è, anche, per la storia poetica italiana. Sintetizzando le posizioni e le opinioni critiche di quegli anni potremmo dire che il Sessantotto e gli anni che seguono rappresentano per la poesia l’inizio di una ‘brutta storia’, piena di incognite, indegna di essere letta e studiata da chi aveva studiato i grandi della poesia italiana del Novecento – Montale, Ungaretti, Saba, Luzi, Sereni, Zanzotto eccetera eccetera.
La poesia italiana del Novecento prima del Sessantotto è ricca, inquieta, polimorfa, è un campo di tensioni ‘elettrizzato’ da linee dominanti e opposti schieramenti. La posta in gioco è alta e ogni scelta estetica è insieme sentita come filosofica, morale, politica. C’è la poesia ermetica, il cui incunabolo è la raccolta Sentimento del tempo di Ungaretti, e Stephan Mallarmé e Paul Valéry i modelli europei. Siamo negli anni Trenta del secolo, quando in rapida successione compaiono i capolavori dell’ermetismo: La barca e Avvento notturno del fiorentino Mario Luzi, Isola del siciliano Alfonso Gatto, oppure Acqua e terre o Oboe sommerso del futuro premio Nobel Salvatore Quasimodo. Gli ermetici pensano e scrivono una poesia in una lingua tanto elegante e preziosa, quanto oscura, cifrata, enigmatica. Esprimono il male di vivere, il cruccio interiore, lo spaesamento dell’io e il suo rapporto difficile e tragico con la Storia, ma i dati esistenziali e i contesti storici sono filtrati, allontanati, quasi cancellati. Si può dire che nella poesia degli ermetici la realtà non esiste essendo inconciliabile con il desiderio di eterno e di ascesi, e inaccettabile per una poesia che vuole essere sempre pura e assoluta.
Nel 1939, nell’anno tra i più cupi del Novecento, escono ad appena un mese di distanza Le occasioni di Eugenio Montale (il suo secondo libro dopo gli Ossi di seppia del 1925) e le Rime di Dante commentate dal critico e filologo Gianfranco Contini. Sono due libri che in quel tragico anno sono accolti come baluardi di civiltà contro la barbarie del nazifascismo e della guerra. Anche le poesie delle Occasioni sono in qualche modo ‘ermetiche’: sono splendide e difficili insieme, talvolta effettivamente oscure; la loro lingua è la lingua di un poeta dotto e colto, che vuole opporsi stoicamente e aristocraticamente al crollo dei valori, allo sfaldarsi dell’esistenza e al grigiore del mondo. Diversamente dagli ermetici però, il messaggio universale della poesia montaliana non rinnega i dati empirici e non allontana la Storia. La sua lingua, pur ricercata e preziosa, è precisa, concreta e ben attaccata alla realtà: «tout entier à sa proie attaché» per citare lo stesso Montale, dove la proie, la preda, è appunto la realtà. Il nucleo dell’energia allegorica della poesia montaliana risiede proprio nella rappresentazione del vissuto privato e pubblico; il suo messaggio universale ha origine dalle occasioni, appunto, dei fatti quotidiani e del tempo cronologico.
Proprio il senso del reale e della Storia intrinseco a Montale (e in questo senso è ancor più fondamentale il suo terzo libro, La bufera e altro del 1956), ma profondamente presente, in modi diversi, anche nella poesia di Umberto Saba, anche nel realismo della lingua di Dante ritornata in auge, e anche nella nuova poesia anglosassone di Eliot e Pound, è la forza che ha giocato più a fondo nella costituzione di una nuova coscienza espressiva della poesia italiana che porta, direttamente o indirettamente, a quella straordinaria stagione che sono gli anni Sessanta. Negli anni Sessanta l’Italia cambia radicalmente: smette di essere un paese arcaico e contadino per diventare moderno, neocapitalistico e industriale. Solo un esempio concreto, per visualizzare il salto nel futuro compiuto dall’Italia di allora: nel 1947 un’azienda italiana di elettrodomestici poteva produrre una lavatrice al giorno, negli anni Sessanta, nel ’67 precisamente, ne avrebbe prodotta una ogni 15 secondi. Ricordando gli anni Sessanta lo scrittore Italo Calvino ha detto: «ciò che è avvenuto è stata una rivoluzione della mente, una svolta intellettuale, qualcosa che ha cambiato in profondità molti dei concetti con cui avevamo avuto a che fare». Il «mondo è un serpente che sta mutando pelle» ha scritto Eugenio Montale in un articolo del ’64.
