Tra Kaz, Sartori, Morelli e Magliani e con la gentile partecipazione di Orwell, Durrell, Borges, Laiseca, Leopardi, Malerba et al.
di Francesco Spiedo
Da quando un po’ per scherzo è nato il progetto Gli ironici[1] non faccio altro che intercettare riflessioni sul comico, per quel curioso fenomeno chiamato sincronicità o, più semplicemente e in un linguaggio meno tecnico, tirannia virtuale degli algoritmi nascosti anche dentro le gomme da masticare. Comico in senso lato, dicevo, in quella che si intende più una postura e un’indole degli autori, siano essi attori, scrittori o personaggi televisivi. Sulle pagine de Il Tascabile ho letto un bellissimo articolo di Cirillo e poco dopo mi sono imbattuto, curiosamente ma non del tutto casualmente, nelle parole di Albani[2] in coda al testo triforme Animali non addomesticabili. Materiale disorganico, appunti per una prefazione, dice. A ogni modo, si chiede quale sia il luogo adatto per una mosca, come viva una mosca e cosa debba provare una mosca nella stazione di Firenze o forse era Bologna. Una riflessione assurda[3], comica, cinica, illuminante sulle mosche e la loro esistenza che diviene così simile alla nostra. Ma mi concentrerei sulla questione delle spazio abitabile: se il luogo ideale per una mosca è la merda, perché le ritroviamo anche in luoghi dove la merda non c’è? Ella è solo apparentemente assente? Siamo noi la merda, per questo ci inseguono? Comunque, compiendo sette salti logici e due sul posto, domandiamoci: qual è il posto del comico, oggi? Dove vive meglio, dove soffre, dove c’è e non dovrebbe esserci, dove non c’è e dovrebbe starci, insomma qual è la sua merda e qual è la sua stazione di Firenze o forse era Bologna?
Per provare a inseguire una risposta sono partito da due testi, diversi per approccio e persino specie narrativa. Il già citato Animali non addomesticabili di Sartori, Morelli e Magliani e Vite di animali illustri di Kaz. L’habitat del comico, se vogliamo cercarlo, non è qualcosa di limitato dalla specie narrativa: Sartori, Morelli e Magliani scrivono dei racconti, Kaz riunisce dei reportage narrativi, ma con gli animali e degli animali potremmo citare anche alcuni romanzi, come Il più grande uomo scimmia del Plestiocene di Lewis, La fattoria degli animali di Orwell e La mia famiglia e altri animali di Durrell. Questo ci sembra suggerire che la commedia è una forma, strutturata su tre atti e di natura principalmente teatrale, mentre il comico è da intendersi come una postura. Il comico come possibilità di raccontare cose altrimenti irraccontabili, ma allo stesso tempo mezzo per far pensare a cose altrimenti impensabili: è strumento narrativo. Diversi dicevamo, ma accomunati da uno spirito unico: un afflato comico persino laddove le pagine si fanno più tragiche. Quindi un’idea comune di ironia che riempie le storie, che si evince dallo sguardo del narratore o dalla voce dei personaggi, che appare e scompare tra le righe. Ad avvicinarli c’è anche dell’altro: Kaz è pubblicato nella collana Compagnia Extra di Quodlibet diretta da Cavazzoni (qui trovate una splendida intervista a cura di Graziano Graziani), mentre gli animali vivono tra le pagine di quisiscrivemale, forse la collana più identificativa di Exorma Edizioni. Alcuni autori hanno pubblicato in entrambe le collane, passando da una casa editrice all’altra, perché più che definire un genere rappresentano un modo di guardare alla letteratura: spazi di libertà e sperimentazione dove spesso l’ironia è l’arma bianca. In Italia, se come lettori si prediligono testi di questo genere, sono due collane dalle quali attingere a occhi chiusi.
Osserviamo più da vicino questi Animali non addomesticabili e le Vite di animali illustri. Il primo, un testo triforme e tripartito, è sicuramente più complesso e ricco di spunti che però ritroviamo anche nel secondo: iniziare con lui ci permette di anticipare concetti che svilupperemo meglio più avanti perché in entrambi vi sono gli animali come soggetto/oggetto, oltre che come elemento accattivante presente già nel titolo. Accattivante almeno per me che ho un debole per i libri con gli animali in copertina, ancor di più se presenti anche nel titolo, quindi potrei essere decisamente falsato nel mio giudizio. Questo volume, che include ben 39 racconti scritti da sei mani diverse, sintetizza bene il lavoro che si può operare con il mondo animale e con il comico. La prima possibilità è quella che definirei dello spingere sul prevedibile, ossia gli animali si comportano esattamente come potremmo immaginare: sono gli animali di Sartori, una voce rassicurante e umanizzante, che procede per mimesi. Si sorride e le pieghe del comico appaiono quando riconosciamo un comportamento umano: è la formica che da secoli deve essere parsimoniosa e sogna una vita di sospiri, ha i grilli per la testa come un giovane che non vuole adeguarsi alle regole del mondo, ma è anche il polipo che racconta come è scampato alla pentola, il dromedario che sogna il deserto che fu, silenzioso e senza macchine. Gli animali sono tipi umani, in una tradizione che viene dalla favola.
