di Maria Teresa Carbone
[Dopo Gianluigi Simonetti, Ilaria Feole, Francesca Borrelli, Andrea Cortellessa e Paolo Di Stefano, Maria Teresa Carbone ha intervistato Giorgio Zanchini per la sua inchiesta sul giornalismo culturale oggi].
Hai scritto un libro intitolato Il giornalismo culturale, dal 2013 dirigi con Leila Mazzoli il Festival del giornalismo culturale a Urbino, e il giornalismo culturale lo pratichi da anni in vari programmi alla radio e in tivù. Insomma, sei un’autorità in materia. Qual è dunque la tua definizione di giornalismo culturale oggi? E quali sono stati per te i cambiamenti più significativi in questo campo negli ultimi vent’anni (un’inezia per certi versi, un’eternità per altri)? In particolare, come interpreti la nascita recente di due testate, Snaporaz e Lucy, che – scelta da noi insolita – chiedono alle lettrici e ai lettori di abbonarsi, insomma, di pagare?
A parte le parole francamente troppo generose con le quali mi presenti, ma conosco la tua gentilezza, vorrei partire dalle due nuove testate online che citi, Lucy e Snaporaz. È stata la tua sollecitudine a spingermi a leggerle con un minimo di attenzione, e devo dire che le ho trovate originali e stimolanti. Perché parto da qui? Perché il tratto che secondo me caratterizza il giornalismo culturale contemporaneo – e che è il corrispettivo culturale di quello che accade più in generale nell’universo mediatico – è l’abbondanza. Gli studiosi a proposito della televisione del dopoguerra parlano di tre età: della scarsità, della ricchezza, dell’abbondanza. Oggi viviamo nell’età dell’abbondanza, forse della sovrabbondanza. L’offerta è enorme, orientarsi è difficile, capire chi vale la pena leggere anche. La quantità di pagine culturali, riviste, testate digitali, app, podcast è soverchiante.
Per questo si pongono a mio avviso due problemi: come scegliere, per chi è fruitore, e come mantenersi e retribuire, per chi è produttore. Non a caso le due testate dalle quali siamo partiti sono sin dall’inizio a pagamento.
Per tornare però alla tua domanda generale, qualche anno fa ci si interrogava molto sui contenuti, su cosa ritenevamo fosse l’informazione culturale, cosa intendevamo per cultura. Oggi lo si fa meno, mi pare, perché i confini, di contenuto e di accesso, sono saltati, e si ragiona di più sui due problemi che ho elencato.
Andiamo indietro: nel 1976 Eugenio Scalfari volle che la cultura occupasse la doppia pagina centrale della neonata Repubblica: “la Cultura come … una sorta di perno intorno a cui tutto ruotava”, avrebbe scritto in seguito Paolo Mauri, evocando “una vecchia campagna pubblicitaria di Repubblica che sui muri delle grandi città prometteva di inviare ogni giorno una lettera agli intellettuali, agli insegnanti, agli studenti e alle donne, cioè ai principali attori della vita sociale e politica di quei giorni”. Senza istituire inutili confronti, ti chiedo: oggi a chi si rivolge il giornalismo culturale? E quali sono i suoi veicoli?
La risposta non è semplice perché bisognerebbe anzitutto partire da una analisi empirica delle diete mediali, del numero dei lettori, del tipo di fruizione. La mia impressione è che al tempo di Repubblica il mondo, per così dire, fosse molto più semplice e leggibile. La mappa dell’offerta informativa era conosciuta e conoscibile, il numero dei lettori direi anche, la cerchia della società letteraria e di coloro che erano interessati ai temi delle pagine culturali era tutto sommato perimetrabile. Oggi no. Oggi è molto più difficile dire dove passa l’informazione culturale e chi sono i fruitori. La mappa è molto più vasta, ci sono decine di accampamenti, l’offerta è un immenso baobab, o per essere più precisi una rete in cui i percorsi dell’informazione sono moltissimi e quasi nessuno riesce ad avere uno sguardo davvero complessivo. Gli utenti più giovani stanno sempre sul web ed è lì che cercano e si informano. Le diete mediali non a caso ci parlano di faglie generazionali, con consumi molto diversi. I più curiosi, i più virtuosi riescono a uscire dalle nicchie o da percorsi predefiniti o bolle, e a incrociare i flussi, abbeverarsi da tante fonti. La chiave è secondo me quella di scegliere i filtri giusti.
Ho accennato alla tua lunga esperienza alla radio e in tv. Vuoi dire qualcosa su come si declina oggi il giornalismo culturale in questi media? Come mai la radio (penso in particolare, ma non solo, a Radio Tre Rai) pare un canale privilegiato per i contenuti culturali? E inversamente, non credi che in Italia molte persone che lavorano alla televisione considerino i programmi sui libri un po’ come la kryptonite per Superman? Secondo te, c’è del vero? E se sì (o se no, perché)?
Provo a essere sintetico altrimenti vi inondo di osservazioni e ricordi. Anche l’offerta radiotelevisiva ha beneficiato della rivoluzione digitale e della fruizione non lineare, intendo dire attraverso il podcast e Raiplay, non in simultanea, non in diretta. La rivoluzione digitale si è rivelata alleata dell’offerta culturale. Tra radio e tv lineare, e radiotv catch up, come dicono gli inglesi, l’offerta è enorme e complessivamente direi di qualità. Chi desidera prodotti di qualità li trova. Diverso probabilmente il discorso per l’offerta lineare, in diretta. Radio3 continua a navigare piuttosto bene, e a conservare più o meno lo stesso numero di ascoltatori – abbastanza alto – da decenni. Perché cambiare? Più difficile far passare contenuti culturali sulle altre radio, comprese Radio1 e Radio2, e ancora di più sulla televisione generalista. I programmi sui libri sono pochi, e cercano sempre di trovare un compromesso tra qualità e ascolti, perché gli ascolti sulle generaliste restano inaggirabili.