Anche la poesia italiana cambia pelle. I poeti (tra i maggiori Vittorio Sereni, Giorgio Caproni, Attilio Bertolucci, Giovanni Giudici, Franco Fortini, Giovanni Raboni, Pier Paolo Pasolini) accettano la sfida della modernità, modernizzano il loro linguaggio e chi era stato ermetico adesso non lo è più. Mario Luzi ad esempio, che nel 1963 pubblica la raccolta Nel magma. Il magma è la nuova realtà, ovvero il proprio presente a cui l’io del poeta va incontro uscendo dalla propria torre d’avorio di un tempo. Le sceneggiature della nuova poesia trovano i loro set effettivi e simbolici nei luoghi della società contemporanea: uffici, bar, hotels, appartamenti borghesi, cinema, scompartimenti di treni, autostrade, fabbriche. Negli appartamenti di Luzi si ascolta musica jazz, Sereni fa una poesia sui Beatles. Una poesia di Pasolini (Una disperata vitalità, 1964) è la cronaca in soggettiva di una lunga intervista che si svolge a bordo di una macchina sportiva («pilotando la sua Alfa Romeo»).
Cambiano i luoghi, i motivi e i temi e così muta radicalmente la forma e il linguaggio della poesia italiana. Entrano massicciamente le parole delle ideologie, i gerghi e le mode contemporanee, entrano anche le brutte parole come merda o puttana, entra l’inglese che sostituisce i più tradizionali francesismi e latinismi. La sintassi accoglie il parlato dei discorsi diretti o dei dialoghi. E soprattutto: la poesia non è più un monologo ma un intreccio di voci e di personaggi con cui l’io si incontra e si scontra. Il che significa anche che la poesia non è più solo poesia e che la lirica pura e assoluta degli ermetici è un lontano ricordo e un obiettivo polemico. E anzi: «la parola stessa, “lirica”, è usata malvolentieri, con riluttanza» come scrive Vittorio Sereni. La parola d’ordine è, adesso, contaminazione. La nuova poesia si mischia, si contamina (sporca la sua purezza) con altri generi testuali: il romanzo, il teatro, l’articolo di giornale, il saggio, il comizio politico. Gli stessi titoli poetici tradiscono queste trasmigrazioni di genere e penso a Comizio di Fortini, oppure a Romanzo di Raboni, a Teatro di Giudici.
Negli stessi anni, a liquidare come anacronismo o rituale arcaico la ‘vecchia’ poesia della prima metà del Novecento, quella dell’ermetismo e dintorni, ci pensa anche lo sperimentalismo radicale dei poeti della cosiddetta neoavanguardia: Edoardo Sanguineti, Antonio Porta, Nanni Balestrini o Alfredo Giuliani tra gli altri. Nel 1961 esce la loro antologia-manifesto, I novissimi. Poesia per gli anni Sessanta. È un evento editoriale che sfocerà qualche anno dopo nella fondazione del «Gruppo 63». Nell’introduzione, firmata da Giuliani, si leggeva significativamente: «Pochi anni e tutto è cambiato: il vocabolario, la sintassi, il verso, la struttura della composizione […] Le tecniche della cultura di massa comportano una scomposizione mentale di cui occorre tener conto». Non solo si sbriciolano le regole auree della poesia della tradizione novecentesca ma anche le più elementari regole della comunicazione e della coerenza discorsiva. Il «medium e il messaggio» è una famosa frase del sociologo canadese Marshall Mc Luhan, ed è perfetta per sintetizzare gli obiettivi di un poeta della Neoavanguardia come Sanguineti. Il caos e il nonsense della sua lingua vogliono rappresentare e denunciare il caos, l’insensatezza e le contraddizioni della società contemporanea, ed essere la «mimesi critica della schizofrenia universale» per citare ancora dall’Introduzione di Giuliani.