Madonna mia, possibile che in tutto questo sconfinato non so che cosa l’unico essere vivente sia io?
Poi c’è Morelli, provocatore e sperimentalista: gli animali hanno difetti di pronuncia, si esprimono in dialetto, sono sorprendenti e imprevedibili. L’animale è animale e ci regala l’esaltazione dell’impensabile. Procedendo in direzione opposta, puntando all’inaspettato, genera e segue un’altra via comica: non si può non sorridere dinanzi alla sogliola trapanese che prova in tutti i modi a consigliare altre pietanze che la lascino in vita, alla vongola verace napoletana che si domanda chi siano questi spaghetti e questo signor peperoncino che oltraggiano la sua pudicizia, alle tabelline di un millepiedi che conta sui piedi. Qui sono animali che fanno gli animali e che, non si può dire pensano come animali perché non abbiamo certezza di come pensino davvero, ma diciamo si ritrovano a pensare e interrogarsi su cose umane – come un piatto di spaghetti e vongole – dalla prospettiva animale. Di chi alle volte non sa, non conosce e non capisce. C’è un dislivello di conoscenza tra i narratori e il lettore, che invece sa, ed è qua che si nasconde il potenziale del riso.
A mi a parerme no me pare. Però così ghe diceva un professor che diceva che per noialtre vache, tute le notti sono nerre, ma mi, proprio sicura non son, per la reson che a la sera son stanca morta e a una cert’ora me piase de andare a dormire, però non me par.
Infine, Magliani chiude il volume con due racconti decisamente più lunghi di quelli dei suoi colleghi e con una diversa prospettiva. Sono racconti in terza persona, con protagonisti i cani, così simili agli uomini da essere davvero umanizzati nei sentimenti, nei desideri, nelle pulsioni. C’è un processo di immedesimazione estremo, un’empatia che raggiunge momenti di ilarità e di grande tragedia. Una vita da cani, letteralmente. Questo per completare un volume vario e multiforme. Non è un caso che laddove la scrittura si fa più empatica viene meno la forza esplosiva e dirompente del comico: Morelli pare fregarsene e i racconti sono fulminei, Sartori prova un affetto che la risata spesso costringe a nascondere, Magliani è dalla parte del toro – o meglio del cane abbandonato. Nei tre autori la componente comica è inversamente proporzionale all’empatia.
Se fosse durata sarebbe stata la quinta estate sotto le palme. Ma il padrone teneva le bestie solo per un periodo e poi le abbandonava. E un giorno toccò anche a Cobre.
Gli animali sono sempre stati un oggetto narrativo molto sfruttato: per tornare alla mosca di Albani si può gare riferimento alla sua più celebre parente pirandelliana, oppure a romanzi recentissimi come I miei stupidi intenti di Zannoni o raccolte di racconti stupefacenti come Sei una bestia, Viskovitz di Boffa dove gli animali sono protagonisti, voci narranti sfuggenti all’immediata allegoria che cercano dignità nel loro essere prettamente animali, nelle loro peculiarità e non nelle differenze e affinità con l’uomo. Gli animali spesso fanno ridere, si pensi alle galline di Malerba oppure a quella di Calvino, ma anche ai cani di Kafka e di Bulgakov oppure ai gatti di Soriano e Laiseca, allo zoo di Buzzati. A proposito di zoo, qualche anno fa Voltolini e Vasta curavano una collana zoo scritture animali per :duepunti edizioni a sottolineare la fascinazione eterna del mondo animale. Un’attrazione che ha spinto all’elaborazione di bestiari fantastici, come quelli di Cavazzoni (Guida agli animali fantastici, Guanda 2011) o di Borges (Manuale di zoologia fantastica, Einaudi 1962) o persino dai tratti mostruosi come quello di Wilcock (Il libro dei mostri, Adelphi 1974). Sulla carica naturalmente comica degli animali possiamo scomodare persino Orwell che nella sua fattoria spinge alla risata nonostante la triste e ben chiara allegoria. Ma cos’è che ci fa ridere nell’animale? Gli animali sono spesso buffi e imprevedibili: somigliano all’uomo eppure vivono in maniera non umana, sono simili ma diversi. È caso che i video di gattini siano tra i video più visti e condivisi al mondo? Esiste addirittura l’Animal Friends Comedy Pet Photo Awards. Ma senza dover andare troppo nell’esotico e rispolverando un mio ricordo infantile: ricordate l’inizio de La carica dei 101? Quella sfilza di cani che somigliano sfacciatamente ai propri padroni. Ci fanno ridere, poche storie.