A proposito di libri, riprendo una domanda che hai fatto a Marino Sinibaldi nel libro-intervista Un millimetro in là. Intervista sulla cultura (Laterza 2014): “Il nostro modo di vivere sottrae tempo alla solitudine della lettura, a lunghe letture che esigono concentrazione… Con quali conseguenze?”. E aggiungo: come commenti il paradosso almeno apparente di un mondo dove l’analfabetismo è stato sconfitto ma i lettori “veri” non solo non crescono, ma anzi sembrano diminuire?
Spero di non dare giudizi troppo impressionistici. I dati mi sembrano dirci che il tempo di lettura e soprattutto il tempo di concentrazione, quello non interrotto da una notifica, da uno sguardo allo smartphone, da una ricerca di qualcos’altro, da un nutrimento dopaminico, si è molto ridotto. Con quali conseguenze? Troppo difficile dirlo adesso, forse è ancora prematuro, ma insegnanti e docenti esprimono non poche preoccupazioni. Ce ne siamo occupati con Giovanni Solimine ne La cultura orizzontale. Verticalità e orizzontalità: il rischio è la perdita dei saperi correlati, e della capacità di dare verticalità, che significa soprattutto profondità storica, a ciò che si legge, si apprende. L’ultimo Rapporto Censis sulla comunicazione, che dedica non poche pagine alla lettura, e ai vari supporti sui quali si legge, avanza considerazioni molto preoccupate, e parla esplicitamente di un forte ritorno di analfabetismo funzionale, persone non in grado di capire testi con un minimo di complessità, persone che costruiscono i loro giudizi sulla base dell’esperienza personale e soggettiva, quasi incapaci di assorbire punti di vista altri, idee e riflessioni elaborate da altri.
Nella prima di queste conversazioni Gianluigi Simonetti ha detto che “i festival sono principalmente un luogo di comunicazione e di spettacolo, in felice interazione con il mondo virtuale e con la promozione permanente; a volte però può succedervi qualcosa di davvero potente e interessante, come sempre può succedere quando le persone si incontrano in carne e ossa e si guardano negli occhi… Ma che scocchi una scintilla mi pare più l’eccezione che la regola”. Da cofondatore e codirettore del Festival del giornalismo culturale, cosa ne pensi?
Mi viene da sorridere, perché avendo per mestiere frequentato e raccontato decine e decine di festival quasi non ne posso più…Rischio cioè di essere viziato dall’abitudine, che mi faccia velo un occhio troppo smagato; quindi, non solo sottoscriverei ma quasi rafforzerei l’affermazione di Simonetti. Mi sembrano riti molto ripetitivi, autori e autrici ci vanno molto per promuovere i loro libri, che scocchino scintille mi pare difficile. Ma forse per chi non sta sempre dentro questo ambiente è invece comunque un’occasione stimolante, e quindi credo di dover fare un passo indietro. Oggi io trovo più stimolanti le occasioni nelle quali c’è una discussione attorno a un tema, magari sollecitato da un libro, mi seduce ancora il dibattito delle idee, sulle idee. Tipo le prime pagine dell’inserto culturale del Corriere, La lettura.
Ancora Simonetti ha detto che “i social non [gli] sembrano uno spazio praticabile per la vera cultura; il problema è che abbiamo imparato a confondere la cultura con lo spettacolo e con la comunicazione”. Eppure, oggi anche le case editrici più tradizionali guardano a fenomeni come #booktok con interesse e in generale molti pensano che sia utile “parlare di libri” ovunque e purchessia, perché – dicono – si guadagnano lettori soprattutto tra i giovani. Qual è la tua posizione? Si può fare giornalismo culturale via social?
Credo proprio di sì. Bisogna però chiarirsi sugli obiettivi. Che cosa chiediamo ai social? Che cosa chiede ai social una casa editrice o un’autrice/autore? Hanno ragione tutti… ha ragione Simonetti, quando dice che si rischia una dimensione prestazionale, spettacolare, ma hanno ragione dal loro punto di vista le case editrici: sono luoghi dove si parla di libri, magari in modo semplicistico, ma se ne parla, e spingono le persone a leggere, a comprare. Torno su quanto dicevo prima. Il campo è enorme, come diceva Susan Sontag there are no rules, anything goes…l’importante è che il sistema sia ramificato e che si sappia andare da un ramo all’altro, i social possono essere dispersivi e banalmente assertivi, ma ti possono portare lontano e far conoscere testi, articoli, idee. A me è capitato spessissimo. Bisogna lavorare sull’information literacy.
Sulla base delle tue ricerche, ritieni che la situazione italiana nel campo del giornalismo culturale presenti differenze sostanziali rispetto a quello che è avvenuto e avviene in altri paesi?
Fammi rispondere con tre affermazioni: 1) l’Italia e il giornalismo culturale italiano continuano ad essere secondo me variegati e stimolanti, tra offerta online e offline, però ancora non riusciamo a incidere sul numero dei fruitori: i lettori forti sono più o meno sempre lo stesso numero; 2) l’Italia è conservatrice e sbilanciata demograficamente anche in questo settore: sui media mainstream si fatica molto a trovare voci giovani. In rete no, ma l’osmosi è ancora insufficiente; 3) in Italia c’è un grande problema di sostenibilità economica. Altre realtà giornalistiche sono più solide economicamente, da noi il lavoro culturale si paga sempre meno, o poco o affatto. Mettere paywall, far pagare per leggere gli interventi sinora ha funzionato poco. Vedremo.