Questa (molto in breve, con molti schematismi e con moltissime, troppe!, lacune) è la storia della poesia italiana del Novecento prima del ’68. Una storia – lo abbiamo detto – ricca, complessa, con posizioni irriducibilmente diverse se non agli antipodi, continui cambi di tensione e di passo, accelerazioni, strappi, salti di livello. Ma pure una storia lunga e continua nonostante le discontinuità. Perché i poeti, gli scrittori, gli intellettuali (quasi tutti nati tra gli anni Dieci e i primi anni Trenta del secolo) potevano giocare partite diverse o diversissime ma le giocavano sullo stesso campo: quello della comune partecipazione a esperienze collettive primarie come le guerre mondiali o almeno una delle due; quello di una idea forte della Cultura e della Letteratura (usiamo pure le maiuscole!); quello di un rapporto più o meno organico con la tradizione fosse anche per cambiarla (come nel caso dei grandi poeti anni Sessanta, v. Sereni o Luzi o Giovanni Giudici), o per deriderla o liquidarla (v. Sanguineti e la Neoavanguardia); quello di avere un pubblico e lettori che credevano ancora ai poeti, e così via. Ma è, lo ripetiamo, una storia che il Sessantotto e gli anni successivi interrompono traumaticamente e inesorabilmente. Cosa succede?
Padri e figli non si riconoscono più, non si amano, si ignorano, si odiano. Da una parte i padri, Pasolini ad esempio. Che dalle pagine del «Corriere della sera», nei suoi famosi Scritti corsari (primi anni Settanta), usa toni apocalittici per descrivere il nuovo che avanza, e parla di «mutazione antropologica», di una nuova era di «edonismo di massa», di «consumismo», di «omologazione culturale» e «conformismo». E non ha nessuna pietà e comprensione per la nuova – e per lui peggiore – gioventù, per i cappelloni, per i loro jeans, la musica rock e la loro mancanza di cultura. All’amico Enzo Siciliano, proprio nel 1968, Pasolini pronostica un futuro «come fine di tutto» e scrive così: «nella nostra “cultura” è compresa l’idea di letteratura, in quella degli studenti no». Pasolini non è il solo a pensarla così. Anche Calvino ad esempio, per i nuovi scenari postsessantotteschi, non parla più di «avventura della mente», ma di «frana», «collasso», «cancrena» o di «assuefazione al peggio della società».
E in effetti i giovani poeti esordienti (generazione che per la prima volta è nata al di là delle due guerre mondiali) sembrano proprio dare ragione a Pasolini e a Calvino. Nell’antologia che per prima e meglio ha fotografato il nuovo panorama poetico (si intitola Il pubblico della poesia, è uscita nel 1975 e i suoi curatori sono Alfonso Berardinelli e Franco Cordelli), trionfa infatti tutto ciò che è rifiuto: rifiuto della cultura e dei principi della lingua poetica precedente, fosse anche di quella recentissima (gli anni Sessanta), pur responsabile – lo abbiamo visto – di una modernizzazione decisiva. L’aggettivo più frequente presso la critica di quegli anni per definire una certa poesia sessantottesca, quella più radicale, è selvaggia. Ed è un aggettivo perfetto, perché i testi che più incarnano lo spirito del tempo sono effettivamente scritture selvagge, cioè programmaticamente prosastiche, volutamente sciatte e scritte male. Ma scrivere male e senza stile o l’analfabetismo culturale sono sentiti come valori, pregi e non difetti: significa essere più autentici, più veri e più spontanei, antiborghesi e controculturali. Il giovane poeta sessantottesco non ha più regole né modelli, e se li ha non sono Montale o Luzi o Sereni ma la canzone pop e i poeti beat americani, Allen Ginsberg ad esempio. Le stesse serate di poesia assomigliano a un happening o a un concerto rock. È su questo sfondo ed entro questa cesura, questo vuoto o questa mutazione, entro questo fascio di «fenomeni di sgretolamento di una tradizione, di un campo e di un ruolo» (come ha scritto nella sua Introduzione Alfonso Berardinelli), che noi dobbiamo leggere e situare la storia della poesia italiana dopo il Sessantotto – fenomeni che negli anni si sono espansi e aggravati riducendo sempre più la poesia a una «piccola cosa dimenticata» (così il poeta Giuseppe Conte): letta da pochi, a lungo semiabbandonata dalla critica che conta, progressivamente messa all’angolo da una cultura pop sempre più pervasiva e aggressiva nel togliere alla poesia il diritto di rappresentare le emozioni, i crucci e le ansie della soggettività. Corollario non ultimo: i migliori poeti di oggi sono molto, molto meno conosciuti dei migliori poeti di ieri.