E gli animali, invece, ridono? Gli etologi, Lorenz tra i primi, osservarono che gli animali non ridevano: mostrare i denti, quindi ridere, in realtà era un gesto minaccioso. Quindi è vera la definizione lorenziana per cui l’uomo si può definire come l’animale che ride, essendo l’unico? A ben vedere no. Gli animali sono capaci di quel salto logico che presuppone l’ironia, lo scherzo, il gioco. Di certo la mimica facciale umana è senza pari, millenni di evoluzione hanno reso il nostro volto più espressivo di qualsiasi altro animale non primate. Spesso gli animali usano i versi per comunicare gioia e felicità, per giocare e scherzare tra loro. Non è un caso che le risate delle scimmie siano tra le più riconoscibili anche dall’uomo, così come mimica dell’intero corpo e la gestualità. In generale sono ormai dimostrate le capacità da parte degli animali di provare sentimenti estremamente complessi: non si può escludere che nella loro comunicazione, che passa anche attraverso gli odori ad esempio, non vi siano forme di ironia. Ben al di là di ciò che noi umani riconosciamo come comico solo perché ci somiglia. Però non va dimenticata l’aggressività animalesca in quel mostrare i denti che è il ridere. Questo per ricordare che la risata non è sempre inoffensiva, ma nasconde una dose di aggressività. Può non rappresentare un riso con qualcuno, ma una risata su qualcuno: che rende il prossimo non compagno e sodale bensì oggetto di scherno e derisione. Ridere può trasformarci in predatori, vedere gli altri ridere di noi ci trasforma in prede.
A questo punto possiamo passare a Vite di animali illustri di Roberto Kaz, giornalista e reporter brasiliano capace di raccogliere e raccontare le storie più strane e assurde attorno agli animali: divisi per categorie, ci sono i famosi e i lavoratori, gli artisti e gli sportivi, si alternano animali più disparati. Dai gatti divi di internet che regalano stipendi niente male ai propri padroni ai tori clonati, dai gatti da combattimento fino a un boa star del cinema. Non c’è neppure una riga di finzione, questi reportage raccontano storie assurde ma incredibilmente vere. E si toccano punte di una comicità notevole, sia nel contenuto sia nel modo in cui vengono raccontate. Già la prima storia, quella dello scimpanzé Tiao quasi eletto a Sindaco, fa sorridere. Queste storie, alcune a dire il vero strambe ma drammatiche, diventano più in generale uno specchio per raccontare delle miserie tutte umane. E non è in parte proprio il senso della commedia? Smascherare il ridicolo, il tragico, il peccato. L’affinità tra il mondo animale e la forma del reportage segna un discreto successo nell’ultimo periodo: Spillover ha ottenuto grandi riscontri specialmente a causa del contesto socio sanitario, ma ha riportato l’attenzione sul nesso profondo che lega l’uomo alle altre specie, e di conseguenza al mondo intero. Tutta la collana Animalia, sempre di Adelphi, conferma l’attenzione al linguaggio animale, al vivere animale, a un’alternativa di sguardi che non siano esclusivamente umani. Ma le storie di Kaz sono illustri e sono nuove, stupiscono e in qualche modo si accordano a un sentire comune, a un immaginario. Come scriveva Pavese perché lo stupore non nasce dalla novità, quanto dalla memoria. E alcuni di questi episodi, per quanto sconosciuti ai più o al massimo rintracciati per caso in rete, non sembrano del tutto nuovi, ma appaiono come ricordi appena ricordati. Questo forse è il merito dell’autore: l’esser riuscito a rendere concrete delle storie che altrimenti sarebbero apparse solo eccezionali, quindi lontane, uniche e fini a se stesse. Invece nella risata che spesso provocano lasciano anche la sensazione d’emergenza, di imbarazzo per quanto l’uomo sta infliggendo alla natura. Per tornare a noi viene da chiedersi se si possa ridere senza l’uomo? Ancora di più se l’uomo è metro di paragone, è spettatore del comportamento animale o persino ne diventa causa. Come questi reportage dimostrano alcune volte è l’essere umano a creare storie comiche, a regalare un po’ di assurdo al mondo. In queste vite animalesche l’elemento umano – ossia la partecipazione degli stessi – è preponderante. Per tornare alla domanda si può ridere senza l’uomo? Le esperienze di questi animali sono buffe – allo stesso modo di quei racconti che a volte appartengono ai bambini – oppure sono tristemente malinconiche – alla stessa maniera degli anziani. Come fosse impossibile considerarli umani veramente umani: o troppo piccoli e buffi oppure molto vecchi e malinconici. Con queste storie si fa leva sul sentimento dell’estremo. E forse l’uomo è necessario, anche se in secondo piano.