Ma la poesia, e pure – figuriamoci! – la poesia italiana contemporanea, è decisamente più complessa e vitale di quanto possa sembrare da una prospettiva sociologica e dunque dalla sua posizione o reputazione socioculturale. Nonostante il suo sgretolamento la poesia si dimostra infatti indistruttibile, la sua storia recente non è effettivamente l’inizio di una ‘brutta storia’ come si diceva all’inizio, e i ‘poeti veri’ non mancano mai, come dimostra questa antologia.
Già infatti gli anni Settanta non sono solo sinonimo di poesia selvaggia, di spontaneismo e di disordinata creatività, ma possono contare su esordi importanti, di poeti destinati a durare e ad assumere quel ruolo di modelli o padri che essi stessi avevano in principio, e per principio, rifiutato. Penso a Invettive e licenze (1971) di Dario Bellezza, a Le mie poesie non cambieranno il mondo (1974) di Patrizia Cavalli o a Il disperso di Maurizio Cucchi pubblicato nel 1976. Nello stesso anno è l’uscita del notevolissimo Somiglianze di Milo De Angelis forse (ma per noi sicuramente) il poeta più importante e carismatico della poesia italiana di questi anni. Ed è proprio con lui che abbiamo voluto aprire la nostra antologia, con un testo, 9 agosto 1941 (dalla raccolta del 1985 Terra del viso), che è un intenso omaggio alla figura tragica di Marina Cvetaeva e insieme un esempio perfetto della potente e originale, tesissima, scrittura deangelisiana.
Con l’eccezione di De Angelis, gli altri sedici poeti scelti hanno tutti esordito a partire dagli anni Ottanta, e l’ordine interno del libro rispetta sostanzialmente l’anno d’uscita della loro prima raccolta. Possiamo subito dire che i poeti degli anni Ottanta – e dei decenni successivi – ritrovano la fiducia nell’espressione poetica. E così la mancanza di regole non è più la regola, aumentano sensibilmente la cura e il controllo della scrittura, risale dunque il valore letterario dei testi spesso carichi o sovraccarichi di cultura e stilisticamente manieristici. Viene recuperato quel senso della Tradizione, sia antica che Novecentesca, che invece gli anni Settanta avevano dimenticato o fatto finta di dimenticare. Un preciso segnale di manierismo sono, proprio allo scoccare del decennio, i titoli in latino di due importanti, emblematiche e fortunatissime raccolte di esordio: Ora serrata retinae di Valerio Magrelli, e Medicamenta di Patrizia Valduga (occupano il secondo e il quarto posto della nostra scelta). Le loro scritture, pur da sponde opposte, sono appunto il documento di una ritrovata coscienza linguistica. Da una parte Magrelli, che indaga, come tutti i poeti, la complessità e il disordine del mondo, l’enigma delle cose e del proprio io, ma usando una lingua quasi da scienziato, cioè pulita, esatta, ordinata e controllatissima anche se in presenza di una importante componente fantastica e immaginativa: un perfetto connubio di geometria e finezza, di precisione e grazia poetica e visionaria. Niente di più lontano dalle improvvisazioni e dalla scrittura volutamente rough di un poeta selvaggio o beat anni Settanta. Al contrario, per Magrelli come per i suoi più immediati modelli, Italo Calvino, Paul Valéry, Francis Ponge, vale la seguente regola del filosofo tedesco Walter Benjamin: «la descrizione della confusione è qualcosa di diverso da una descrizione confusa». Al suo illustre prefatore, Enzo Siciliano, Ora serrata retinae sembrò giustamente «una poesia che ricominciava da capo».
Dall’altra parte Patrizia Valduga, la quale sente il bisogno di disseppellire ciò che il Novecento con il suo verso libero aveva dimenticato e sepolto da un pezzo e cioè sonetti, canzoni, sestine, terzine dantesche, e poi le rime e i versi tradizionali, i classici endecasillabi e settenari. E dopo averle recuperate ecco che subito le sfigura, le sporca con contenuti scabrosi e maledetti, sbattendo in faccia al lettore i suoi amori pornografici, le sue patturnie, il suo turpiloquio o il suo chiacchiericcio iperquotidiano. È un progetto che piace molto e che fa molti proseliti nella poesia italiana tra anni Ottanta e primi anni Zero: Patrizia Valduga ne è di fatto l’inventrice e la personalità più di spicco insieme con il napoletano Gabriele Frasca. È un progetto che possiamo senz’altro definire ‘neometrico’, e la sua formula potrebbe anche essere sintetizzata nel modo seguente: creare un cortocircuito e uno choc tra l’aulico e il sublime delle forme antiche e i temi della società contemporanea, spesso con risvolti comici, pop o trash ma non solo. Si veda infatti l’intenso, viscerale, arrabbiato e per niente comico Planh per Pier Paolo Pasolini di Stefano Strazzabosco (il dodicesimo poeta antologizzato), che ricalca la forma di un’antica poesia in lingua provenzale, il Planh in morte del barone di Blacatz, del poeta mantovano Sordello da Goito (poeta tra l’altro ricordato da Dante nel suo Purgatorio).
Ma al di là dei neometrici e del loro quasi eccessivo e senz’altro nevrotico riuso del passato e della Tradizione, e a dispetto della topica ‘fine dei modelli’, se noi guardiamo ai poeti e ai testi della nostra scelta non possiamo non riconoscere altre tracce (magari sbiadite), altre linee (magari solo tratteggiate o confuse), altre filiere (magari intrecciate, mutate, mischiate) dei grandi serbatoi delle scuole e dei maestri della poesia del Novecento, quella ‘prima del Sessantotto’. Ovviamente il tutto senza sottovalutare nemmeno per un momento la forza delle novità che ogni poeta qui antologizzato porta con sé. Facciamo qualche esempio per iniziare a concludere questa già lunga introduzione.