Borges mangia, dorme, si sveglia, fa le fusa; mangia, dorme, si sveglia, fa le fusa. Ma Borges è anche un personaggio pubblico, con ventisettemila follower. Ha un sito dedicato in cui scrive racconti e dà consigli da posta del cuore.
Vite di animali illustri riporta a una tradizione campanilesca, da Vite di uomini illustri, ma dove la carica comica in Campanile appartiene alla capacità di invenzione dell’autore in Kaz invece deriva dalla capacità di osservare l’assurdità del reale e di riportarla. Non c’è bisogno di inventare nulla per rendere gli animali così umani – e gli uomini così animaleschi. Allora, forse, i tre testi non sono così diversi come assunto in partenza e a legarli non è soltanto l’ironia. L’intento narrativo di ogni testo scritto è quello di conservare una storia e di raccontarla. In questo senso possiamo considerare il lettore come la più naturale evoluzione dell’ascoltatore, di colui che presta orecchio alla storia narrata. Nei Vangeli, e di conseguenza in tutte le tradizioni popolari, è nota la locuzione: chi ha orecchie per intendere, intenda. Ma avrei potuto citare anche non c’è peggior sordo di chi non vuol sentire e via dicendo. Tutte rimandano a una predisposizione all’ascolto: bisogna voler ascoltare e, aggiungere, essere nelle condizioni di ascoltare. Non tutte le storie sono per tutti, così come non tutti comprendiamo e riportiamo le stesse sensazioni dopo una lettura. I libri citati in queste pagine mostrano, in maniera differente, un’ironia di fondo. Questa ironia è la loro forza, ma allo stesso tempo può trasformarsi in una condanna. Quando nei lettori manca il senso dell’umorismo il testo rischia di non esprimere appieno le sue potenzialità narrative o di risultare persino ostico, quindi irritante e difficile nella lettura, respingente. Se leggere è andare anche al di là di ciò che è scritto, ossia riempire il bianco tra le righe, deve crearsi una simbiosi tra le parti: tra chi ascolta e chi parla, tra chi scrive e chi legge. L’autore dotato di ironia la usa – sottintendendo, creando paradossi, prendendo in giro alle volte i personaggi altre volte i lettori – e il lettore quando privo di spirito, nell’accezione freudiana, si nega l’accesso a tali porzioni di testo. Il lettore deve metterci del suo. Il comico, come scrive Ravasio, è letteratura in quanto, come la letteratura, non va preso alla lettera.
Del comico e sul comico ci si interroga da secoli. Sarebbe fuorviante l’approccio di chi si metta alla ricerca di una effettiva risposta. L’ironia del domandarsi e del cercare una quadratura del cerchio[4] è più che sufficiente e ci riporta al punto di partenza. Qual è il luogo più moscoso? Quello dove vivono già altre mosche. Qual è il luogo più adatto al comico letterario? Nei lettori dove già alberga l’ironia. Verrebbe forse da domandarsi come questo paese, fermento comico d’Europa appena un secolo fa, abbia condizionato e confezionato una letteratura prevalentemente seria, se non addirittura seriosa. Boriosa. Piena di sé e della definizione di impegno. Pedullà ne Le armi del comico afferma come il ‘900 sia appartenuto al comico, almeno in Italia, grazie alla farsa di Campanile, all’umorismo di Pirandello, alla satira di Gadda, per non citare Malerba, Savinio, Zavattini, Palazzeschi. Non è che forse, ma qui ci avviciniamo alla speculazione filosofica, dovremmo includere il binomio cultura&serietà tra i danni del ventennio Berlusconi? Non è che l’ascesa e l’affermazione della televisione come forma di evasione, spesso nazionalpopolare e semplicistica, abbiamo spinto la cultura a diventare nemica dell’intrattenimento? Sullo schermo un’abbondanza di risatine e sulle pagine l’impegno, serio e sinistroide? Ci siamo forse privati troppo a lungo di un senso dell’umorismo che non per forza deve significare superficialità? Davvero si può dire che Campanile non fosse intellettuale? Dario Fo? Volendo confermare questa posizione, avvalendomi di più autorevoli pareri, citerei Danilo Kiš.