Non si può ad esempio leggere Vivian Lamarque e il suo contrappunto tra forma leggera e cantabile e temi psichici drammatici, senza pensare alla poesia di Giorgio Caproni o di Sandro Penna. E non si può leggere la poesia di Fabio Pusterla (ma poi anche mutatis mutandis quella di Massimo Gezzi, di Stefano Carrai o Italo Testa) senza immaginarci sullo sfondo le lezioni di metodo di Sereni e della poesia anni Sessanta (ma anche, a monte, di Montale), cioè una poesia che attraverso il particolare concreto della propria esperienza e del proprio sguardo sul mondo e sulla storia arriva a parlarci di grandi temi universali: il male di vivere, l’eterna lotta tra vittime e potenti, le ingiustizie sociali (i migranti come nuovi schiavi di Pusterla e Carrai), ma anche l’amore, l’amicizia, l’età della vita, lo scorrere del tempo, i morti, eccetera. Ancor più di quella dei loro modelli la loro lingua tende al prosastico, è impura quanto basta, sa attingere al parlato di tutti i giorni ma non rinuncia ad essere poetica. Anche Antonella Anedda, tra le voci più importanti della poesia italiana di questi decenni e già a partire dalla sua raccolta di esordio, Residenze invernali, scrive in una lingua semplice, ma con una differenza sostanziale e decisiva. Le sue parole sono usuali e concrete – «Non sono le nobili cose che nomino in poesia» ha scritto infatti lei stessa, ma è altrettanto vero che il materiale umile e quotidiano viene trasfigurato e nobilitato da un uso importante di figure di chiara ascendenza lirica, da raffinatezze stilistiche, dalla tensione all’analogia, da angoli del testo semanticamente ciechi o senz’altro enigmatici. E in conclusione, per tutto questo, non è sbagliato pensare la poesia di Antonella Anedda come una riattualizzazione, una versione aggiornata e personale dei principi dell’ermetismo e del simbolismo. E qualcosa di molto simile si può dire di un’altra poetessa di questa antologia, Franca Mancinelli.
Continuiamo. Nei testi di Guido Mazzoni e Gherardo Bortolotti, nel loro negare o reprimere i caratteri di ciò che comunemente si intende per poesia, possiamo intravedere la continuazione sotto altre forme di sperimentalismo e neoavanguardia. Abbiamo detto ‘sotto altre forme’ perché non ci troviamo più di fronte a scritture in cui sono la regola il plurilinguismo in libertà o il caos sintattico programmato, ma ci troviamo a leggere testi scritti rigorosamente in prosa, in una prosa sintatticamente perfetta, più intellettuale che poetica, educata a contenere o a reprimere le emozioni, ad essere asceticamente non metaforica e a non battere ciglio pur parlando di alienazione, angoscia, piccole e grandi catastrofi. L’ottica e la mission di queste scritture (non a caso autodefinitesi prosa in prosa) sono quindi sperimentali e antiliriche, ma i possibili riferimenti sono non più Sanguineti ma semmai la nudité e la littéralité del francese Jean-Marie Gleize (e più su di Francis Ponge) o la tradizione del New Sentence americano, per fare un nome: Ron Silliman.
Ma ripetiamolo: le tracce del non contemporaneo e della tradizione, che sin qui abbiamo segnalato, non oscurano la nuova poesia contemporanea ma ne enfatizzano la capacità di rinnovarsi, promuovono nuove progettualità e spingono verso mète sempre diverse. Com’è il caso del geniale sistema poetico di Umberto Fiori, in cui addirittura – almeno nei primi libri fondativi: Esempi e Chiarimenti – quasi non esiste ciò che da sempre è inevitabile nel genere poesia, cioè l’io.
Quello che è sicuro è che le quasi duecento poesie dei 17 poeti di questa antologia sono state scelte non solo perché sono una sineddoche obiettivamente rappresentativa (per quanto possibile) del panorama poetico degli ultimi decenni in Italia, ma anche perché sono poesie all’altezza della poesia del passato e soprattutto all’altezza, o per meglio dire ‘alla profondità’, della ‘grande poesia e basta’, come i testi meravigliosi di Mario Benedetti, Stefano Dal Bianco e Silvia Bre. E in conclusione non possiamo non segnalare al lettore russo, primo destinatario di questa antologia, il trittico seguente: 31 agosto 1941, la già ricordata, tragica e straordinaria poesia di De Angelis sull’atto finale della vita di Marina Cvetaeva; oppure Stlanick di Fabio Pusterla, in cui è riconoscibile la figura di Osip Mandelstam «in cammino: / oltre la fatica e il deserto», e infine Cartina muta, l’omaggio intimo e delizioso di Vivian Lamarque al principe dei traduttori russi, Evghenij Solonovitch.
[Immagine: Carolyn Carr, Bouquet, 2018].
Uno dei tanti casi nella mia vita in cui vorrei conoscere il russo