C’era già tutto in Rabelais: la lingua, il gioco, l’ironia, l’erotismo e persino il famoso impegno politico. Cosa volete di più? (…) Poi si è disperso tutto.”[5]
Anche compiendo un taglio netto, come operato in queste righe, alla sola prosa romanzesca, è innegabile il contributo che fantasia e ironia diedero alla trasformazione dell’italiano letterario, ossia limitato ai colti, in una lingua davvero appannaggio di tutti gli italiani. Riscoprire l’habitat del comico è un’operazione anche sociale, potrebbe dire addirittura politica. Ma tornando alla funzione umoristica degli animali proviamo a concludere: già all’interno di narrazioni favolistiche da Fedro in poi e successivamente nel comico definito delle idee o ancora comico serio, ossia la letteratura d’utopia quindi le forme di satira, gli animali hanno rappresentato un fidato compagno di scrittura. Utilizzati come segnale di menzogna, di un mondo che rovesciandosi ne propone uno nuovo, in un’ipotesi alternativa, fusione d’idee fantastiche e umoristiche. È la capacità di mettere in discussione il reale, tramite l’esagerazione e l’elemento menzognero dell’animale, come ad esempio ne La fattoria degli animali di Orwell o Paralipomeni della Batracomiomachia di Leopardi, perché come scrive Italo Calvino:
L’animale, vero o fantastico che sia, ha un posto privilegiato nella dimensione dell’immaginario: appena nominato s’investe di un potere fantasmale. Diventa allegoria, simbolo, emblema.
L’elemento fantastico spesso si combina con l’elemento del viaggio, entrambi a favorire un senso di straniamento, di novità, d’imprevedibilità: si pensi ai romanzi di Durell dove gli animali non sono semplice sfondo, ma parte integrante della narrazione, compagni e strumenti per evidenziare l’assurdità del comportamento umano. Così come in Orwell gli animali diventano elementi di fantapolitica, suscitando riso, quindi preoccupazione e infine sdegno, via via che il lettore identifica e solleva il velo dell’allegoria. Quindi è probabile, o quanto meno non sbagliato, immaginare che gli animali siano essi stessi l’habitat del comico. Almeno uno dei preferiti e più facilmente abitabili, verrebbe da dire quasi naturalmente abitabili. Allora, provando a giungere a una conclusione che non appaia troppo affrettata, non dovremmo separare ciò che è impegnato da ciò che è ironico, non confondere il cosa con il come, non dimenticare gli animali quando raccontiamo degli uomini e del mondo. E l’augurio è che la risata torni a essere sinonimo di intelligenza, di saper stare al mondo, soprattutto ora che il mondo non è il migliore tra gli habitat dove vivere.
Note
[1] Iniziato su Altri Animali (https://www.altrianimali.it/2022/03/04/una-cosa-per-ridere-cartella-clinica-della-letteratura-comica-in-italia/) e portato avanti sulle pagine di Limina (https://www.liminarivista.it/autore/francesco-spiedo/) e di Singola (https://www.singola.net/arti/futucomiche-satira-e-letteratura-italia);
[2] Paolo Albani è scrittore, performer, poeta visivo, membro dell’OpLePo e autore di curiosi repertori encicopledici e racconti comico – surreali;
[3] Ma qual è il posto ideale per una mosca, quello più adatto, più naturale dove può vivere felice la propria moscosità? in Animali non addomesticabili pag.262, Exorma Edizioni 2019;
[4] Solo nel 1882 venne dimostrata l’impossibilità di tale operazione, sebbene da tempo fosse ormai acclarata una sorta di intrattabilità. Un limite che diventa però, nel linguaggio comune, la soluzione perfettissima a un problema in realtà irrisolvibile. Proprio ciò che spesso fa la risata: risolvere l’illogicità del mondo, la sua impossibilità logica.
[5] Danilo Kiš, L’ultimo bastione del buon senso, pag. 18 Wojtek Edizioni (2022);